Aveva bisogno di lei

Il desiderio di una carriera nell’ambito lavorativo, lo aveva portato a trasferirsi in quella città così grande, rispetto al suo paesino di campagna.
Una laurea e un master all’estero con ottimi voti, non erano bastati per prepararlo a quello che lo aspettava. “Il miglior insegnamento è sempre la strada“, gli aveva detto suo padre. Aveva depositato la sua valigia, i suoi affetti, le sue paure e i suoi sogni, in un piccolo appartamento in centro. Una stanza che faceva da cucina e salotto, un bagno minuscolo e nient’altro.
Il lavoro era arrivato al primo colpo. Il suo aspetto, pulito, curato, affidabile aveva avuto la meglio.
Col passare dei giorni, aveva scoperto che in realtà, lui non era solo il bravo ragazzo degli ottimi voti, ma era anche il ragazzo tanto impaurito da quel tran tran della città, da quelle persone vestite così bene e con l’aspetto convincente, da farlo sentire così insicuro e così inadatto. Era anche il ragazzo, che faticava più del previsto ad instaurare nuovi rapporti, al di fuori del lavoro. Era il ragazzo che sentiva la lontananza dai suoi famigliari e dalla sua amata campagna.
Le foto e le telefonate non bastavano. Ma era anche il ragazzo che in ufficio si trasformava. Gli sembrava di prendere tutta quella sicurezza, che vedeva nei volti delle persone che incontrava per strada e farla sua.
In un pomeriggio inutile, di una giornata qualunque, era arrivata lei. Lei, con i suoi capelli a caschetto, gli occhi verdi, un sorriso timido, un trucco leggero e una bellezza semplice che era riuscita a scombussolarlo.
Si erano piaciuti sin da subito. Si erano amati dal primo scambio di sguardi, nonostante non si conoscessero. A lui sembrava impossibile poter conoscere meglio lei, sempre così timida, di poche parole, chiusa nel suo mondo. Gli sembrava che non volesse aiutarlo nel farsi scoprire, ma lo fece indirettamente.
Si portava sempre un libro con sé, che lui prendeva e leggeva. Non gli interessava la storia narrata, ma le frasi che lei aveva sottolineato. Sapeva di poterla conoscere meglio in questo modo. In quelle frasi c’era tutto quello che lei non aveva il coraggio di dirgli. E così, la parte del ragazzo impaurito sparì.
Lasciò il palcoscenico ad un ragazzo sicuro, felice, innamorato. Finalmente aveva avuto l’opportunità di provare sulla sua pelle gli effetti di quelle due parole, che si fatica tanto a pronunciare. Amore e felicità.
Gli pareva che la felicità dipendesse dall’amore, che senza amore non si potesse essere felici. Il loro amore, come ogni cosa bella però, durò poco. Quelle emozioni ebbero un’esistenza breve. Gli occhi verdi che tanto lo avevano colpito, non c’erano più. Avevano deciso di guardare altro. Non si diede per vinto.
Pensò che per gli esseri umani poteva valere lo stesso procedimento di sostituzione che vale per gli organi. Quando un organo smette di funzionare, i medici inseriscono il paziente in una lista di attesa, nella speranza di trovare l’organo che possa sostituire quello malato.
L’organo non è lo stesso, è simile, gli assomiglia, è quasi identico, le funzioni però, sono esattamente le stesse.
Così, se una serie di eventi decide di prendere lo stesso percorso, il paziente riceve l’organo giusto e può ricominciare a vivere.
Sperava che anche per lui valesse lo stesso. Avrebbe trovato anche lui, una persona simile che lo avrebbe rimesso in vita. Gli servì poco tempo per capire che per le persone non funzionava così.
Aveva bisogno di lei, non di qualcosa che somigliasse a lei.

Gezim Qadraku

Youth – La giovinezza

Tu hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una vera stronzata.
Le emozioni sono tutto quello che abbiamo“.

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Svizzera, montagne, prati verdi, animali, panorami da favola, un hotel di lusso, massaggi, saune, bagni termali, musica, tanta musica, un ritmo lento e tanta bellezza.Questo è lo sfondo del nuovo film, del regista italiano, premio Oscar, Paolo Sorrentino.
Una pellicola caratterizzata da un’ottima base musicale, inquadrature mozzafiato, la telecamera che si muove come una fisarmonica, da un’inquadratura ravvicinata ad un’altra in lontananza, che permette allo spettatore di rifarsi gli occhi, grazie ai meravigliosi paesaggi alpini.
In tutto questo la ricerca del dettaglio è ben riuscita. Nulla è lasciato al caso, c’è spazio per tutto. Per l’ironia, per i discorsi profondi, per una fotografia meravigliosa. Non si sa come, ma Sorrentino riesce a trovare spazio anche per Maradona. E’ un film che non corre, ma cammina lentamente. Con la necessità di portare l’attenzione dello spettatore anche a ciò che potrebbe risultare inutile. Niente è superficiale quando si guarda Sorrentino.

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Il film si intitola la giovinezza, ma il tema che tratta è la vecchiaia. Di una certa età infatti, sono i due protagonisti. Due uomini, due amici, che fanno i conti con il loro passato, con la loro carriera, con quello che hanno avuto e con quello che si sono lasciati scappare.
Fred, un maestro e compositore d’orchestra che da ragazzo ha frequentato Stravinskij e ha dato tutta la sua vita alla musica. Lasciando da parte famiglia e amore. Ormai in pensione e convinto di non voler più tornare a lavorare, neanche se a chiederglielo è una regina.
Mik, un noto regista, con meno talento del suo amico, che in questa settimana di riposo cerca di trovare il finale più appropriato a quello che sarà il suo film testamento. Si dedicano ad una settimana di puro relax, accerchiati da giovani, da cinquantenni e da anziani. Tutti impegnati ad osservarsi e a studiarsi. L’Hotel accoglie altri artisti, oltre a loro. Artisti nel pieno della loro fama, come miss Universo e altri molto vicini al baratro. Il Maradona che viene interpretato da un suo sosia, è un obeso accompagnato sempre dalla compagna e da una bombola di ossigeno, che lo mantiene in vita.

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Il cast finalmente è all’altezza del regista.
Michael Caine non è di certo una novità, niente da dire sul suo talento e sulla sua interpretazione.
Harvey Keitel, il premio Oscar Rachel Weisz, Paul Dano, breve, conciso, ma potente. Per ultima, la ciliegina sulla torta, la due volte premio Oscar, Jane Fonda.
Sorrentino si interroga ancora una volta su temi importanti della nostra esistenza.
Il tempo, l’amicizia, l’amore, la famiglia, la vita.
Il tempo, gioca un ruolo cruciale nella storia. Come viene visto dai giovani e rispettivamente dai più anziani. Il futuro che i giovani vedono così vicino e il passato che gli anziani vedono così lontano.
Un film bello, leggero, vivace, profondo.
Un regista che ancora una volta ci invita a riflettere, attraverso una pellicola che funge da tappeto rosso.

Voto: 8.

Gezim Qadraku.

Noi universitari

Noi che abbiamo iniziato questa esperienza con la consapevolezza che fosse un percorso utile e bello. Promettendo a noi stessi di impegnarci nello studio per avere una media alta, ma dopo solo un anno abbiamo deciso di accettare qualsiasi voto.
Noi dei libri fotocopiati, degli appunti condivisi con chiunque e delle firme  per i nostri compagni.
Noi delle lezioni passate per terra pur di seguire. Del pranzo portato da casa per risparmiare e delle dosi eccessive di caffeina.
Noi che ci siamo trasferiti e abbiamo lasciato la nostra famiglia per studiare.
Noi altri invece, che passiamo la maggior parte del nostro tempo sui mezzi pubblici.
Noi dei lavoretti dove capita, per aver giusto un po’ di indipendenza economica.
Delle giornate in biblioteca a preparare gli esami. Anche se in realtà non facciamo altro che innamorarci, in biblioteca.
Noi che dai libri cerchiamo di riassumere il più possibile, per studiare il minimo indispensabile. Noi che non siamo impegnati mentre il mondo lavora, ma stiamo sui libri mentre il mondo fa vacanza.
Noi che: “le materie di questo semestre sono veramente interessanti”, per poi finire ad odiarle  nel momento in cui si inizia a prepararle per l’esame.
Noi del dubbio amletico: “Iniziare questa serie tv o prepare l’esame?”
Noi dell’ansia pre esame, del “Va beh, come va, va!”. (Ma va?)
Di quella sensazione di leggerezza meravigliosa dopo averlo passato o dell’indescrivibile vuoto per essere staro respinto.
Dell’alcool in quantità infinite per festeggiare. (O per dimenticare)
Noi delle feste a casa dei nostri compagni fuori sede. Perché diciamocelo, è il vero motivo per il quale ci siamo iscritti.
Noi che ogni giorno conosciamo qualcuno, che avremo amici sparsi in tutta Italia, in tutto il mondo.
Noi che vaghiamo in giro spensierati, con la cartella sulle spalle e il sorriso condiviso con i nostri compagni, mentre sogniamo il fatidico giorno della laurea.
Noi che dovremmo essere quelli che hanno le idee chiare sul proprio futuro, ma che in realtà non abbiamo la più pallida idea di quello che vogliamo fare.
Noi che abbiamo scelto il percorso più difficile, quello più lungo, quello che si spera ci darà una vita migliore.
Noi che siamo i più fortunati di tutti.
Sì perché coi tempi che corrono, potersi permettere un’esperienza del genere è una fortuna enorme.
Noi che il mondo vorremmo cambiarlo.
Noi che di sicuro ci proveremo e forse ci riusciremo.

Gezim Qadraku.

God save the Captain

E’ il 16 maggio di un pomeriggio inoltrato inglese, siamo a Liverpool.
Ad Anfield si gioca Liverpool – Crystal Palace, il campionato ormai lo ha vinto il Chelsea, la partita non ha praticamente alcun senso per la classifica.
Però entrerà di diritto nella storia di questo sport. Sì perché questa, è stata l’ultima partita di Steven Gerrrard a casa sua. A nessuno interesserà sapere com’è andata, chi ha vinto, chi ha segnato. L’unica cosa che conta è che noi, amanti di questo sport, non vedremo più la bandiera di questa squadra difendere i suoi colori.
E’ stato un addio nel suo stile. Pacato, nonostante un’entrata trionfale, con le due squadre ad aspettarlo all’ingresso in campo e il capitano accompagnato dalle sue tre bellissime bambine.
E’ sembrato quasi in difficoltà, non gli è mai piaciuto stare sotto i riflettori, lo si è notato anche in questa circostanza. Sembrava volesse far terminare il prima possibile quella celebrazione, per far incominciare la partita, l’unico suo interesse. E’ stato salutato, come una leggenda deve essere salutata.

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Facciamo qualche passo indietro.
Venerdì 30 maggio 1980, a Whiston, una città che si trova nella periferia inglese del Merseyside, a tredici chilometri da Liverpool, nasce Steven Gerrard. Cresce in una famiglia tifosa del Liverpool, la sua carriera nei reds inizia all’età di sette anni.
Era un semplice bambino, che aveva la fortuna di giocare per la squadra del suo cuore. Poi il destino un bel giorno ha tirato i dadi, e gli dei del calcio hanno deciso che lui sarebbe diventato la bandiera dei Reds.
Quello che è stato, Steven lo è diventato nel tempo.
Tutto è iniziato in un pomeriggio della primavera del 1989. E’ il 15 aprile, ad Hillsborough si gioca la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest. Steven ha nove anni e vorrebbe tanto andare a vederla quella partita. Non può andarci, oltre alla delusione anche la beffa, suo cugino, Jon-Paul Gilhooley ha ricevuto il biglietto per la partita.
Nessuno dei due sa cosa succederà quel pomeriggio maledetto. La tragedia che cambierà per sempre il calcio inglese. La Leppings Lane diventa una tomba a cielo aperto, novantasei le persone che moriranno schiacciate. Tra queste c’è anche il cuginetto di Steven.
Non puoi diventare Steven Gerrard se non hai vissuto una tragedia del genere.
L’esordio con i suoi colori del cuore tra i professionisti arriva nel 1998, contro il Blackburn. Nel 2001 i primi trofei importanti, in quell’anno il Liverpool ottiene un treble di tutto prestigio. Aggiudicandosi, la FA Cup, la coppa di lega e la coppa Uefa. Il 2003 è una tappa fondamentale per la costruzione di quello che sarà Steven Gerrard, rileva la fascia di capitano da Hyypià. Decisione fortemente voluta dal suo allenatore Houllier, il quale afferma che il ragazzo sin da giovane, ha dimostrato caratteristiche da vero leader.
La storia gli darà ragione.

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Il 2005 è l’anno della svolta, l’anno dell’affermazione, della consacrazione da leader.  25 maggio, stadio Ataturk di Istanbul. Finale di Champions League. I reds si scontrano contro i rossoneri del Milan. Dopo quaratacinque minuti sembra che sia già tutto finito. Tre a zero secco del Milan. Con gol di Maldini e doppietta di Crespo. Il Liverpool non è sceso in campo nel primo tempo. Giocatori, dirigenti, tifosi milanisti sono ormai convinti di averla vinta. E chi non lo sarebbe?
Però, il pallone è rotondo. E infatti al sessantesimo minuto il risultato e’ di tre a tre. I reds hanno fatto il miracolo. Tutto come prima, in soli sei minuti.  La rimonta non poteva che iniziare da lui, è Gerrard a segnare il tre a uno, con un colpo di testa. Raccoglie la palla e incita compagni e tifosi. Tre a due di Smicer. E poi sempre lui, si procura il rigore. Xabi Alonso lo tira, tre a tre. Il Milan ricomincia a giocare, ma ormai è tardi. Ma manca mezz’ora? Fa niente, ormai la partita è nella mani di quelli con la maglietta rossa. Il destino decide di prolungare l’agonia dei milanisti fino ai calci di rigore. Vince il Liverpool.  Ora il ragazzo che tifava Liverpool, è finalmente diventato Steven Gerrard. Dopo la finale dichiarerà ” Come posso lasciare Liverpool dopo una notte come questa?“.
Il calcio però è spietato. Ha il brutto vizio di venire a riprendersi tutto quello che ti ha dato.
Con lui però è stato particolarmente stronzo. (Concedetemi il termine)
La stagione è quella dell’anno scorso, 2013/2014. In panchina c’è Brendan Rodgers, che ha portato il Liverpool a giocare un calcio bellissimo, condensandolo con il primato in classifica. Quando ormai sembra che la Premier League possa tornare ad Anfield, a distanza di ventiquattro anni, succede l’impensabile. L’avversario è il Chelsea di Mourinho, si gioca ad in casa dei reds, i Blues ormai sono tagliati fuori dalla corsa scudetto. Il finale sembra già scritto, invece.
Invece, il tempo regolamentare del primo tempo è scaduto, l’arbitro ha dato tre minuti di recupero, mancano solo trenta secondi. Steven arretra sulla linea dei difenorsi per farsi dare palla e iniziare l’azione, la riceve, controlla male e scivola. Demba Ba è in agguato e parte verso la porta. Gol. Uno a zero Chelsea. Il capitano raccoglie il pallone dalla rete e lo porta a centrocampo. Finirà due a zero per la squadra di Mourinho. Finirà il sogno di una vita. Così, nella peggior maniera possibile. Per colpa di un suo errore. Steven ha pianto, insieme a lui ha pianto tutto Anfield. Ma anche in quell’occasione, si è comportato da capitano, da bandiera.
Perché, come ci ricorda Paolo Maldini, “una bandiera si vede quando il vento soffia forte“.

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Non è stato né un fenomeno, né tanto meno un fuoriclasse, non era uno di quelli che attirano l’attenzione dei tifosi durante la partita. Nasce come centrocampista, ma si evolverà in una dimensione maggiore.
Ci sono centrocampisti che si occupano della fase difensiva, centrocampisti che hanno il ruolo esclusivo di impostare il gioco, centrocampisti bravi nell’inserimento e nella conclusione a rete e centrocampisti che si occupano di fornire assist ai propri attaccanti.
Gerrard è stato in grado di essere tutto questo. Nella stessa azione potevi vedere una sua scivolata per recuperare palla e poi trovarlo qualche secondo dopo in area avversaria a concludere l’azione.
Buone capacità di interdizione, niente male come regista, fantastico nelle conclusioni dalla distanza, bravo ad inserirsi ogni volta che ne aveva l’occasione. Capace anche di segnare da calcio da fermo. Sia su punizione che su rigore.
Ha avuto un talento raro, qualsiasi cosa faceva, non la sapeva fare male. E poi ci metteva il cuore, sempre e comunque.
Un esempio dentro e fuori dal campo. Un padre di famiglia, un capitano, una bandiera.
Mai sopra le righe, anche l’annuncio del suo addio al Liverpool è passato lontano dai riflettori.
E’ la decisione più difficile della mia vita. Lascio la Premier League, non giocherò per un club concorrente, non sfiderò il Liverpool, una cosa che non avrei potuto contemplare. Voglio sperimentare qualcosa di diverso nella mia carriera“.
Giocherà in America, per i Los Angeles Galaxy, questo però ci interessa poco o nulla.
Allora giochiamo un po’, prendiamo quel numero otto e giriamolo, facendolo diventare il simbolo dell’infinito. Ciò che è stato Steven in mezzo al campo.
Infinito e maestoso.
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Quando staranno per terminare i miei giorni, non portatemi in ospedale, ma ad Anfield. Qui sono nato e qui voglio morire“.
God save the Captain.

Gezim Qadraku.

Gracias Leo

La vita ci spezza tutti. Solo alcuni diventano forti nei punti in cui si sono spezzati“.

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Se penso a Lionel Messi, la prima cosa che mi viene in mente è quel disturbo della crescita che gli fu diagnosticato in età preadolescenziale. Una notizia che non lascia spazio a nulla, si impossessa dei tuoi sogni di bambino e li distrugge in un attimo.
Invece, come scrisse una discreta penna statunitense che di cognome faceva Hemingway, solo alcuni diventano forti nei punti in cui si sono spezzati.
Sì perché Leo, su quel difetto ci ha costruito il giocatore più forte del mondo.
Il ragazzo di Rosario nato con il numero diez cucito sulla pelle e quel paragone che gli è stato affibiato sin da piccolo nei confronti del NUMERO DIEZ, l’inarrivabile Diego Armando Maradona.
Ha iniziato la sua carriera ed è andato avanti, lasciando agli altri il peso di quel confronto.
Nel frattempo, anno dopo anno ha percorso quella lunga strada, che lo ha portato sempre più vicino al suo idolo.
Lionel, all’età di ventisette anni ha realizzato quattrocentodiciotto gol, ha vinto quattro palloni d’oro di fila (unico nella storia), ha vinto tre Champion’s League, due coppe del mondo per club, un oro olimpico, e attualmente guadagna sessantacinque milioni di euro all’anno. Ha stracciato qualsiasi record individuale con una facilità disarmante.  Questi sono i numeri del calciatore più forte del mondo.
Sì, Messi è il calciatore più forte del mondo.

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Gioca per e con la squadra, le sue azioni non sono fini a se stesse, segna, distribuisce assist a destra e a sinistra. Esulta con i suoi compagni anche quando non segna, a differenza del suo rivale Cristiano Ronaldo.
Un tocco di palla, che è stato definito il migliore di tutti i tempi, da un certo Maradona. Un sinistro a dir poco favoloso, infallibile, il destro è migliorato tantissimo, se c’è da segnare di testa non si tira mica indietro.
Una capacità disarmante nel saltare gli avversari, un’ottima visione di gioco, che lo porta anche a prendere la palla a centrocampo per allargare l’azione su quei fantastici terzini di cui dispone il Barcellona. Quando lo si guarda giocare, dà l’idea che da un momento all’altro potrebbe farsi dare palla, scartare tutti e segnare. Senza dover faticare. Decisivo, sempre.
Iniesta, il suo compagno di squadra, ha detto che entrambi fanno le stesse cose con la palla nei piedi, solo che Messi le fa ad una velocità doppia.
Niente si può dire su quello che è riuscito a fare con il Barcellona. E’ stato lui a ribadire la sua fortuna, per essere capitato in una squadra del genere. Il suo talento si amalgama alla perfezione con il gioco dei blaugrana. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Qualche cosa in più, gliela si può dire per quanto riguarda la nazionale. Il palmarès parla solo di un mondiale under 20, vinto grazie ad una sua doppietta in finale ai danni della Nigeria, di un oro olimpico e di una finale dei mondiali, persa contro la Germania.
Decisamente un po’ poco per il calciatore più forte del mondo. Il fatto che balza agli occhi, è la differenza di adattamento. Lionel sembra quasi un pesce fuor d’acqua quando gioca con la maglia albiceleste, rispetto al giocatore che si vede al Camp Nou.
Se provate a chiedere agli argentini cosa ne pensano di lui, vi risponderanno che:
sì ok, il talento non si discute, ma qua non ha ancora vinto niente“.
Manca quella coppa, la più bella, la più ambita. Il tempo è ancora dalla sua parte.

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Tante magie, gol, assist, giocate, invenzioni in questi anni. L’ultima, la doppietta ai danni del Bayern Monaco. Allenato da quel Pep Guardiola, che riuscì a tirare fuori tutto il talento di questo fenomeno.
Un missile di sinistro da fuori area, e poi un dribbling secco sul povero Boateng e la lucidità di effettuare un pallonetto, di destro, al portiere più forte del mondo. Ah, per finire assist al suo compagno di squadra Neymar, per mettere una ipoteca sul passaggio in finale.
Dopo questa partita Arrigo Sacchi lo ha definitivamente consacrato, definendolo “Genio del calcio“. Leo sarà anche stato fortunato a capitare nel Barcellona, ma se c’è qualcuno di veramente fortunato, quelli siamo noi. Noi amanti del calcio.
Noi che possiamo rifarci gli occhi ogni volta che scende in campo.
Definirlo semplicemente un calciatore, mi sembra troppo riduttivo.
Leo è un artista. Nella sua arte, il gioco del calcio, ha raggiunto l’eccellenza.
Quello che ci ha fatto vedere fino a questo momento, nessuno era stato in grado di farlo.

Che dire,
gracias Leo.

Gezim Qadraku.

E se i Black Bloc facessero comodo?

Un mese di Maggio che si è aperto con scontri, contestazioni, polemiche e tante, troppe domande.  Due i cortei di protesta da segnalare, quello di Milano del primo maggio e due giorni dopo quello di Bologna. Nati con intenzioni pacifiche, finiti in tutt’altra maniera.
Nell’arco di 72 ore, si è potuto notare come il comportamento delle forze dell’ordine sia passato da un estremo all’altro.
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Cos’è successo a Bologna?
Si festeggiavano i settant’anni della liberazione e la prima festa dell’Unità. Il presidente del consiglio dei ministri, Matteo Renzi, era atteso al parco della Montagnola. Un parco pubblico, che per l’occasione è stato militarizzato.
Perché? Sicuramente per la paura che potesse ripetersi quello che era accaduto a Milano due giorni prima. Il collettivo di protestanti ha cercato di entrare dall’ingresso principale, il quale era stato chiuso e messo al sicuro dagli agenti di polizia. Dopo un lancio di uova e insulti, con scarsi risultati, il corteo si è spostato ad un’altra entrata.
Con mani alzate e volti scoperti sono continuati i cori, le offese e le richieste di poter parlare con Renzi. I due fronti si sono avvicinati sempre di più e una volta venuti faccia a faccia, la polizia ha caricato. Manganellate, spinte, calci e pugni.
Risultato? Una donna a terra con un braccio rotto. Molti ragazzi feriti. Ma sopratutto tanta indignazione e molta rabbia.  La stessa che i protestanti hanno ribadito con urla e cori, fuori dal parco durante il discorso di Renzi.  Un discorso nel quale, il presidente del consiglio dei ministri ha evocato la libertà di espressione. Proprio quando qualche attimo prima, chi si era permesso di utilizzare questo diritto era stato aggredito dalle forze dell’ordine.

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E allora qualche domanda sorge spontanea. Perché due giorni prima chi si è permesso di mettere a ferro e fuoco Milano non è stato sfiorato? Perché invece, chi contesta civilmente viene caricato?
E’ interessante dare un’occhiata alla guerra che si svolge sui social ogni giorno. Quello dei social è un conflitto denso di errori. C’è sempre fretta di prendere una posizione, quando succede qualcosa che attira l’attenzione del paese intero. E allora tutti sulla giostra a inveire contro i Black Bloc, contro il ventenne ( decisamente sotto l’effetto di qualche sostanza) che giustifica la violenza, contro i poliziotti che non hanno fatto niente, contro le stesse forze dell’ordine che due giorni dopo si sono permessi di fare l’esatto opposto.
E’ uno sprint a chi se la prende per primo con il colpevole di turno. Commettendo l’errore che caratterizza queste situazioni. La mancanza di lucidità nel cercare di guardare più a fondo a quello che ci viene detto e mostrato dai media.
Mi soffermo su quello che è accaduto a Milano, perché ci ho trovato più di qualche somiglianza ai fatti di Genova di quattordici anni fa. Il caso della scuola Diaz è tornato sotto i riflettori mondiali, quando qualche settimana fa, la corte Europea dei diritti dell’uomo ha qualificato il blitz della polizia alla scuola come TORTURA.
Anche a in quel caso i Black Bloc non furono sfiorati.
Allora ci si chiede, se in entrambe le occasione, era questa l’unica soluzione possibile?
In molti dicono che se fossero stati attaccati sarebbe scoppiata una situazione ingestibile.
Si, forse, probabile. Non è da scartare come ipotesi.
Da prendere in considerazione le dichiarazioni di un agente di polizia, dopo gli scontri di Milano.
“Ci sono stati dei momenti in cui tutti noi sapevamo che si potevano prendere, fermare. Ma il funzionario ha detto no. Era un ordine e noi agli ordini dobbiamo obbedire. Ci sono alcuni funzionari che i gradi sembrano averli vinti con i punti delle merendine. 
A un certo punto li avevamo chiusi in una piazza. In quel momento i black bloc si potevano bloccare, se ne potevano fermare parecchi. Bastava spostare un po’ di uomini e si potevano chiudere del tutto. È vero che avremmo sguarnito il presidio verso la Scala, ma si poteva ridislocare solo una parte degli agenti”, racconta l’uomo, osservando che “già dalla vigilia si sapeva che l’orientamento era di evitare il contatto a tutti i costi.Fa rabbia vedere la gente che piange perché ha il negozio distrutto. La gente che ti chiede perché non li hai fermati”, commenta l’agente. Veniamo addestrati per fare queste cose, ma se poi non le dobbiamo fare perché ci addestriamo?”.
E se invece facesse comodo il loro intervento? Se fosse qualcuno a mandarceli?

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Fermiamoci un attimo. In questi mesi si è parlato praticamente solo di Expo. Nessuno ha avuto il coraggio di parlarne bene. Sprechi, mafia, appalti, debiti, lavori in ritardo.
E dal giorno dell’inaugurazione invece?
Parole al miele, elogi, messaggi di soddisfazione. Per quanto possano essere belli i padiglioni e tutto il resto, non posso metterlo in dubbio vedendo le immagini, non capisco come sia stato possibile questo cambio di rotta in un lasso di tempo così breve. Come mai si è passati da un estremo all’altro? Ci si è già dimenticati di tutto il fango che ha caratterizzato l’evento più atteso dell’anno?
Il governo ha avuto tutto quello che sembrava impossibile fino a poche ore prima dell’inaugurazione. Un’ottima figura, complimenti per l’organizzazione, messaggi di soddisfazione e soprattutto, l’attenzione dei media dirottata su altro.
Nonostante i lavori non siano ancora stati finiti, o finiti male. Vedi l’incidente del padiglione della Turchia, che ha causato la corsa al pronto soccorso di una visitatrice. Numerosi fonti ci raccontano che il padiglione più indietro nei lavori sia quello italiano, che simpatica coincidenza.
Ci si è subito dimenticati anche del problema del lavoro in Italia. La figura del lavoratore offuscata dalla partenza dell’Expo, proprio nel giorno della festa nazionale dei lavoratori.
Mi viene dunque da dire, che per il governo e per le forze economiche del paese, l’azione dei Black Bloc è stata una manna dal cielo.

Fonti:

http://www.huffingtonpost.it/2015/05/04/expo-agente-milano_n_7202516.html
http://www.serviziopubblico.it/2015/05/renzi-carogna-fuori-da-bologna-gli-scontri-e-limmagine-choc-della-manifestante-ferita/
-http://video.corriere.it/renzi-bologna-scontri-fischi-fa-riforme-destra/ea02014c-f21f-11e4-88c6-c1035416d2ba

Gezim Qadraku.

La violenza non ha mai risolto niente

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Eccoci qua, per l’ennesima volta, a commentare qualcosa di vergognoso.
1 maggio 2015.
Quest’anno il primo maggio è stato tante cose.
E’ stata la festa dei lavoratori, anche se la maggior parte di questo paese non è rimasta a casa a festeggiare, ma è andata al lavoro.
L’altra metà, è rimasta a casa, non a festeggiare, ma a sperare di trovarlo un lavoro.
Il primo maggio è stata anche l’inaugurazione dell’Esposizione Universale , l’evento più atteso dell’anno.
Il primo maggio è stata anche la tradizionale manifestazione milanese per la festa del lavoro. Quello che è successo questo pomeriggio, non mi va proprio di considerarlo come primo maggio.
Ma cos’è successo?
Il corteo “No Expo” ha preso il via alle ore 15, da piazza XXIV maggio, porta Ticinese.  A formare il corteo c’erano famiglie con i propri figli, molti studenti, esponenti di vari partiti politici , clown, una banda che ha animato il corteo cantando “Bella ciao”. Bandiere raffiguranti, “L’altra Europa con Tsipras”, “No Tav”, “No Expo”.  Simboli antagonisti come le bandiere rosse, con falce e martello.
Tutto sembrava concludersi per bene, dato che il corteo aveva quasi raggiunto il punto di conclusione, a Pagano. Poco prima di raggiungere Cadorna, è scoppiato l’inferno.
La parte centrale del corteo si è separata e sono comparse maschere antigas, fumogeni, molotov, pietre. Tutto questo materiale è stato lanciato verso le forze dell’ordine.
Da quel momento si è verificato un susseguirsi di scontri, esplosioni, devastazioni, macchine bruciate, vetrine rotte e imbrattate. Trasformando il centro di Milano in uno scenario di guerriglia urbana.

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Ma chi sono i colpevoli di tutto questo?
Si fanno chiamare Black Bloc, si vestono di nero, si definiscono anarchici  e il loro scopo è organizzarsi per dare vita ad azioni di protesta violente.
Nonostante si definiscano anarchici, è molto difficile accettarla questa definizione. In quanto, una caratteristica principale di questo “blocco” è proprio la mancanza di pensiero.
Scrivo “blocco”, perché non sono né una organizzazione, né un gruppo. Visto che non hanno sedi, giornali e neanche una ideologia.  La loro costante è il rifiuto al capitalismo, ogni persona può intrufolarsi tra di loro ad una manifestazione e distruggere tutto quello che riesce.  Quindi per correttezza, ad ogni cosa il suo nome.  Insieme di soggetti, che in certe situazioni, preferibilmente cortei o manifestazioni, si aggregano giusto il tempo per commettere disordine e violenza.

Non si è mai risolto niente con la violenza, la storia lo dimostra.
Ho appena ascoltato un’intervista di un giovane ragazzo, presente questo pomeriggio al corteo, il quale con molta convinzione ha affermato che senza la violenza non si sistemerà mai niente. Caro ragazzo, la non violenza ha cambiato il corso della storia.
Ora ti faccio qualche esempio.
Un certo Gandhi, conquistò i diritti per i suoi compatrioti utilizzando il metodo della non violenza, detto anche “satyagraha”.
Esattamente cinquant’anni fa, Martin Luther King guidava oltre cinquecento manifestanti, alla marcia che iniziò da Selma e si concluse a Montgomery. La manifestazione fu bloccata dalle forze dell’ordine, tramite l’utilizzo della forza.
Tutto questo portò alla legge che proibiva la discriminazione razziale e rafforzava il diritto di voto, dando la possibilità alle minoranze razziali di iscriversi alle liste elettorali.
I cittadini di Belgrado marciarono sul ponte della loro città per interrompere i bombardamenti della NATO. Ci riuscirono, nonostante il loro presidente Slobodan Milosevic fosse colpevole di crimini di guerra.

Bisogna combattere la violenza. Il bene che pare derivarne è solo apparente; il male che ne deriva rimane per sempre“.
(Mahatma Gandhi)

Gezim Qadraku.