Una finale di tennis

Tocca spendere due parole in più sulla finale di ieri.
È come se l’avessi vista un’altra volta durante la notte. Ho preso sonno un po’ tardi.
Non capisco nulla di tennis e questa forse è la nona o la decima partita che guardo dall’inizio alla fine.
Ma non è comunque di tennis che voglio parlare, non saprei cosa dire.
Ogni volta che guardo un evento sportivo mi concentro sempre di più sulle gesta umane più che sulle giocate tecniche.
Mi spiego, se sto guardando una partita di calcio mi concentro su come i giocatori reagiscono caratterialmente a un evento imprevisto, a un errore o a una condizione che teoricamente non dà loro nessuna possibilità di farcela.
Sempre nel calcio cerco di capire i rapporti personali tra i compagni, se due sono veramente amici o se invece devono sopportarsi solo perché vestono la stessa maglia.
Due aneddoti in questo contesto. Mi fece impazzire quando Pellegatti durante una partita del Milan fece notare che Rui Costa era andato in panchina per chiedere di avere un’altra cicca. Secondo il commentatore lo faceva ogni volta che pensava di giocare male. L’altro invece riguarda i primi mesi di Neymar al Barcellona, ricordo di aver visto un ragazzo che dava l’idea di sentirsi in difficoltà in quel contesto. Eppure era Neymar, ma a guardare la sua espressione sembrava si sentisse un imbranato. Poi si bloccò definitivamente dopo un gol nel Clasico, se non ricordo male.

Dell’esperienza di ieri mi porterò il ricordo dell’opposto coinvolgimento interiore alle difficoltà dei due protagonisti.
Di Federer mi ha sorpreso il totale vuoto emotivo che si percepiva alla fine di ogni punto. Che l’avesse vinto o meno, la reazione era sempre la medesima.
Impassibile, glaciale, stesso passo morbido ed elegante per tornare in posizione. Mai niente di più. Nulla traspariva dai suoi occhi.

Di Djokovic invece l’incapacità di arrendersi. In lui è oggettivamente più facile capire cosa gli stia passando per la testa. È capitato che l’espressione facciale o uno sguardo verso la sua squadra sia stato sufficiente per comprendere cosa stesse provando. Nonostante questo, nonostante certe giocate da togliere il respiro dello svizzero e la reazione incontrollata ogni volta del pubblico, lui puntualmente era pronto a rispondere, come se niente fosse successo.

Perché guardo queste cose, quando potrei o forse dovrei concentrarmi sulle giocate singole degli atleti? Perchè in qualsiasi evento sportivo ci vedo un riassunto della vita. Che poi è essa stessa una partita. Il tempo è limitato, nasci con determinate qualità e sai che puoi migliorarle, ti prepari giornalmente per giocare, ma poi quando scendi in campo arriva di tutto tranne quello che ti aspettavi.
E allora che fai?
Come reagisci agli ostacoli?
Quanto riesci a durare?

Ho sentito dai telecronisti dire che Federer ha modificato il suo modo di giocare e questo gli sta permettendo di eliminare certe debolezze che aveva specialmente contro Nadal e Djokovic. Non entro nel merito, non so di cosa stessero parlando, ma la sensazione che ho avuto osservandolo ieri è che sia totalmente cosciente dei propri mezzi. In passato ricordo di aver pensato di lui, forse erroneamente, nel caso perdonatemi, che non fosse caratterialmente uno che riusciva ad affrontare determinate situazioni.
Ieri ci sono stati momenti in cui ho avuto la sensazione che volesse prendersi un punto e puntualmente lo vinceva. Ha avuto un paio di accelerazioni e non c’è stato nulla da fare per il serbo. Da casa ho provato una sorta di timore, pensando a quanto fosse forte la combinazione tra la volontà e le capacità fisico-tecniche dello svizzero. A 37 anni ha messo in mostra una prestazione di 5 ore inspiegabile. A me non sembrava neanche poi tanto stanco alla fine.
Mentre Djokovic, dopo un’impresa indescrivibile, all’ultimo errore dell’avversario non ha neanche esultato come avrebbe tranquillamente potuto.
Io a casa ero esausto, sia fisicamente che mentalmente. E probabilmente non mi sono ancora ripreso del tutto.
C’è da goderseli questi eventi e anche da imparare.
Uno che a 37 anni ancora cerca di migliorarsi e l’altro che ti insegna a rialzarti ogni volta, indipendentemente da cosa ti sia accaduto.
Doveva essere una finale di tennis,
è stata molto di più.

Gezim Qadraku.

(Immagine AFP / Ben Stansall)

Mkhitaryan e la politica nello sport

La notizia ufficiale è arrivata settimana scorsa, quando il calciatore armeno ha annunciato con un tweet che non avrebbe preso parte alla finale di Europa League a Baku.

Tra Armenia e Azerbaijan i rapporti sono tra i pessimi possibili. I due paesi sono impegnati da trent’anni nella guerra del Nagorno-Karabakh, un pezzo di terra conteso da entrambi. Conflitto che ha visto un cessate il fuoco nel 1994, ma che riprende a scadenze mensili. Nessuno pare essere interessato a fermarlo.

Dall’annuncio del giocatore è partita una corsa forsennata alla ricerca di un colpevole.
In molti si sono riversati contro la UEFA, esercizio sempre comodo in occasioni del genere – sparare a zero contro i nomi grossi è facile e attira l’attenzione – altri si sono accaniti contro l’Azerbaijan per non aver garantito la sicurezza necessaria a convincere il giocatore.

Leggendo e informandosi sulla figura di Mkhitaryan, si può comprendere quanto il suo spessore e la sua importanza in patria siano concetti per noi difficilmente comprensibili. I miei amici di Curva Est sono da poco tornati da un viaggio a Yerevan e il responso girando le vie della capitale è che ci sono solo magliette di Henrick. E non solo quella della squadra per la quale milita ora, ma di tutte quelle nelle quali ha giocato. Insomma, l’importante è avere sulle spalle il suo cognome.

Questo appunto per dire che il ragazzo non ci sarebbe mai andato a Baku. Neanche se l’avessero portato in elicottero e l’avessero fatto scendere direttamente in campo. Giusto per fare un esempio impensabile.
Noi non possiamo capire cosa significhi avere un paese sulle proprie spalle e se lui ha deciso di rinunciare a giocare una finale di Europa League, l’unica cosa che si può fare è accettare la sua decisione.

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Mappa della regione (CARC)

Ci si può, anzi, ci si deve fare un paio di domande. Perché l’Arsenal si è svegliato solo dopo aver raggiunto la finale? Nel girone di qualificazione i londinesi affrontarono il Qarabag, che a causa del conflitto nel Nagorno-Karabakh è costretto a giocare le partite di casa a Baku. Naturalmente il giocatore armeno non prese parte alla trasferta. Insomma, si sapeva già da un po’ che la finale si sarebbe giocata a Baku e che questo problema non si sarebbe smaterializzato.
Agire prima e prendere una posizione forte contro la UEFA?
E se si fosse trattato di un titolarissimo o di un top-player come Ronaldo e Messi?

Coloro che amano attaccarsi a UEFA e FIFA sempre e comunque, si sono domandati che bisogno c’era di scegliere Baku come destinazione. Domanda più che legittima, visto e considerando due punti:
1- La distanza
2- La situazione in termini di diritti umani e libertà di espressione in Azerbaijan.

Purtroppo siamo abituati a seguire i più importanti eventi sportivi in paesi che non brillano in termini di democrazia e diritti umani. Cina, Russia e il prossimo mondiale in Qatar che ha già fatto il pieno in termini di pessima figura.

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Le spettacolari torri di fuoco a Baku

L’Azerbaijan però fa molto comodo all’intero continente europeo. C’è di mezzo il gas e la dipedenza totale dell’Europa dalla Russia. L’unica soluzione possibile al momento per risolvere il problema russo è quello di ricevere il gas azero. Pur di raggiungere questo obiettivo negli anni passati Baku, in stretta alleanza con diverse figure del nostro continente, non si è fatta mancare nulla. Alla base c’era un mega-progetto di corruzione, con una marea di soldi che da Baku sono transitati un po’ ovunque nel vecchio continente. Lo scandalo ha preso il nome di “lavatrice azera” o “caviar democracy” e l’obiettivo era quello di pagare chiunque fosse in grado di parlare o votare – nelle sedi opportune – a favore di Baku. In questo modo si sono comprati il Consiglio d’Europa per far bocciare il rapporto Strasser. Il quale denunciava la presenza di 85 prigionieri politici in Azerbaijan e una situazione imbarazzante in termini di libertà.
In questo paese lavorare come giornalista freelance o come oppositore politico è quasi impossibile. Si rischia il carcere anche per un like alla pagina sbagliata.
La bocciatura di tale rapporto ha permesso all’UE di dare il via libera al TAP, il gasdotto che parte da Baku e arriverà fino in Puglia e permetterà al vecchio continente di diversificare le entrate di gas.
Tutto questo accade nel 2013, a gennaio bocciatura del rapporto e a giugno il benvenuto al gasdotto.

La famiglia Aliyev ha acquisito ulteriore notorietà anche dopo i Panama Papers, con il loro nome che è stato uno dei più evidenziati. Società e conti offshore per poter mettere le mani e godersi al meglio la ricchezza derivante dalle fonti più importanti del paese: miniere, agenzie di telefonia e compagnie aeree. A cercare corruzione si va sempre a finire per trovare l’Azerbaijan. Prima di essere brutalmente uccisa, la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia aveva dimostrato come l’elite azera riciclasse i propri soldi in una banca di Malta, tale Pilatus Bank. La giornalista, come detto, è stata fatta fuori. Il direttore della banca è stato arrestato negli USA e rischia 100 anni di galera e alla banca è stata revocata la licenza dalla BCE.

Un paese come l’Azerbaijan si trova a dover affrontare due enormi problemi: la totale dipendenza dal petrolio e tutte queste brutte macchie o scheletri dell’armadio, chiamatele come volete. Visto che il meccanismo di corruzione è saltato fuori ed è comunque rischioso, un altro bel progetto è quello di puntare sullo sport. Definiamola “sport policy”, con l’obiettivo di tirare via le macchie e dare un’immagine migliore del paese in giro per il mondo. Dal 2000 a oggi gli eventi sportivi tenutisi a Baku sono stati davvero numerosi. I più ecclatanti senza dubbio il GP di Formula 1, l’Eurovision Contest, questa finale di Europa League e le quattro partite del prossimo Europeo.
In questo modo lo sport viene utilizzato come maschera e permette di agganciare investimenti esteri e provare a muovere l’economia verso un’altra direzione. Nonostante l’oro nero abbia dato i suoi frutti, solo per la famiglia degli Aliyev e chi è vicino a loro, a lungo andare essere economicamente totalmente dipendenti da una risorsa come questa è troppo rischioso.

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Grand Prix di Baku

In questa storia, come potete vedere, c’è un bel mix di ogni ingrediente, ma come al solito alla base ci sono interessi enormi.

Negli ultimi giorni sono venuto a conoscenza del fatto che la decisione del giocatore non è stata apprezzata da tutti i suoi connazionali. Qualcuno ha fatto notare come diversi atleti armeni abbiano preso parte ai giochi olimpici (tenutisi a Baku), dimenticandosi però la differnza tra l’essere Mkhitaryan e un semplice sportivo armeno. Dalla parte azera le critiche sono state dure, addirittura di razzismo per aver fatto passare il paese come un posto dove la sicurezza delle persone viene messa a rischio.
Per concludere arrivano notizie da Londra secondo le quali a tifosi londinesi di origine armena sarebbe stato negato il visto. La ciliegina sulla torta.

La storia ci ha mostrato come lo sport in certi casi abbia permesso alla politica di fare passi da gigante, come per esempio la diplomazia del ping-pong che avvicinò Cina e USA, oppure la gara tra Iran e USA nei mondiali di Francia ’98, che permise ai due Stati di dare vita a un processo di miglioramento delle relazioni.

Questa volta la politica è entrata nel mondo dello sport senza chiedere il permesso e ha fatto sì che quest’ultimo toccasse uno dei punti più bassi di sempre.
Situazioni del genere ce ne sono parecchie e molte volte ragioni come la differenza di livello o semplicemente il caso fanno sì che certi paesi non si incrocino in determinati contesti.

Ci si chiede sempre, giustamente, che la politica resti fuori dai campi sportivi.
È veramente possibile?
Forse solo se lo sport non giocasse un ruolo così determinate a livello globale, ma ai giorni d’oggi oltre a essere diventato un’enorme azienda capace di fruttare quantità di denaro sempre più consistenti, ha anche la capacità di giocare un ruolo maggiore in contesti come la politica e le relazioni internazionali.

La storia di Mkhitaryan è una sconfitta enorme per il calcio, che purtroppo finirà nel dimenticatoio dopo il fischio iniziale di domani sera.

Gezim Qadraku.

BEST

Rispettare le regole, un concetto che non ha mai fatto parte del suo codice di comportamento. Non lo faceva per dimostrare qualcosa a qualcuno o per fare la parte del ribelle. Lui era semplicemente così, niente di più.
Sarebbe bastato solo il cognome, ingombrante è dire poco, a mettere pressione a chiunque altro avesse voluto diventare un calciatore, o comunque uno sportivo. La pressione, altro concetto che non ebbe posto nella sua quotidianità. Giocava a calcio con la stessa facilità con la quale avrebbe deciso di rovinarsi la vita. Sì perché per George decidere un Manchester – Liverpool, era come farsi fuori tutto l’alcool che il pub dell’occasione gli metteva a disposizione.
Il migliore, come recitava il suo cognome, lo diventò per davvero. Purtroppo fu una fiamma della durata troppo breve, due o tre stagioni, non di più.
Si prendeva gioco degli avversari in maniera così facile, che riguardando le immagini viene da pensare che gli altri fossero davvero scarsi. Pure uno come Cruijff andò in difficoltà contro di lui, quando quel giorno del 1976 si prese un tunnel e quella frase che non ha bisogno di commenti.

Tu sei il migliore perché io non ho tempo”.

Poi rimase solo il ricordo, perché anche se lui c’era e giocava ancora, poco ma giocava, non sarebbe più stato il migliore. Aveva deciso di impegnare tutte le sue fatiche ai banconi dei pub e quello che gli restava sul campo da calcio. Si distrusse con le proprie mani, dando alla sua esistenza un finale terribile.
Se ne andò undici anni fa, a salutarlo ci furono qualcosa come 25mila persone.
Per quelli come me, che non hanno avuto la possibilità di poterlo guardare in televisione, rimarrà l’idea di essersi persi qualcosa di leggendario.
Perché il 7 del Manchester United sarà per sempre suo.
Continuerà ad essere ricordato per quello che fece in campo, per quello che avrebbe potuto essere e per come riuscì a buttare via tutto il suo talento.
Se ne accorse quando ormai era troppo tardi, quando poche ore prima di morire lasciò a tutto il mondo un messaggio importante:

Don’t die like me”.

Gezim Qadraku.

DIEGO!

Dopo il secondo gol di Maradona contro l’Inghilterra, ai mondiali di Messico’86, un miliardo di persone saltarono all’unisono.
Emir Kusturica nel suo film “Maradona di Kusturica”, afferma che solo un miracolo ha fatto sì che l’asse terrestre non si sia inclinato maggiormente in quell’istante.  Il regista è riuscito a portare Diego a Belgrado, dove l’argentino ha potuto visitare la città e rimettere piede al Marakana, lo stadio della Crvena zvezda (Stella Rossa).
Campo nel quale Diego segnò un gol bellissimo con la maglia del Barcellona, durante l’ottavo di finale di coppa delle coppe nella stagione 1982/83. Un’azione solitaria alla Maradona, iniziata a centrocampo e conclusa con un pallonetto delizioso dal limite dell’area di rigore. I tifosi belgradesi non poterono fare altro che alzarsi in piedi e applaudire.
Nonostante la rete subita, era una di quelle giocate per la quale il pubblico di Belgrado pagava il biglietto. Lo ricorda Vladimir Dimitrijevic, nel suo bellissimo libro “Il mondo è un pallone rotondo”:

Il pubblico di Belgrado è esperto ed esigente. Se in squadra non c’è un giocoliere, protesta: “Che storia è questa? Ridateci i soldi!”.

Quella sera poterono godersi il giocoliere per eccellenza, peccato per loro che vestisse la maglia della squadra avversaria.
Restando nel mondo cinematografico, il maestro Paolo Sorrentino nel discorso di ringraziamento per l’Oscar, menzionò tra le sue fonti di ispirazione anche Maradona. Nel film successivo (Youth – La giovinezza) riuscì addirittura ad inserirlo nella sceneggiatura. Mi è rimasta impressa una scena di quella pellicola, due personaggi sono in piscina e mentre si rilassano uno di loro parla con un bambino. L’argomento della conversazione è la caratteristica dei mancini di essere irregolari, e come tali, la loro capacità di trovare la posizione più adatta, per esprimere il proprio talento, appunto in una posizione non regolare. Mentre i due parlano, il personaggio di Diego si avvicina e dice: “Anch’io sono mancino sai?” e uno dei personaggi gli risponde: “Cristo, tutto il mondo sa che lei è mancino”.
Esatto, può esserci qualcuno sul globo terrestre che non sappia che Diego è mancino?
Nel caso, dovrebbe essere punito legalmente.

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La mano de Dios.

“Diego era proprio un bell’avversario. È stato sempre picchiato abbastanza eppure non diceva mai nulla.Era molto simpatico, parlava tanto, soprattutto nel tunnel prima di entrare in campo. Mi ricordo che si lamentava sempre per qualche dolore, diceva: «Oggi non ce la faccio, mi fa troppo male il piede» e cose del genere. Poi cominciava la gara e diventava un avversario incredibile, non riuscivi a fermarlo. Un mostro, anche fisicamente, non solo tecnicamente.”
Paolo Maldini.

Non ho avuto il privilegio di poter vedere Diego dal vivo, sono nato troppo tardi, quando la sua carriera era quasi finita. Sono cresciuto guardando le sue giocate prima nelle videocassette, poi nei film e ora YouTube mi dà la possibilità di potermelo riguardare ogni volta che voglio.
Ve lo dico subito, lo considero il migliore di tutti.
Da semplicissimo tifoso, reputo Diego la miglior rappresentazione di calcio che si sia mai vista.
Penso sia una questione basata sul tipo di emozioni che una persona ti fa provare, mentre la osservi praticare l’arte per la quale è nata. L’effetto delle giocate di Diego è difficile, e credo inutile, cercare di descrivere.

Chi ha giocato a calcio sa bene quanto un giocatore possa cambiare dall’allenamento alla partita. Quante volte abbiamo avuto a che fare, o sentito dire di calciatori che in allenamento facevano cose mai viste, per poi diventare le loro peggiori copie nei 90′ minuti. La tensione della gara ha distrutto tanti potenziali fenomeni.
Riguardando le immagini di Maradona saltano subito all’occhio la facilità e la tranquillità con le quali si destreggiava in campo, le stesse con le quali un essere umano clicca i tasti della tastiera di un computer. Un genio nella propria disciplina, è colui che è in grado di fare ciò che gli altri non possono neanche immaginare, il tutto con estrema naturalezza. Lui l’impossibile lo faceva sorridendo e a passo di danza.
Ci sono due gol di Diego, che rappresentano per me tutto quello che lui è stato e perché lui è Maradona e gli altri sono gli altri.
Potrei parlarvi del secondo gol all’Inghilterra, ma non rispecchia a pieno l’idea che ho dell’impossibile. Quella rete, per quanto sia un’esperienza nuova ogni volta che la rivedo, e non solo una giocata maestosa, ma una vittoria nei confronti degli inglesi, un tentativo di farsi scusare dopo il gol di mano e una rappresentazione della sua netta superiorità; negli anni seguenti in molti sono riusciti ad emularla in qualche modo. Ovviamente si parla di altri contesti, nessuno è riuscito a riprodurla in un mondiale per decidere una partita come fu quella con l’Inghilterra.
La prima rete della quale voglio parlarvi, è il pallonetto contro il Verona. Anche in questo caso, di gol simili se ne sono visti tanti. Quanti giocatori sono riusciti a sorprendere i portieri da distanze enormi, ma a nessuno l’ho visto fare con la facilità del Diez.
Il pallone sta rimbalzando a metà altezza davanti a Diego, potrebbe lasciarlo cadere per poi saltare l’uomo, invece decide di colpirlo dopo essersi coordinato e aver visto il portiere fuori dai pali. E’ un gesto che risulterebbe meno difficile se fosse eseguito per fare un lancio o un cross, ma lui tira in porta, e lo fa con la volontà di mettere la palla proprio dove lei va a finire. Prima bacia il palo e poi si insacca in rete. Tutto questo fatto con la solita naturalezza disarmante. Non è solamente un provare a sorprendere il portiere, nel modo in cui calcia quella palla c’è la convinzione di fare quello che si materializza pochi secondi dopo.

Il secondo è il famoso gol contro la Juventus, la punizione a due in area di rigore. Nelle immagini si nota subito che la barriera bianconera non era ad una distanza regolamentare, come ricorda il capitano Bruscolotti in un racconto poetico di quel momento. Dopo aver vanamente tentato di chiedere all’arbitro il rispetto delle distanze, Diego decide di fare la follia.
Tanto gli faccio gol comunque”.
E’ un gol impossibile, non so se qualcuno l’abbia mai studiato nell’ambito fisico, ma non penso sia realizzabile quella traiettoria. La palla non poteva superare la barriera e finire in rete, era troppo vicina, non c’era lo spazio necessario per farla scendere. Diego non calcia semplicemente quella palla, la prende, la accompagna con il piede fino a sopra la barriera, solo una volta superata la testa dei bianconeri sembra che stacchi il piede e lasci la sfera abbassarsi.
GOL.
Meraviglioso, assurdo, irripetibile.

 

“Su Maradona va fatto un discorso a parte. Non si è mai realmente allenato. Poteva fare riscaldamento a scarpe slacciate. Lo vidi giocare a Stoccarda con il Napoli quando avevo 21 anni. Mentre lo vedevo riscaldarsi, non riuscivo a tenere la bocca chiusa. Lo faceva ad un ritmo così blando, praticamente camminava. Poi cominciò la partita e mise a tacere l’intero stadio. Fu qualcosa di incredibile”.
Jürgen Klopp.

Diego ha preso l’impossibile, ci ha palleggiato e l’ha messo sotto l’incrocio dei pali.
Non si è limitato a mostrare il suo talento, ha vinto e lo ha fatto in condizioni difficili. La sua più grande impresa rimarrà quel mondiale del ’86, dove in molti sono d’accordo nel dire che l’abbia realmente vinto da solo.
Quello che ha fatto a Napoli non è di certo da meno, la differenza è la squadra che aveva intorno, una signora squadra. Gente come Careca, Carnevale, Giordano, Bagni, Ferrara.
Due campionati, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e la Coppa Uefa.
Non è di certo un caso che il miglior Maradona lo si sia visto con la maglia partenopea.
Napoli è la città italiana che più si avvicina al mondo argentino. Oltre ad una questione urbanistica, i vicoli, le mura e i colori che ricordano quelli sudamericani. La caratteristica principale in comune tra i due mondi, è il modo di vivere il calcio. Pensi all’Argentina e il primo stadio che ti viene in mente è la Bombonera, automaticamente la tua memoria va alle esultanze di Riquelme, Palermo, Tevez e il boato dello stadio.
Le esultanze degli argentini non sono semplici momenti di gioia, arrivano dal profondo, è il loro cuore che urla, in quel momento sembra una questione di vita o di morte.
L’unico stadio italiano dove si ripete questo modo di vivere il calcio è il San Paolo.  A Napoli gli avversari si accorgono di giocare in dodici contro undici, il pubblico partenopeo è l’uomo più.
Quando il Napoli segna,  la terra trema e la città si risveglia.
Napoli non è solo una città, è un sentimento.
Diego per i partenopei è stato il Dio sceso in terra ad esaudire le preghiere di una vita.
Si è guadagnato l’amore eterno vincendo, portando il sud sopra tutti, ridando al suo popolo una dignità nazionale. Pensi a Napoli e automaticamente pensi a Diego, non avrebbe potuto giocare in un’altra squadra italiana.
Messi accettò di essere intervistato da Saviano, non perché lo conoscesse, ma perché gli avevano riferito che era napoletano. Napoli per gli argentini significa Diego, e Diego per loro viene prima di qualsiasi altra cosa.

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Maradona a Napoli, per sempre.

“Agnelli mi corteggiava come potrebbe fare un innamorato con una donna. Mi chiamava continuamente promettendo cifre pazzesche. Mi disse che aveva offerto 100 miliardi a Ferlaino e di mettere io la cifra sul mio assegno. Gli risposi che non avrei mai potuto fare questo affronto ai napoletani perché io mi sentivo uno di loro, che non avrei mai potuto indossare in Italia altra maglia se non quella del Napoli.”

L’impossibilità di essere normale ha inciso tanto sul campo, quanto fuori dal rettangolo di gioco. La necessità di andare oltre ai confini, gli ha fatto toccare con mano la morte, la droga, il doping. Si può discutere quello che ha fatto quando non calzava gli scarpini, ma quando aveva addosso la Diez, beh su quello non si può dire nulla. O forse una cosa sì, grazie.
E’ stato un Dio, e agli Dei si perdona tutto.
Se per qualche impensabile motivo non avesse giocato a calcio, sarebbe sicuramente stato un rivoluzionario. Il suo spirito anarchico, anticonformista, lo ha portato ad essere l’uomo del popolo, un simbolo per le popolazioni sudamericane povere e represse. Ha sconfitto gli inglesi e le big del nord Italia, è sempre andato contro i poteri forti per difendere i poveri, come era lui. Lui, un semplice ragazzino povero cresciuto tra i vicoli di Villa Fiorito, che aveva due sogni: giocare un mondiale e vincerlo.

Tutti i suoi compagni di squadra lo descrivono come una persona deliziosa, sempre pronta ad aiutare gli altri. Era Maradona, era il migliore di tutti, eppure non si permise mai di rimproverare nessuno. Un capitano, un uomo spogliatoio, un’ancora di salvezza. Ci pensava lui, chissà come dev’essere stato bello passargli la palla e restare a guardarlo.

Nei confronti dell’argentino è stato fatto di tutto. La gente lo ha amato, odiato, idolatrato, pregato, dipinto, filmato, copiato, paragonato, insultato, ringraziato, beatificato.
Con Maradona c’è solo una cosa da fare, mettersi comodi sul divano e godersi le sue magie. Guardare Diego è un’esperienza che andrebbe ripetuta ogni giorno, per tutta la vita.

Gezim Qadraku.

Il ragazzo dalla pelle nerazzurra

L’ho odiato.
Sì, mi vergogno a dirlo ma ho odiato Javier Zanetti.
Sono milanista e sin da bambino la squadra rivale per eccellenza è stata l’Inter, come è normale che sia. Loro, i nemici di sempre. Quelli della stessa città, quelli del derby, quelli contro cui non si può perdere.
Ne sono passati di anni, quante stracittadine, vittorie, sconfitte, sfottò. Ogni stagione qualche giocatore diverso, sia da una parte che dall’altra.
Una cosa non è mai cambiata in tutto questo tempo, lui, il numero 4 dei rivali, il loro capitano, Javier Zanetti.
L’ho odiato perché era l’unico del quale mi preoccupavo. Ne hanno avuti di calciatori forti, Ronaldo, Adriano, Ibrahimovic e tanti altri. Ma con gente del genere puoi sempre sperare che non siano in giornata. Con Zanetti no, Zanetti era sempre in giornata, Zanetti non sbagliava mai una partita.
Quando ero piccolo la battuta nei confronti degli interisti era sempre la stessa:
“non vincete mai”.
Ci fu un periodo in cui il Milan dominò nettamente nei derby, dal 0-6, alle vittorie in Champions. Lui era sempre lì, l’ultimo ad arrendersi, quello che riusciva sempre a mettere in difficoltà i miei idoli.
Passavano le stagioni e iniziavo a chiedermi perché non se andasse.

“Perché rimane?  Non vincono mai niente!”

Non capivo, non potevo ancora capire. Crescendo l’odio è svanito e ha lasciato spazio prima al rispetto, poi all’ammirazione. Il calcio è cambiato molto negli ultimi anni. Tanti soldi, cifre incredibili per i cartellini dei calciatori, si sta trasformando in business, la partita in sé sta diventando quasi superflua, le bandiere non esistono più. Le ultime rimaste a breve appenderanno le scarpe al chiodo. Sono ancora giovane, ma quando parlo di calcio mi capita spesso di parlarne al passato. Di ricordare com’era prima, che giocatori c’erano, le sfide memorabili, i capitani di una volta.
Lui è sempre nei discorsi. Lui, il nemico odiato.

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L’avversario più difficile che abbia mai incontrato è stato Javier Zanetti. Lo incontrai per la prima volta nel ’99, ai quarti di Champions. Lui terzino destro, io ala sinistra. M’impressionò per le sue qualità: rapido, potente, intelligente, esperto. Ci ho giocato contro altre due volte. È stato l’avversario più duro in assoluto. Un campione completo.
(Ryan Giggs)

Lui c’è sempre stato, ha difeso per 19 anni i colori della sua pelle. Eppure non aveva le caratteristiche per diventare una bandiera, nato in Argentina e arrivato a Milano che aveva ventidue anni. Sarebbe potuto essere uno dei tanti giocatori sudamericani che girano l’Europa. No, lui è stato l’eccezione. Lui si è ambientato subito, si è innamorato di quella maglia e l’ha difesa. Una coppa Uefa all’inizio, poi per molti anni niente. Sconfitte pesanti, delusioni dure da mandare giù e una squadra mai all’altezza.
Lui sempre lì, con la fascia al braccio a combattere.

“No, non se ne va. Resterà all’Inter a vita, ma perché lo fa?”

Poi poco a poco le cose sono iniziate a girare per il verso giusto, sono arrivati i campionati e poi la stagione che si meritava uno come lui. Il triplete, vinto alla Inter, soffrendo come solo loro sono capaci di fare. Avrebbe meritato di vincere tutto ogni stagione.
Non sono più riuscito ad odiarlo, sono cresciuto e ho capito quanto avrei dovuto imparare da uno così. Gli anni passavano e lui, nonostante l’età avanzasse, continuava ad essere il nemico che nei derby mollava solo dopo il fischio finale.
Impossibili da dimenticare le sue galoppate solitarie, con le quali attraversava tutto il campo, lasciando le briciole agli avversari. Ma Zanetti non è stato solo questo, sapeva fare tutto, ha giocato in quasi tutti i ruoli possibili. Difendeva, attaccava, contrastava, scartava, segnava. Probabilmente sarebbe riuscito a fare anche il portiere o la prima punta.
Zanetti si allenava fuori dall’aeroporto, mentre aspettava il volo dei suoi amici.
Zanetti si arrabbiava con la moglie, se nell’hotel in cui avrebbero passato le vacanze non c’era la palestra.
Zanetti si allenava anche il giorno del suo matrimonio.
No, non diventi Zanetti per caso.
Ormai era chiaro che avrebbe salutato tutti con addosso quella maglia, anche se il suo corpo decise di fargli un brutto scherzo a pochi metri dall’arrivo.
Zanetti infortunato. Assurdo, impossibile, lui? Con quel corpo?
Eppure sì, una domenica come tante, a Palermo si ruppe il tendine d’achille. Fine carriera a rischio dicevano in molti. No, non sarebbe finita con lui a terra dolorante, non poteva finire così e infatti non è andata così.
Si è rialzato, ha abbassato la testa e si è messo al lavoro.
Come ha sempre fatto, da quel 13 maggio del 1995, quando nessuno poteva lontanamente immaginare cosa avrebbe fatto quel ragazzo dalla faccia pulita.
Qualcuno invece ci mise poco a capirlo.

Primissimo allenamento, facciamo possesso palla. Lui non la perde mai, gli resta sempre incollata al piede. Quel giorno pensai che avrebbe fatto la storia dell’Inter.
(Giuseppe Bergomi)

Allenamento, sacrificio, correttezza e amore per la maglia. Sempre, in ogni partita, dalla più inutile alla più importante. Ogni tanto mi immaginavo i discorsi dei padri ai figli nelle case nerazzurre:.
“Guarda come si comporta il capitano figliolo, così si comporta un uomo”.
Non dev’essere stato difficile educare i figli per i padri interisti, ogni domenica Zanetti rendeva il loro lavoro più facile. Un esempio, dentro e fuori dal campo.

 

Spain Soccer Champions League Final
during the Champions League final soccer match between Bayern Munich and Inter Milan at the Santiago Bernabeu stadium in Madrid, Saturday May 22, 2010. (AP Photo/Antonio Calanni)

Ha sconfitto anche l’infortunio. E’ tornato come prima, la fascia al braccio e il 4 sulle spalle. Doveva realizzare il suo sogno, terminare la carriera con quei colori.
Diciannove anni dopo, quasi lo stesso giorno dell’arrivo, il mio odiato nemico ha giocato la sua ultima partita. Di tutto mi sarei immaginato tranne che di essere triste in quel momento. Finalmente lasciava, finalmente nei derby non ci sarebbe stato l’ostacolo insormontabile. Ero triste perché se ne andava un altro pezzo del calcio con il quale sono cresciuto. Un calcio fatto di valori, di capitani che hanno dato tutto per la loro maglia, di uomini che non si sono fatti comprare dai soldi.
Il mio odiato nemico è stato uno di questi. Sarei andato a San Siro a cercare di convincerlo quella sera.

“Capitano è proprio sicuro?”

Sì, a Zanetti bisogna dare del Lei. Solo ora ho capito perché non se ne voleva andare, perché è rimasto anche quando non vinceva niente, perché non ha mai tradito quella maglia. Si chiama amore, quello che questo uomo ha dimostrato ogni partita.
Per me rimarrà sempre il ragazzo dalla pelle nerazzurra, il ragazzo  che quando segnava esultava come un tifoso. Nella sua autobiografia ha spiegato cosa significa essere un tifoso nerazzurro:

Il tifoso interista è abituato a soffrire ma non molla mai, non abbandona mai la barca nel momento del bisogno. Il tifoso interista è un’innamorato cronico, un passionale, un sanguigno. Ha un carattere argentino.. È fedele, appassionato, nel bene e nel male. Ma è anche esigente, così come brillante, intelligente e ironico.

 

Gezim Qadraku.

Il Kosovo esiste!

5-9-2016, un altro pezzo di storia per il Kosovo.
La prima, storica, partita ufficiale per la nazionale di calcio kosovara.
Ho dovuto aspettare ventitré anni per poter guardare la mia nazionale.
Avrei voluto essere lì, in Finlandia, con addosso quella maglia. L’ho sognato sin da quando ho iniziato a tirare i calci al pallone. Tutti sognano di diventare professionisti, di giocare per la propria squadra del cuore e difendere i colori della propria nazione.
Per me è stato diverso. Prima di tutto io mi sono sempre sentito diverso, come ogni straniero che è cresciuto in un paese che non è il suo.
Sei quello diverso, a partire dal nome.
“Ah ma non sei italiano?”
“No, sono kosovaro.”
“E dov’è il Kosovo?”
“Nei Balcani, vicino ad Albania e Serbia”
“Ma sulle cartine non c’è, il Kosovo non esiste.”
“Senti lascia stare”
“Ma quindi cosa sei?”

Sempre così, sempre a dover spiegare, a convincere gli altri che noi esistiamo, anche se le cartine non lo dicono, anche se non abbiamo una nazionale, anche se non siamo nella lista degli stati della terra.
Un’infanzia a chiederti perché? Perché questo, perché questa diversità. Sei diverso in Italia, perché sei quello straniero, durante le vacanze torni finalmente in quella che reputi casa, ma sei diverso anche là. Perché ti chiamano l’italiano.
Passi gran parte del tuo tempo a chiederti realmente chi sei, cosa sei.
Ho sempre sognato questo giorno, la prima partita ufficiale del Kosovo, e ogni volta c’ero io. C’ero io in mezzo al campo con la maglia della mia nazionale. Ho vissuto in Italia per vent’anni, non ho mai chiesto la cittadinanza, anche se avrei potuto secondo la legge.
Non l’ho fatto, perché non mi sono mai sentito un italiano.

“Ma il tuo paese non esiste!”

La situazione paradossale non faceva altro che aumentare la mia convinzione. Arriverà il giorno mi dicevo. Il giorno è arrivato.
E’ stato un sogno, da stasera sarà il mio incubo. Avrei voluto essere in campo, avrei dovuto essere in campo, ma non ce l’ho fatta. Colpa mia, sarà il rammarico che mi porterò dietro per tutta la vita. Ora che potrò guardare le partite della mia nazionale in televisione sarà ancora più dura.
A maggio la FIFA  ha accolto il Kosovo come membro e da quel giorno è stato un continuo contare i giorni fino ad oggi.

“A settembre, il 5, contro la Finlandia”.

Che attesa, pensare che solo poche ore prima della partita alcuni giocatori hanno avuto il via libera dalla FIFA, perché precedentemente erano stati convocati da altre nazionali.
Una giornata a guardare l’orologio, a controllare se qualche rivista di calcio ha scritto un articolo su di noi.
Finalmente la cena, il segnale che manca poco.

“Pà, Hetemaj ha chiesto di non giocare”
“Grande. Bravo!”
“Ujkani ha ricevuto l’ok dalla FIFA”
“OTTIMO”.

Si parla sempre di calcio a tavola, stasera stranamente un po’ meno. Stasera si aspetta, stasera si guardano le lancette.
Questo pezzo nasce in quei momenti, ogni due maccheroni guardo l’orologio e penso a cosa potrei scrivere. Devo prepararmelo prima, sarò troppo su di giri dopo la partita.
Finisco di mangiare, corro in camera. Ci sono vari link che danno la partita in streaming.
Li apro tutti, nel caso uno si blocchi, mi sposto sugli altri. Trovo la telecronaca in kosovaro, MERAVIGLIOSO.
20:30, porto il pc in salotto. Mio padre parla con qualche parente in Kosovo. Io sono già teso, lascio il pc in sala e giro per casa senza motivo. Pensare che avrei voluto essere lì, non riesco a stare tranquillo in casa mia.
Entrano le squadre, la bandiera del Kosovo in campo.
Prima l’inno degli ospiti, il nostro. I ragazzi si abbracciano, difficile trattenere l’emozione.
Ti vibra tutto, la telecamera li inquadra uno ad uno, ti immagini tra di loro. A casa non vola una mosca.
“UH!!”
Butto fuori tutto con un respiro profondo.
Poi l’inno finlandese, loro non si abbracciano.
I capitani si scambiano i gagliardetti, strette di mano, monetina e via.
Si inizia.
Turku, 5 settembre 2016, il Kosovo nella storia.
Siamo emozionati, ho paura che possiamo fare qualche cavolata subito, ma no, i ragazzi sono concentrati.
Al settimo Berisha prova subito a colpire, la palla finisce alta. Prima emozione, già mi alzo in piedi.

“Calma, calma, è appena iniziata.”

Due minuti dopo Pacarada si inventa un sinistro da fuori area che si stampa sulla traversa.

“Ma come siamo partiti?”

Incomincio già a sognare un finale glorioso.
Al quarto d’ora ci addormentiamo in difesa, Ujkani compie il miracolo. Neanche il tempo di finire di fare i complimenti al nostro portiere, che sul calcio d’angolo seguente prendiamo gol.
Doccia fredda, dura da digerire.

“Continuiamo come abbiamo iniziato che va bene”.

Giochiamo bene, cerchiamo di tenere la palla e siamo anche ordinati. Ci guadagniamo qualche calcio d’angolo, che non riusciamo a sfruttare. Fine primo tempo, torniamo negli spogliatoi fiduciosi. Sotto uno a zero, ma meglio degli avversari.
Ripartiamo come avevamo lasciato, pressiamo un po’ di più e attacchiamo bene la profondità.
Al sessantesimo il colpo di scena, Berisha viene messo giù in area di rigore, l’arbitro indica il dischetto. Mi alzo in piedi, esulto, mi giro su me stesso. Papà urla. Il telecronista continua a ripetere:
“RIGORE. RIGORE. RIGORE.”
Il pubblico kosovaro esulta.

“Calma, calma. Bisogna segnarlo”.

Valon Berisha sul dischetto. Forte e alto sulla destra.
1 a 1.
GOL DEL KOSOVO.
Ci siamo, siamo vivi, pareggio meritato.
Presi dalla foga cerchiamo di farne un altro, continuiamo la pressione per una decina di minuti, poi inevitabilmente caliamo fisicamente. Inesorabile arriva il novantesimo. Tre minuti di recupero, rischiamo qualcosa, ma non succede niente.
Triplice fischio. Prima punto per il Kosovo.
Che inizio, quanta emozione, che orgoglio.
Immagino i bambini kosovari sparsi per l’Europa e nel mondo, penso alle loro risposte quando gli verrà chiesto:
“Di dove sei?”
“Del Kosovo”
Lo possiamo dire da otto anni ormai, da quando siamo diventati indipendenti.
Da stasera possiamo urlarlo ancora più forte.
Volevano controllarci, ma non ce l’hanno fatta.
Ci hanno uccisi, ma siamo risorti.
Non esistevamo, ora ci siamo.
Il Kosovo esiste.

Gezim Qadraku.

Pogback

Quindici anni fa, Zinedine Zidane salutava la vecchia signora e si avviava a vestire la maglia del Real Madrid. Nelle casse bianconere entrarono qualcosa come 75 milioni di euro, che permisero alla Juventus di acquistare Nedved, Buffon e Thuram.
Sembra di essere tornati a quell’estate del 2001. Nella notte appena trascorsa, il Manchester United ha ufficializzato l’arrivo di Paul Pogba.
Un’operazione fenomenale della dirigenza bianconera, capace di strappare, quattro anni fa, il giovane talento francese a parametro zero, per rivenderlo ad un prezzo da capogiro.
L’acquisto più oneroso della storia quello del francese, le cifre fanno venire i brividi.
I red devils verseranno 105 milioni, ai quali potranno aggiungersi altri 5, se si verificheranno determinate opzioni stabilite nel contratto, come per esempio la qualificazione del Manchester alla prossima Champions.
Per quantificare la plusvalenza esatta che la Juventus ha effettuato, ai 105 milioni bisogna sottrarne 32,4, che comprendono le commissioni all’agente del francese, (quel fenomeno di Mino Raiola) oneri accessori e contributo di solidarietà. L’effetto economico positivo per le casse della società è quindi di 72,6 milioni.
A guadagnarci sicuramente da questa operazione, sono il calciatore e il suo agente. Nel portafoglio di Raiola finiranno circa 20 milioni, mentre Pogba nei prossimi cinque anni guadagnerà 13 milioni a stagione, più 7 di diritti di immagine.
Chi delle due squadre ha fatto la scelta giusta, sarà solo il tempo a dirlo. Se da una parte si è scelto per la cessione di un possibile futuro pallone d’oro, dall’altra parte si è speso la cifra più grande della storia, per riprendersi un calciatore che si poteva benissimo tenere.
Saranno felici dalle parti di Manchester, con l’arrivo di Ibrahimovic, Mourinho e Pogba, i diavoli rossi puntano a tornare sulla vetta del calcio mondiale.

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Quattro anni fa Paul se ne andò perché non sentiva la fiducia dell’allenatore, fece la scelta giusta. In queste stagioni è cresciuto notevolmente, si è costruito e ha mostrato tutto il suo talento in uno dei campionati più difficili del mondo; dove è riuscito a vincere quattro campionati di fila, due coppe Italia e tre supercoppe italiane. Con la Juventus ha anche raggiunto una finale di Champions League, persa contro gli alieni del Barcellona.
Si era presentato ai tifosi bianconeri con un gol meraviglioso contro il Napoli, al volo di sinistro da fuori area. Nessuno se lo immaginava, ma quello era solo il primo, di tante altre reti spettacolari del ragazzo.
Quattro anni di crescita e maturazione, anche nella nazionale francese, con la quale ha conquistato il mondiale under 20 e ha sfiorato l’Europeo quest’estate.
Le prime due finale importanti sono andate male per Paul, ma dalla sua ha tutto il tempo per rifarsi.
Ora sta a lui, dimostrare di aver fatto ancora una volta la scelta giusta.
Niente è come prima, a Manchester tutto è cambiato, l’era di Ferguson è finita e non ci sono più i volti che aveva lasciato.
E’ cambiato anche lui, se n’era andato come un giovane talento promettente, è tornato da giovane talento affermato.
Paul is back.

Gezim Qadraku.

“Pari o dispari?”

Pari o dispari?
Pari
BIM BUM BAM
Due
Tre
Due e tre cinque, dispari mio. Scelgo…
Iniziava tutto così. Il rituale prima di ogni partita era questo, il momento che dava il via alla sfida. Molte volte la scelta dei compagni risultava decisiva, chi sceglieva per primo partiva favorito. Spesso si decideva di far fare i capitani ai due più forti, così da essere sicuri che non giocassero insieme e che la partita, almeno teoricamente, sarebbe stata equilibrata. La scelta di per sé, non era un attimo cruciale solo per l’esito della gara, ma anche per la reputazione di ognuno. Il momento in cui venivi scelto era significativo, era la considerazione che gli altri avevano di te e in quell’istante capivi quanto i tuoi amici ti reputassero forte.
Il primo scelto era il fenomeno, quello che tutti volevano avere con sé, quello su cui tutta la squadra avversaria si sarebbe interessata durante la partita. Poi man mano si andava in ordine di bravura, più tardi venivi scelto meno possibilità avevi di intraprendere una carriera calcistica, almeno, a detta dei tuoi amici. I problemi che si presentavano potevano essere innumerevoli, e non erano sempre facili da gestire.
Primo e cruciale dilemma: “Chi sta in porta?”, su una cosa tutti erano d’accordo, il più forte non entra mai, si finiva sempre per fare a giro,
Ogni due gol fatti o subiti si cambia, va bene?
Ok, ok, va bene”.
Ogni tanto nascevano litigate infinite, perché i compagni di squadra pensavano che il malcapitato portiere di turno facesse apposta a subire gol per poter uscire, la verità era che nessuno ci sapeva fare tra i pali.
Un’altra questione di attrito prendeva forma se i partecipanti alla partita erano dispari o, ancora peggio, se una volta iniziata la sfida arrivava il solito ritardatario che voleva assolutamente giocare.
Posso giocare?
Non è mio il pallone”.
Il proprietario della sfera aveva diritto di veto, ogni sua decisione doveva essere accettata, nessuno poteva ribattere. Se ci si stava divertendo in quel momento, gran parte del merito era suo, perché aveva messo a disposizione il pallone.
Si giocava ovunque, in oratorio, al parco, in strada, nei parcheggi, in qualsiasi posto si potessero creare due porte, anche immaginarie, e dove ci fosse un po’ di spazio per farci stare tutti quanti.
Si giocava in qualsiasi stagione, in qualsiasi orario, prima di entrare a scuola, all’intervallo, una volta finita la scuola. La giornata ideale dei tre mesi di vacanze estive era composta da una partita della durata infinita. L’importante era essere almeno in quattro, due contro due e si sognava. Ci si presentava con la maglia del proprio idolo, comprata al mercato o alla bancarella fuori dallo stadio a pochi euro, ma quella non era una semplice maglietta, noi con quella addosso, ci sentivamo dei supereroi.
Mentre si giocava si improvvisava la propria telecronaca, se per caso non si indossava la maglietta del proprio idolo, si diceva di essere un determinato calciatore e si urlava il suo nome ogni volta che si era in possesso di palla.
Un altro enorme problema è sempre stato quello della traversa, solitamente un gol veniva convalidato se la palla non superava la testa del portiere, ma c’erano situazioni in cui si perdeva un’eternità e ci si guardava intorno se qualcuno dal pubblico, si avevamo anche il pubblico, avesse visto con esattezza.
La strada, i campi di terra, di cemento e di erbacce erano il nostro San Siro e i ragazzini che passavano di lì e si fermavano a guardare erano i nostri 80mila tifosi.
Sognavamo, lo facevamo ad occhi aperti e con la palla tra i piedi. Ogni tanto ci si fermava, giusto per prendere un po’ di fiato, ma il centro dell’attenzione era sempre lui, il pallone.
In quei momenti ognuno prendeva le difese dei propri colori, ci si prendeva in giro per il derby vinto, per la posizione in classifica della propria squadra, per il numero di campionati e per tante altre cose. Mentre si faceva tutto questo si sperava di poter indossare, un giorno, la maglia originale della nostra squadra, con dietro il nostro cognome e non quello del nostro idolo. Poi tutto ricominciava, altra sfida, altri gol, altre corse.
Capitava a volte di trovare una sola porta libera e allora si giocava a undici, o a ventuno. Il portiere partiva con un punto in più e il gioco consisteva nel segnare al volo. Se si tirava fuori o il portiere la parava al volo, si entrava in porta. Ogni gol subito si perdeva un punto, di testa valeva due punti, di tacco tre, di rovesciata cinque (mai visto nessuno fare gol in rovesciata). Non sono mai riuscito a concludere una partita di questo gioco, ogni ritardatario poteva infiltrarsi senza che nessuno facesse polemica.
Ci si dimenticava dell’orario, finché qualcuno non salutava all’improvviso e se ne andava correndo perché era in ritardo. Quello era il segnale, ci si salutava in fretta e tutti a casa correndo. La scena era sempre la stessa, la cena era pronta, la mamma preoccupata che te ne diceva di ogni e minacciava di non farti uscire il giorno dopo, ma puntuale arrivava lo sguardo rassicurante di papà, che era solo felice di avere un figlio che correva tutto il giorno dietro il pallone. Allora passavi tutta la cena a raccontargli quanti gol avevi fatto, quanto era finita la partita e soprattutto quando eri stato scelto.
Mi mancano quei tempi, le giornate passate a calciare quella sfera con gli amici di sempre, i tardi pomeriggi seduti su un marciapiede a raccontare agli altri le proprie prodezze. C’era della magia nell’aria, c’era la magia dei sogni, la voglia di rifare dal vivo quello che vedevi in televisione, c’era la magia del calcio di un po’ tempo fa. Eppure non sono passati così tanti anni, ma sembra che tutto all’improvviso sia cambiato.
Non vedo più palloni passare in mezzo alla strada, non sento più nessuno urlare “MACCHINAAA“, non vedo più ginocchia insanguinate per aver voluto salvare un gol.
Capita che ripensi a quelle sfide, a quei gol fenomenali, sì perché al parchetto o in oratorio eravamo tutti dei fenomeni, su questo c’è poco da discutere.
Siamo i nostri ricordi, siamo ciò che abbiamo passato, e noi abbiamo trascorso gran parte della nostra esistenza dietro a quella magica sfera. E’ solo uno sport dicono gli altri, noi ridiamo e torniamo indietro nel tempo, ai nostri ricordi, alle nostre sfide, ai nostri gol.
Pari o dispari?
Pari
BIM BUM BAM
Due
Tre
Due e tre cinque, dispari mio. Scelgo…

Gezim Qadraku.

Granit Xhaka, il gioiellino svizzero

Partiamo da una cosa importante, la pronuncia del cognome. Il suo xh in albanese si pronuncia come una g dolce (giorno), quindi Xhaka si pronuncia come se fosse Giaka.
Bene, ora possiamo iniziare a parlare di questo centrocampista, salito alla ribalta quest’estate per due motivi.
In primis, il suo trasferimento all’Arsenal, la squadra londinese ha sborsato 35 milioni di sterline per assicurarsi le prestazioni dell’elvetico. Secondo, il debutto della nazionale svizzera all’Europeo francese è stato un momento storico per il ragazzo.
Per la prima volta nella storia del calcio, si sono affrontati due fratelli. Tutti i riflettori erano puntati sui fratelli Xhaka, Granit con la maglia svizzera e Taulant con la maglia albanese.
La partita si è conclusa con la vittoria degli elvetici per uno a zero, nonostante la compagine albanese, allenata da De Biasi, abbia rischiato più volte di pareggiare i conti. Granit a fine gara è stato premiato come miglior giocatore.

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Xhaka vs Xhaka

L’immagine più bella di quella partita resterà per sempre la geniale maglietta indossata dalla madre dei due ragazzi, la scritta Xhaka sotto a una bandiera composta a metà da quella elvetica e a metà da quella albanese.

In molti si saranno chiesti come sia possibile che due fratelli, nati dagli stessi genitori, possano giocare per due nazionali diverse.
La storia di questi ragazzi è simile a quella di tantissime altre famiglie di origini albanesi emigrate all’estero. In Svizzera si trova una grande parte della diaspora degli albanesi dell’ex-Jugoslavia: sono infatti circa 300mila i cittadini svizzeri di origine kosovara.
Il processo di emigrazione iniziò già negli anni ’60, quando Berna e Belgrado strinsero un accordo per facilitare l’arrivo di numerosi lavorati in Svizzera.  L’accelerazione di questa ondata si è avuta negli anni ’80 e il boom nel decennio successivo, gli anni funesti della guerra nella ex-Jugoslavia. In questo caso però la motivazione dell’emigrazione è un po’ diversa.
Il padre di Granit, Ragip Xhaka, dopo essere stato costretto ad abbandonare, a soli 17 anni, il sogno di diventare calciatore a causa di un grave infortunio, venne arrestato all’età di 22 anni. Nel pieno della sua carriera universitaria, la partecipazione alle manifestazioni contro il regime serbo-jugoslavo costarono al giovane Ragip tre anni e mezzo di carcere. Dopo aver scontato la pena, si trasferì in Svizzera, a Basilea. Città natale dei suoi figli.
Allora perché Granit gioca per la Svizzera e Taulant per l’Albania? 

Naturalmente l’interesse della nazionale albanese ad avere entrambi i fratelli in rosa c’è stata, ma secondo le parole del tecnico De Biasi, la richiesta è stata inoltrata tardivamente ai giocatori. Soprattutto per quanto riguarda Granit, il quale aveva già scelto di giocare con la Svizzera e non ha cambiato idea. Il tecnico italiano invece è riuscito a convincere Taulant, il quale avrebbe sicuramente avuto pochissimo spazio tra gli elvetici.
Per molti Granit è il traditore, ma lui stesso ha dichiarato che avrebbe fatto volentieri a meno di giocare contro suo fratello e contro la sua nazione. Oltre a dichiarare l’amore verso la sua terra:

“Non ho bisogno di andare a Ibiza o Maiorca o Dubai, ogni volta che posso torno a Prishtina

Parole rilasciate nell’estate del 2014 all’aeroporto di Prishtina, dove il ragazzo era atterrato subito dopo l’uscita della nazionale svizzera dai mondiali brasiliani. Dimostrazione di quanto sia legato alla sua terra.
Inoltre il ragazzo, in tutti questi anni, ha sempre dimostrato il suo attaccamento alle proprie origini. Un episodio significativo si è verificato la prima volta in cui le due nazionali si sono incontrate, il modo in cui incespica sul pallone si commenta da solo:

 

Oltre a questo curioso caso, il ragazzo si è reso protagonista di un bellissimo gesto. Ha personalmente inviato alla FIFA un messaggio, richiedendo il riconoscimento della nazionale Kosovara di calcio, riconoscimento arrivato quest’anno, che permetterà alla nazionale del Kosovo di partecipare alle qualificazioni per i mondiali del 2018.

Il torneo Europeo di quest’estate era un appuntamento importante per il numero dieci, se l’inizio è stato dei migliori, con il premio di miglior giocatore ricevuto dopo la vittoria contro l’Albania, il finale è stato disastroso. Suo infatti l’errore decisivo durante i calci di rigore, che ha causato l’uscita della nazionale elvetica agli ottavi di finale, a favore della Polonia.
Il ragazzo ha dovuto dimenticare in fretta la delusione, a Londra tutti lo stavano aspettando. Sia i genitori che la fidanzata erano presenti nel primo giorno da Gunners del ragazzo. Visibilmente emozionato, Granit ha rilasciato le sue prime parole da giocatore dell’Arsenal, mostrando un discreto inglese:

La sua carriera inizia insieme al fratello nelle fila della Concordia, per passare dopo cinque anni al Basilea. Gli addetti ai lavori si accorgono subito delle qualità del ragazzo e la nazionale elvetica non se lo fa sfuggire. Appena sedicenne debutta nella squadra under 21 del Basilea e nella nazionale svizzera. Il primo prestigioso trofeo arriva l’anno successivo, quando la nazionale rossocrociata under 17 si laurea campione del mondo, Granit segna anche una rete durante il torneo.
La carriera del ragazzo si inserisce nel binario giusto, disputa due ottime stagioni nella prima squadra del Basilea, conquistando due campionati di fila. Nel 2011 esordisce a soli diciotto anni nella nazionale maggiore, a Wembley contro l’Inghilterra. Quel paese dove ha sempre sognato di giocare.
L’estate del 2012 è quella del primo salto di qualità, approda in Germania, accettando l’offerta del Borussia Mönchengladbach.
Sono anni importanti per il ragazzo, che viene impiegato diversamente nel club rispetto alla nazionale. In Bundesliga ricopre il ruolo di mediano, mentre in nazionale, Ottmar Hitzfeld lo utilizza come trequartista. Sono parole importanti quelle dell’allora commissario tecnico degli elvetici:

E’ un assoluto top player, che potrebbe giocare in qualsiasi top club del mondo.

Granit inizia a toccare con mano il calcio che conta, il debutto ai mondiali di Brasile 2014, impreziosito da un gol e la Champions League nella passata stagione con il proprio club. Annata, quest’ultima, densa di significato per il ragazzo. Dopo il pessimo inizio e il cambio di allenatore, gli viene assegnata  la fascia di capitano. Incarico importante per un ventiduenne, ma nessuno dei suoi allenatori ha mai avuto dubbi sul suo carisma.
Abituato ad assumersi compiti importanti sin da piccolo, era lui infatti a tenere le chiavi di casa e non il fratello maggiore. Il Borussia risale la china, ma il ragazzo si fa schiacciare dal peso della responsabilità e riceve tre cartellini rossi in quindici partite, aggiudicandosi il record di primo under 23 a ricevere cinque espulsioni in Bundesliga. Qualcuno gli consiglia addirittura di farsi curare, ma lui risponde a tono, dicendo che quello è semplicemente il suo modo di giocare. Non è uno che va per il sottile, quando c’è da usare le maniere forti non si fa problemi, finendo poi per pagarne le conseguenze.

Con il nuovo anno le cose cambiano, Granit impara a ridurre i suoi interventi e i cartellini diminuiscono vertiginosamente. Durante l’Europeo il ragazzo ha dimostrato di aver imparato la lezione, si fa comunque prendere dal vizio di intervenire in scivolata, ma cerca di non farlo fuori tempo. Una sola ammonizione nelle quattro gare giocate in Francia.

Che giocatore è Xhaka?
In questi anni ha ricoperto diversi ruoli, a mio modesto parere la posizione più consona per le sue doti è quella da lui ricoperta durante l’Europeo. Petkovic ha utilizzato un 4-2-3-1, schierando il numero 10 davanti alla difesa, affiancandogli Behrami, un giocatore di corsa propenso alla fase difensiva.
Il repertorio del centrocampista è piacevolmente ampio.
Vedendolo in azione saltano subito all’occhio la freddezza e la tranquillità con le quali gestisce il pallone. Le origini balcaniche si notano subito nella sua personalità. Chiede sempre il pallone, non disdegna a prendersi qualche rischio, ma lo fa sempre con una calma olimpica, anche in zone pericolose del campo. Ha in mano l’intera squadra, è lui che decide quando si accelera e quando si rallenta, se non ha la palla tra i piedi indica ai compagni la giocata da fare.
Il suo mancino è sublime e gli permette di giocare con estrema facilità sia sul corto che sul lungo. I suoi cambi di gioco sono un piacere per gli occhi dello spettatore, meno per i terzini avversari che puntualmente vengono scavalcati dal pallone.

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Ogni tanto si fa prendere la mano e si avventura in qualche incursione personale, nonostante non sia molto veloce.
Dotato di un’ottima visione di gioco, che utilizza al meglio in entrambe le fasi. Dal punto di vista difensivo questo gli permette di leggere le intenzioni degli avversari e di anticipare le giocate, mentre quando si tratta di offendere cerca e trova sempre lo spazio per attaccare il lato debole o verticalizzare rapidamente.
Ottimo saltatore di testa, altrettanto bravo ad utilizzare il proprio corpo, sia per difendersi dal pressing che per recuperare il pallone. Grinta e cattiveria sono due costanti del gioco del ragazzo, che non tira mai indietro la gamba.
Non è di certo uno da dieci a gol a stagione, ma con il suo mancino è in grado di far male ai portieri. Scagliando missili del genere per esempio.

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Ora Granit è chiamato a ripetere tutto quello che ha fatto finora nel campionato più difficile del mondo, dove i ritmi sono altissimi e dove sarà sicuramente soggetto ad un pressing maggiore rispetto al passato. Dovrà ambientarsi con la nuova realtà e conquistarsi un posto da titolare. Vedremo se il suo talento riuscirà a splendere anche in Inghilterra.
Precisione svizzera e classe balcanica, due fattori la cui unione ha dato vita ad un gioiello prezioso.

Gezim Qadraku.

The Greatest

La morte, l’atto finale della nostra esistenza, l’unica cosa che ci accomuna. Di fronte a lei siamo tutti uguali, volenti o nolenti, quando arriva non possiamo fare altro che acconsentire e abbandonare questo mondo.
Per tutto il resto del tempo che spendiamo su questo pianeta siamo completamente diversi uno dall’altro. Dal pianto che emettiamo nel momento in cui veniamo alla luce fino all’ultimo dei nostri giorni, ognuno di noi è qualcosa di irripetibile.
Proprio in questo sta la differenza, quello che riusciamo a compiere durante la nostra esistenza. Dostoevskij scrisse che gli uomini si dividono in due categorie:
la prima conserva il mondo e lo aumenta numericamente, mentre la seconda muove il mondo e lo conduce verso la meta.
Probabilmente non immaginava che della seconda avrebbero potuto farne parte anche gli sportivi. Lo sport, che nel secolo passato si è preso uno spazio enorme della quotidianità dell’uomo. Capace di attirare su di sé l’attenzione globale, più di qualsiasi altro avvenimento. Gli sportivi, nella maggior parte delle volte additati come ignoranti, persone in grado di utilizzare solamente le propri capacità fisiche, ma dotati di una cultura frivola.
Lo sport, visto dai più come qualcosa di lontano dalla vita quotidiana, definito come un’inutile perdita di tempo.
Se c’è stato uno sportivo che è stato in grado di unire lo sport con tutto il resto, questo è stato Muhammad Ali. Come dicevo, la differenza sta in quello che riesci a fare durante la tua esistenza. Nato come Cassius Clay, avrebbe potuto essere un pugile come altri, che sarebbe stato ricordato per le sue vittorie e per la sua bravura. Un semplice sportivo insomma.
Il ragazzo decide di fare ciò che mai nessuno aveva fatto durante la propria esistenza, la sua vita prende la via della gloria eterna nel 1964, quando a soli ventidue anni decide di cambiare il suo nome in Muhammad Ali.
Non basta cambiare religione e nome per diventare una leggenda.
Diventi Ali rifiutandoti di andare in guerra, quando la guerra va di moda.

“Nessun vietcong mi ha chiamato negro”

Diventi Ali quando rinunci al titolo mondiale, ma non alla tua dignità.
Diventi Ali se finisci in prigione per aver preso una decisione del genere, ma una volta uscito continui per la tua strada.
Diventi Ali quando, nonostante i soldi e la fama, ti ricordi delle tue origini e combatti per i diritti civili dei tuoi compagni.
Diventi Ali quando tutto il popolo africano ti urla di uccidere Foreman.
Diventi Ali quando rappresenti l’Islam, quello vero, quello moderato, quello in cui crede la maggior parte dei musulmani.
Diventi Ali se pesi cento chili ma ti muovi come se ne avessi la metà.
Diventi Ali quando ti permetti di dire che vincerai l’incontro e poi lo vinci davvero.
Diventi Ali cambiando lo sport, perché se c’è una cosa che non puoi permetterti di fare in una competizione sportiva è proprio quella di affermare la tua vittoria prima della gara. Puoi essere consapevole della tua forza, del tuo talento, ma durante una sfida sono infinite le variabili che possono portarti alla sconfitta.
Solo se sei Ali puoi sapere a priori che vincerai.
Tutto questo ti porta a diventare Muhammad Ali, uomo e sportivo immenso.
E’ stato e sarà il più grande, per sempre.

Gezim Qadraku.