Un talento puro

E’ un tardo pomeriggio di una giornata qualsiasi di giugno, io e i miei compagni siamo nello spogliatoio che ci prepariamo. Abbiamo un’amichevole da disputare contro una squadra nella quale giocano molti ragazzi che conosciamo. Ad un certo punto il nostro allenatore entra nello spogliatoio, si ferma vicino alla porta e dice: “ragazzi, abbiamo uno straniero che giocherà con noi oggi“.
Entra lo straniero, rasato, magro, ha in mano le Tiempo nere, sembrano originali.
L’ho già visto, so che gioca nell’Inter. Dice solo “ciao” e si siede. Non ride, mi dà l’idea di essere fortissimo. Beh, lo sarà, visto che gioca nell’Inter.
Dopo pochi minuti dall’inizio della partita stiamo perdendo uno a zero, ha segnato il loro attaccante, un ragazzone bravo. Intanto mi sono accorto che questo “straniero” che ha portato il mister è veramente bravo, riusciamo anche ad intenderci abbastanza bene, per non aver mai giocato insieme. E’ facile giocare con lui, l’unica cosa difficile è riuscire a dargli la palla nella miglior maniera possibile, poi ti puoi anche sedere e restare a guardarlo.
Punizione per noi, cross in mezzo, in una mischia sbuca la sua scarpa nera e gol. Abbiamo pareggiato. Nel secondo tempo segnamo anche il 2 a 1. Indovinate chi? Beh lui ovviamente. Punizione dai venti metri, defilata sulla destra del portiere, posizione ideale per un destro. Lo straniero ha calciato una mina fortissima e precisa sotto l’incrocio.
Cavolo, ma abbiamo solo undici anni, come fa a calciare così forte?

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Ne è passato di tempo da quel giorno. Sono in palestra, guardo verso la vetrata che dà su quel campo in cui io e lo straniero giocammo per la prima volta insieme. La prima squadra del Vittuone sta entrando in campo ad allenarsi, tra quelli c’è anche lui. In quegli anni nel frattempo, io e lo straniero ci siamo conosciuti e siamo anche diventati amici, ho scoperto che si chiama Marco.
Ma come? Vi chiederete che ci fa Marco in una squadra di dilettanti? Che ci fa ancora su quel campo?
Dopo quell’amichevole Marco decise di rimanere a giocare su quel campo, forse si era trovato così bene con me. No, non penso fosse questa la motivazione. Semplicemente l’Inter non aveva creduto in lui. Lo sappiamo tutti che le squadra italiane sono famose nel mondo per credere nei talenti. Quello fu l’unico anno in cui giocammo insieme, purtroppo.
Era fin troppo facile giocarsi insieme, avevamo tutti un compito, semplice, basilare. Fargli arrivare la palla nel miglior modo possibile, poi stavamo a guardarlo. Ogni tanto io gli correvo dietro, giusto perché ero quello che giocava più vicino a lui. Ogni tanto, quando non avevo voglia, gli urlavo “vai da solo, vai da solo”. Non c’era neanche bisogno di dirglielo, saltava tutti come se fossero birilli. Se ne andò a fine anno, andò a giocare a Pavia. Il primo anno fu orribile, si fece male e non riusciva proprio a guarire. Nonostante l’infortunio però, a scuola, durante l’intervallo, giocava lo stesso. Non ha mai saputo stare fermo. Mai.
Poi l’esplosione. Ma non da attaccante, dove l’avevo ammirato nel nostro campetto di terra ed erbacce. No, davanti alla difesa. Marco davanti alla difesa? Ma come?
Venne ad allenarsi una sera da noi e si mise a fare il regista. Durante la partitella un mio compagno mi disse: “Marco sembra Pirlo“.
Eh sì, hai decisamente ragione” gli risposi io. Lanciava con tutti e due i piedi, una cosa impossibile per noi normali ragazzi. Tecnicamente era migliorato ancora, non riuscivi a tirargliela via quella maledetta palla. Inoltre, sapeva anche difendere. Provavi a puntarlo, convinto di saltarlo facilmente, invece no. Ti fermava e ti lasciava di stucco. Calciava ancora più forte di prima. Dio, ma cos’era diventato? Era troppo forte.
Dopo le ottime prestazione a Pavia nel nuovo ruolo di centrocampista, arriva il momento di indossare una maglia più importante, quella rosso e blu del Genoa.

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Dovrebbe far parte della squadra della berretti, invece Marco viene aggregato con la primavera. È un salto nel vuoto, non è solo un semplice cambio di maglia, è molti di più. Marco è costretto a trasferirsi, lontano dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua ragazza. Marco, nonostante sia stato ingaggiato da una squadra di serie A, è convinto di doversi divertire e basta. Per lui questo è il calcio, entrare in quel rettangolo di gioco, farsi dare la palla e divertirsi. Non gli interessa la maglia, lo stadio, le telecamere, i compagni, l’allenatore. Non lo toccano queste cose, per lui questo sport è solo puro e unico divertimento.
Ma scopre che lì, a Genova, non è così. Non si gioca per divertirsi, si gioca per vincere, si gioca per arrivare in prima squadra, si gioca per sé stessi. Fa parte della squadra che vince la supercoppa Italiana alla stadio Barbera di Palermo. Il Genoa vinse ai rigori, per Marco solo panchina. Marco non è ancora pronto, è ancora un ragazzo ingenuo che vuole solo divertirsi, quella gente non ha tempo per lui. Lo capisce al primo problemino fisico. Lo fanno tornare a casa, come se fosse colpa sua l’infortunio. Nonostante qualcuno, di abbastanza importante, abbia detto al suo procuratore che sarebbe pronto per la prima squadra.
E allora perché rispedirlo a casa, vi chiederete. Sempre per il solito motivo, le squadre italiane sono famose per credere nei talenti.
Marco torna a casa. Ritrova la sua famiglia, i suoi amici, la ragazza, ma ha perso la palla. Ha perso il suo divertimento più grande. E’ costretto ad allenarsi da solo per sei lunghi mesi.

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Dopo tanta fatica arriva la chiamata della Pro Patria, l’occasione per ricominciare. Marco riparte e bene. A fine anno i primi allenamenti in prima squadra e poi ad agosto il debutto tra i grandi, in uno stadio pieno, tra i tifosi che ti cantano i cori, in mezzo ad avversari che sono pronti a sbranarti perché sanno che sei giovane. Momenti nei quali le gambe tremerebbero a tutti, non a lui. Debutto pazzesco, pagine e pagine di giornali solo per lui. È nata una stella, dicono. L’inizio che ogni debuttante sogna. L’inizio è stato ottimo, ma la storia con la Pro Patria sarà una montagna russa. Vette e fondali. Marco nel frattempo è diventato un calciatore completo.
I suoi piedi sono solo migliorati, si può permettere di cambiare gioco con un piede o con l’altro, con una facilità disarmante. Fisicamente è cresciuto sotto l’aspetto muscolare, ha acquisito subito sicurezza per poter giocare con i grandi. E’ migliorato molto anche in difesa, è un giocatore intelligente, ha sempre la giocata pronta, prima ancora che la palla gli arrivi. Gli serve solo giocare. Una mezza stagione passata giocando titolare, con ottimi voti in pagella, mostrando una personalità invidiabile e prestazioni sublimi.
Prima gli infortuni, poi i disguidi con allenatori e società hanno trasformato la stella splendente in una stella cadente.
Ognuno ha fatto il suo. Marco ha sbagliato, ha commesso i suoi errori, ma le responsabilità non sono solo sue. La società lo ha sfruttato per bene, quando faceva comodo lo si faceva giocare anche infortunato. Poi dopo, quando non serviva, rifilato in panchina o in tribuna. L’anno successivo passa mezza stagione a Busto e l’altra a Casale, per poi tornare di nuovo a Busto. Non è cambiato molto, l’allenatore non lo vede e lui è sempre lì, seduto in panchina con la pettorina. Fino a quando un giorno, chi gioca al suo posto è infortunato e non può giocare. Tocca a Marco.
Si gioca Pro Patria-Como, è in forma, lo si nota subito. È sicuro, prova le giocate e gli riescono, sfiora un gol pazzesco con un missile da fuori area di contro balzo, che esce di qualche centimetro. Menomale che non è entrata, sarebbe venuto giù lo stadio.
Il Como nel frattempo si porta in vantaggio. I tigrotti si conquistano una punizione, la posizione è sempre quella, defilata sulla destra del portiere. Calcia lui, se la fà toccare da un suo compagno e tira, una conclusione normale che però sorprende il portiere.
Uno a uno, ha segnato Ghidoli. Quello che succede dopo, non è una semplice esultanza, non è semplice gioia, non è solo felicità.
Si gira e corre, corre, corre e basta. Non vuole farsi abbracciare, piange, urla, scaccia via i suoi compagni. Ha segnato, ha pareggiato il risultato, ha tappato la bocca a tutti. Sono tutti ad applaudirlo ora, nessuno ha più niente da dire. Ora non è più il talento con il carattere difficile, non è più il ragazzo da prendere con le pinze, ora è bravo Ghidoli. Ora che ha segnato è forte.
Si infortuna subito dopo, nella foga di recuperare un pallone, mette giù male il piede e si fa male alla caviglia. Esce in barella. Dopo aver segnato il suo primo gol da professionista. Non ha avuto neanche il tempo di goderselo. Ennesima dimostrazione di un destino difficile.

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Neanche la Pro Patria ha voluto godersi questo talento, ha deciso di lasciarlo andare. La strada per Marco è diventata ancora più tortuosa, dopo mesi trascorsi tra allenamenti e allenamenti in varie squadre, Marco ha deciso di tornare in quel campetto dove giocammo per la prima volta insieme.
Il campetto è cambiato, ora è fatto in erba sintetica, è bello, il terreno ideale per i suoi piedi. Dopo aver aiutato la squadra del suo paese a salire di categoria ha deciso di restare.
Le offerte non sono mancate, anzi, il ragazzo ha avuto l’imbarazzo della scelta.
Ma Marco in questo mondo professionistico del calcio italiano ci ha vissuto, si è scottato e ha rischiato di mollare tutto. Sono riusciti a farlo arrivare fino alla decisione che uno dovrebbe prendere solo quando non riesce più a stare dietro al pallone. Invece Marco quella domanda se l’è posta a ventidue anni. Ha deciso di rimanere in quella che è stata la sua culla, il campo dietro casa, la tranquillità dei dilettanti, la poca pressione, il divertimento negli allenamenti, la possibilità di avere famigliari, amici e ragazza vicini.
Marco si è scottato e non ha voluto rischiare di bruciarsi. Ha scelto la tranquillità e il divertimento. Due cose che non provava da tempo, ha scelto sé stesso. Ha scelto il suo benessere fisico e mentale. Ha preso una decisione senza pensare alla sua carriera.
Marco vuole solo divertirsi, vuole stare bene mentre fa quello che sa fare meglio.
Il destino lo ha riportato lì, dove tutto era cominciato.
Lì, dove suo nonno gli aveva allacciato le prime scarpe da calcio e lo aveva buttato in campo, perché solo lì poteva sfogare tutta la sua vivacità di bambino incontenibile.
Lì dove quell’oggetto sferico gli aveva fatto scoprire la parola felicità.

I talenti non vengono riconosciuti. Il talento lo fanno finire in basso“.
(Charles Bukowski)

Gezim Qadraku.

Un pomeriggio nella ex-Jugoslavia

Appena arrivato in aeroporto ricevo il messaggio del capo, “Com’è andato il viaggio?“, “vaffanculo” vorrei rispondergli. “Tutto bene grazie” gli scrivo. Non volevo fare il giornalista che va in giro per il mondo ad intervistare chiunque. Volevo solo starmene a Milano a raccontare i fatti di cronaca, le vicende politiche e soprattutto il calcio. Basta scrivere di calcio in Italia, e la gente ti legge. Dopo un anno di articoli sulla serie A e sulla vita quotidiana di Milano, mi è stato detto di andare nella Ex-Jugoslavia per vedere com’è la situazione dopo venti anni dalla fine della guerra. Capirai cosa cazzo può interessare alla gente di come stanno questi dopo la guerra. A nessuno è interessato nulla durante il conflitto, figuriamoci ora.
Il capo si è preoccupato di tutto, mi ha prenotato una camera in un appartamento. “Non ti faranno mancare nulla, avrai una camera enorme, letto matrimoniale, cucina, balcone ampio, condizionatore, e altri comfort“.
Fermo un taxi, una mercedes talmente vecchia che penso di vederla per la prima volta nella mia vita, l’autista scende di corsa e si catapulta sul mio bagaglio, lo prende e lo sistema nel baule. “Dobar dan, kamo cete?” mi chiede.
Sorry, i don’t speak your language“, mi sorride un po’ imbarazzato, tiro fuori dalla tasca il bigliettino e gli mostro la via dell’appartamento.
Ok” mi risponde. Passiamo per le stradine di questa città, si passa da un estremo all’altro. Posti nei quali sembra che la guerra non ci sia mai stata, ad altri dove la guerra sembra sia tutt’ora in corso. Dopo venti minuti sono arrivato a destinazione.
Lo ringrazio, mi saluta con un cenno della mano e sparisce tra le stradine di questo strano posto. Non c’è un campanello o qualcosa che gli assomigli nel cancello di questo appartamento, entro cercando di non fare troppo rumore, ma nella speranza che qualcuno mi senta. Neanche il tempo di fare il secondo passo che da una porta esce questo omone, vestito solo di una maglietta bianca che non riesce nell’impresa di nascondere tutta la sua pancia.
Sdravko, nice to meet you“, cazzo menomale che parla inglese. Mi presento, conosce il capo, dice che mi stavano aspettando. “Stavano?“, penso io. Arriva la moglie, Ana. Dio mio che bella. “Ma cosa ci fai con questo ciccione?” mi viene da chiederle, ancora prima di presentarmi.
È magra, al limite dell’anoressia, occhi azzurri ghiaccio, uno sguardo malvagio, fino a quando non decide di sorridermi e di farmi perdere il contatto con la realtà. Si parlano, incredibile come il loro timbro di voce cambi quando si esprimono nella loro lingua. Diventa diverso, naturale, sembra quasi cattivo, sembra che stiano litigando. Invece scoppiano a ridere. Mi staranno prendendo in giro. Si saranno accorti che sono rimasto folgorato dalla bellezza di Ana.
Scappo subito sopra, nella mia camera, meglio vederla il meno possibile, prima che mi venga qualche istinto da stupratore. Entro in camera, ci sono tutti i comfort che il capo mi aveva promesso. Mi serviva solo un letto, ma va bene. Due settimane saranno lunghe in questo strano posto. Mi faccio una doccia veloce e decido di uscire fuori a mangiare. Sono ancora le sei e mezza, ma il viaggio mi ha fatto venire fame. Scendo, non avendo la minima idea di dove andare, ma non mi va di chiedere. Mi avvio in questa stradina deserta, l’asfalto c’è, non è nuovo, abbastanza consumato, ma comunque c’è. Sento delle voci in lontananza, sembrano bambini, affretto il passo e dopo un centinaio di  metri, mi accorgo che sulla sinistra c’è un gruppo di bambini che giocano a calcio. Non è un campo da calcetto, non ci sono delle porte, non c’è neanche l’erba. La forma dello spiazzo è qualcosa che somiglia ad un rettangolo, c’è solo della terra e quella sfera che salta da un piede all’altro. Mi fermo a guardarli, rimango impietrito dalla scena. Siamo nel 2015, a Milano i loro coetanei giocano con gli smartphone e gli iPad. Non pensavo fosse possibile una cosa del genere. Non pensavo che i bambini giocassero ancora. Non c’è alcun segno di tecnologia, non vedo cellulari o apparecchi simili. Forse non se li possono permettere, non hanno idea di quanto sono fortunati. Ci sono sole delle biciclette, tutte buttate per terra, tutte vecchie a parte una. Una mountain bike che assomiglia ad un Chopper, è l’unica che ha il cavalletto e quindi l’unica che rimane su da sola. Continuo ad osservarli, la palla è nei piedi di questo bambino cicciotto, è mancino, è abbastanza elegante nei movimenti, stoppa bene la palla e fa dei buoni passaggi.
Stevaaaan, Stevaaaan” gli urlano gli altri. Scopro il suo nome e continuo a fissarlo, mi piace. Mi piace perché quando gli rubano la palla si ferma, mette i chiodi per terra e non si muove, segue l’azione con lo sguardo e si mette le mani sui fianchi, come se qualcuno gli avesse fatto un torto. Dopo qualche minuto avviene la tragedia. Un ragazzo sbaglia a calciare e la palla finisce in un prato recintato. La recinzione sarà alta quasi due metri, i bambini non ci potranno mai arrivare. Leggo la delusione nei loro volti, qualcuno se la prende con Milos. Danno la colpa a lui, Milos non ci sta e risponde a tono. E’ arrivato il momento di trasformarmi in un supereroe. Entro in campo, lascio la macchina fotografica nelle mani di uno dei bambini e scavalco la recinzione. Salto giù, prendo il pallone e lo rilancio in campo. I bambini urlano, qualcuno corre, qualcuno mi aspetta per ringraziarmi. Il volto di Milos è sollevato.
Scavalco e torno in campo, corrono ad abbracciarmi, continuano a dire “fala“, vorrà dire grazie. Accarezzo qualche testa e batto il cinque a qualcuno. Devo ancora scoprire cosa ha portato via e cosa ha lasciato la guerra, in questo strambo paese. Di certo la genuinità di chi ci abita è rimasta. I bambini interpretano ancora il ruolo dei bambini. I bambini nella ex-Jugoslavia giocano ancora in strada, questo è qualcosa di meraviglioso. Esco dal campo e rimango a guardarli, decido di scattare qualche foto. Qualcosa dentro di me, mi dice che potrei entrare a giocare con loro. Non mi va, voglio lasciarli al loro gioco, al loro divertimento, alla loro goduria. Sarei solo di intralcio. Vorrei andare da Stevan e dirgli di godersi questi momenti, dirgli di dare tutto quello che ha mentre gioca, dirgli di correre ad aiutare i suoi compagni quando perde la palla, vorrei dirgli tante cose. Ma rimango lì, dove una immaginaria linea bianca delimita la fine del loro campo. Sento una lacrima scendere dal mio occhio sinistro. Mi sono emozionato. Mi sono commosso senza neanche rendermene conto. Mi accorgo di aver salvato il loro pomeriggio. Loro sono inconsapevoli di aver salvato me. È bastato un pezzo di terra, con dei bambini felici che rincorrono un pallone, per farmi tremare il cuore.
Fala djeca, fala.

Gezim Qadraku.

L’amore ai tempi dell’infanzia

Da qualche giorno un paio di bambini si trovano a giocare proprio nella mia via. Ogni volta che torno dal lavoro, vado sul balcone, guardo giù e li vedo. Non sono tantissimi, una mezza dozzina più o meno. L’altro giorno pensandoci bene, ho capito che hanno iniziato a popolare la mia via perché è estate e hanno finito la scuola.
Saranno qui fino a quando, ad uno a uno, andranno in vacanza. Danno un po’ di vita a questo mortorio, sono contento di questa novità. Giocano ai classici giochi.
Si passa dal nascondino, alle gare in bici. Quando ci sono solo i maschi, naturalmente giocano a calcio. Ogni tanto si azzarda a qualche schiaffo del soldato. Ieri sera, dopo aver finito di mangiare, sono uscito a fumare una sigaretta. I bambini erano sparsi a caso, non stavano giocando a niente. Ad un certo punto vedo arrivare da sinistra un padre con la figlia. Una bambina che avrà avuto la stessa età degli altri. Uno di loro, nel frattempo, le stava andando in contro in bicicletta. Una volta superato il padre ha subito girato, è passato dietro ai due, e si è affiancato a lei. L’ha guardata sorridendo, gli sorridevano anche gli occhi e le orecchie.
Le ha detto, “guarda ho una nuova bici, questa va veloce come una moto.” La bambina ha sorriso intimidita. Il padre ha risposto anch’egli con un sorriso e il bambino è sfrecciato via con il suo bolide. Ho notato tante cose in quei pochi secondi.
Ho visto un piccolo uomo farsi coraggio e parlare alla ragazzina che tanto gli piace, nonostante la presenza del padre. Ho sentito in quella frase la dichiarazione del fanciullo. Come se le avesse voluto dire, “ora che ho la bici più bella e più veloce di tutti, sono il miglior ragazzo con il quale tu possa stare.”
Ho visto nella timidezza di quella bambina, la voglia di parlare con quel suo coetaneo tanto coraggioso, ma l’impossibilità di farlo per la presenza del padre. Certe cose non si possono dire con i genitori presenti. Ho visto anche un padre che ha capito tutto, e felice di questa spontaneità dei bambini, avrà ripensato alla sua prima cotta da giovane.
Sono solo due bambini, ma già si amano.
E’ amore quello. E’ qualcosa di puro e genuino.
Non pensavo che l’amore esistesse anche quando si è bambini.

Gezim Qadraku.

Una sera di primavera

Una sera di primavera, ero fuori sul balcone a godermi la meravigliosa immagine che il tramonto stava creando davanti ai miei occhi. Non faceva né caldo, né freddo.
Quel clima mite che solo certe sere di primavera sono in grado di offrire. Lei era seduta di fianco a me, le gambe completamente nude e il perizoma in bella vista, la maglietta  le arrivava giusto al bacino e permetteva a tutto quel ben di Dio, di essere osservato. Avevamo appena finito di fare l’amore. Eravamo due tipi silenziosi, parlavamo facendo l’amore. Era un ottimo modo per capirsi. Dopo quasi un’ora di intensa conversazione sotto le lenzuola, eravamo tornati ai nostri silenzi.
L’orologio scandiva le diciannove e quarantacinque minuti, le nostre sigarette si erano quasi spente, il ghiaccio nel whisky irlandese si stava sciogliendo, il sole era in procinto di andare a dormire, ma volle darci un’ultima occhiata. Si era accorto pure lui che eravamo qualcosa di bello.
Yann Tiersen alla radio suonava Comptine d’un autre ètè: L’après-midi.
La vita, in quel preciso istante, sembrava qualcosa di meraviglioso.

Gezim Qadraku.