BEST

Rispettare le regole, un concetto che non ha mai fatto parte del suo codice di comportamento. Non lo faceva per dimostrare qualcosa a qualcuno o per fare la parte del ribelle. Lui era semplicemente così, niente di più.
Sarebbe bastato solo il cognome, ingombrante è dire poco, a mettere pressione a chiunque altro avesse voluto diventare un calciatore, o comunque uno sportivo. La pressione, altro concetto che non ebbe posto nella sua quotidianità. Giocava a calcio con la stessa facilità con la quale avrebbe deciso di rovinarsi la vita. Sì perché per George decidere un Manchester – Liverpool, era come farsi fuori tutto l’alcool che il pub dell’occasione gli metteva a disposizione.
Il migliore, come recitava il suo cognome, lo diventò per davvero. Purtroppo fu una fiamma della durata troppo breve, due o tre stagioni, non di più.
Si prendeva gioco degli avversari in maniera così facile, che riguardando le immagini viene da pensare che gli altri fossero davvero scarsi. Pure uno come Cruijff andò in difficoltà contro di lui, quando quel giorno del 1976 si prese un tunnel e quella frase che non ha bisogno di commenti.

Tu sei il migliore perché io non ho tempo”.

Poi rimase solo il ricordo, perché anche se lui c’era e giocava ancora, poco ma giocava, non sarebbe più stato il migliore. Aveva deciso di impegnare tutte le sue fatiche ai banconi dei pub e quello che gli restava sul campo da calcio. Si distrusse con le proprie mani, dando alla sua esistenza un finale terribile.
Se ne andò undici anni fa, a salutarlo ci furono qualcosa come 25mila persone.
Per quelli come me, che non hanno avuto la possibilità di poterlo guardare in televisione, rimarrà l’idea di essersi persi qualcosa di leggendario.
Perché il 7 del Manchester United sarà per sempre suo.
Continuerà ad essere ricordato per quello che fece in campo, per quello che avrebbe potuto essere e per come riuscì a buttare via tutto il suo talento.
Se ne accorse quando ormai era troppo tardi, quando poche ore prima di morire lasciò a tutto il mondo un messaggio importante:

Don’t die like me”.

Gezim Qadraku.

Hei tu, mi piaci.

Venerdì sera, Berlino, orario di punta, la metropolitana è piena. Nessuno vorrebbe essere qui in questo momento, le facce delle persone non sono un gran programma. Tutti distrutti dalla settimana lavorativa appena conclusa. La giornata è iniziata nella peggior maniera possibile, solo quando ho preso la metro stamane, mi sono accorto di aver dimenticato l’ipod a casa. Non sono uno che legge, mi annoia, mi fanno addormentare i libri. La musica è l’unico modo che ho trovato per far passare più velocemente possibile, il tempo che separa la mia fermata da Alexandeplatz. In ufficio è stata una gara a chi lavorava di meno, il venerdì è il giorno dell’orologio. Un continuo chiedersi quanto manca alla fine della giornata.
Sono appena salito e non c’è posto per sedersi, inizio a fissare la gente che mi sta intorno, provando ad immaginarmi le loro vite, ma questo esercizio risulta poco interessante. Dopo due fermate mi giro verso le porte per osservare chi entra, la decisione risulta essere ottima perché mi accorgo di una ragazza che è appena salita. E’ molto giovane,  è vestita in modo elegante, starà facendo uno stage in qualche azienda importante. Ci scambiamo uno sguardo intenso, mi piace, le piaccio, mi sorride, le sorrido. Dopo questi fugaci primi secondi di sintonia, entrambi, cercando di non dare nell’occhio, cerchiamo di avvicinarci. Passano due fermate e siamo vicinissimi, la folla di persone attorno a noi facilita le nostre intenzioni, le nostre braccia si toccano. Non ci guardiamo, ma ci sentiamo. Lei è rivolta verso le porte, io guardo dalla parte opposta. Non manca molto al capolinea, non so che fare, nonostante abbia un mucchio di scuse per tentare l’approccio. Ha un libro in mano, non riesco a vedere la copertina, ma potrei lo stesso chiederle com’è. Potrei spacciarmi per uno che è appena arrivato a Berlino e farle qualche domanda stupida.
Il tempo passa inesorabile, la mia fermata si avvicina. Cambio idea, qualcosa mi dice che scenderà con me. Mi convinco che una volta soli sarà tutto più facile.  Penultima fermata.
Non sento più il suo braccio, mi giro, sta uscendo. Se ne va con un passo veloce e deciso. Si aspettava la mia mossa, è rimasta delusa.
Mi guardo attorno, i posti sono quasi tutti liberi. Manca una sola fermata, mi siedo lo stesso.
Mi sono bastati quei pochi secondi di contatto per rivitalizzarmi. Il mio corpo è da ormai troppo tempo teso come una corda. Mi manca l’amore. Mi manca il contatto con una donna, accarezzarla, baciarla, tenerla per mano. Mi sto dimenticando cosa si prova.
La metro è arrivata al capolinea, scendo.
Passo il tempo che mi separa dalla stazione a casa mia pensando a come sarebbe potuto essere il futuro con lei. Non riesco a fare nessuno sogno erotico, era una di quelle ragazze con la quale sarei rimasto abbracciato tutto il giorno.
Forse ci si ama di più durante un abbraccio che mentre si fa l’amore.
Ripenso a tutte volte che è già successo, quante ragazze interessanti ho lasciato andare via senza fare niente. Mi ripeto la frase che utilizzo sempre in queste situazioni, per cercare di voltare subito pagina.
Non era quella giusta, tranquillo.
Se vi piace una persona, fermatela e diteglielo.
Hei tu, mi piaci.

Gezim Qadraku.

Sta vincendo la democrazia

Non è di certo stato un anno noioso questo 2016.
A giugno il popolo britannico ha votato per lasciare l’Unione Europea, nella notte gli americani hanno scelto Donald Trump come prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Entrambi gli avvenimenti mi hanno portato a due conclusioni opposte, una positiva e una negativa.
Parto da quella negativa, che penso ognuno di noi abbia potuto riscontrare navigando in internet nei giorni pre o post voto, ovvero l’enorme interesse che nutriamo nei confronti delle vicende altrui. Incredibile come siamo curiosi, come cerchiamo di informarci quando si tratta degli altri, come pensiamo di dover assolutamente dire la nostra su cose che conosciamo a malapena. Mentre quando a casa nostra c’è da prendere una decisione importante, sembra quasi che la cosa non ci tocchi.
E’ come se stessimo vivendo per giudicare gli altri, non vediamo l’ora di vedere chi ci sta intorno sbagliare per poter puntare immediatamente il dito contro.

“LAVATEVELI VOI I PIATTI ADESSO”

 

“ORA POTREMO SFOTTERE GLI AMERICANI PER ANNI”

 

Entrambe le vittorie sono figlie di un periodo che gli storici potranno definire “ognuno a casa propria”, soprattutto per la Brexit.
Eppure basterebbe leggere i libri di storia per capire che muri e segregazione non hanno portato ad alcun risultato, nonostante questo nel 2016 si parla ancora di governi che chiudono confini e di destre estremiste che rischiano di tornare al potere.
E’ la vittoria dei razzisti, degli intolleranti e degli egoisti. Ognuno pensa al proprio giardino e se accade qualcosa è colpa del vicino. Non abbiamo imparato nulla e mi chiedo con che coraggio racconteremo questo periodo ai nostri figli.

 
Quella positiva invece è che, nonostante le decisioni prese da britannici e americani, la popolazione di tutto il mondo si sta accorgendo, almeno spero, di quanto potere abbia tra le proprie mani. Al di là dell’esito di questi due avvenimenti, è stato il popolo il vero vincitore.
Quando la popolazione decide, non si può far altro che accettare.
Potrà suonare banale questo pensiero, ma stiamo vivendo nel mondo per il quale i nostri antenati hanno lottato e combattuto.
Uomini e donne hanno il diritto di voto, gran parte della popolazione mondiale ha accesso all’informazione, tutto ciò porterebbe a pensare ad un mondo quasi perfetto. Nel quale ognuno di noi dovrebbe arrivare preparato prima di votare.
Tutto questo però comporta dei rischi, come la possibilità per chiunque di scrivere in rete teorie completamente false e andare a votare. Diventando decisivo, con la propria ignoranza, per il futuro del paese.

Il trionfo di Trump è l’ennesima vittoria della democrazia. E’ diventato presidente degli Stati Uniti d’America uno che durante la campagna elettorale ha sparato un mucchio di puttanate,come le ha definite Crozza, con le quali sembrava continuasse a tirarsi la zappa sui piedi. Uno che non ha niente a che vedere con il mondo dell’élite politica, uno che in teoria non poteva entrare in quel giro. Sistematicamente attaccato dai media, i quali lo consideravano già perdente, ma nonostante tutto è riuscito a convincere il popolo, che ora dovrà subirselo per i prossimi quattro anni.

Siamo già a due esempi in un anno, due vittorie che nessuno si sarebbe mai aspettato. Ha vinto l’impensabile, ma è stata la comunità a deciderlo. Hanno votato quelli come noi, gli studenti, gli operai, le impiegate, gli sportivi,gli insegnanti, i nostri genitori e i nostri nonni. Domani saremo noi a prendere una decisione importante.
Votando abbiamo un enorme potere a nostra disposizione, sarebbe buona cosa utilizzarlo nel miglior modo possibile.

Gezim Qadraku.

Amici

Sono le 20:15, l’arrivo a Milano Centrale era previsto per le 20:05. Il treno è ancora fermo a pochi metri dalla stazione. Il vagone non è affollato, una decina di persone, il silenzio è stata la costante di tutto il viaggio. Sono in piedi da qualche minuto insieme a tutti gli altri passeggeri, mi sono già messo il giubbotto e guardo fuori dalla finestra per capire il motivo della sosta. Davanti a me una coppia giovane. Lei è una delle ragazze alla moda di questi tempi.
Converse ai piedi, risvoltino ai jeans, borsa che vale uno stipendio e quella sensazione che una del genere non abbia molto da offrire. Mentre il suo ragazzo le parla, uno che avrà sì e no vent’anni, ma ne dimostra dieci di più, lei controlla le notifiche sullo smartphone.
Distratto dalle parole che lui le rivolge, non mi accorgo che il treno è ripartito e si sta fermando di nuovo perché finalmente siamo arrivati.
Quindici minuti di ritardo. Bentornato in Italia.

E’ una sera di novembre, una leggera nebbia ha colorato Milano di grigio, ma non fa ancora freddo per fortuna. Attraverso la stazione camminando alla velocità che questa città richiede, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta, ma più di vent’anni di abitudini milanesi saranno difficile da dimenticare.
Mi lascio la stazione alle spalle e mi dirigo verso la fermata del tram. In meno di dieci metri due venditori di accendini e altri oggetti mi si avvicinano, ma proseguo avanti senza dir loro neanche una parola. Prima di arrivare alla fermata vedo un senzatetto per terra avvolto in una coperta di lana di colore rosso. Davanti a lui un bicchiere di plastica quasi vuoto. Non gli lascio nessuna monetina. “Se aiuto lui dovrei aiutarli tutti”, mi ripeto ogni volta. Dato che non posso aiutare tutti, allora non aiuto nessuno. Dopo essermelo lasciato alle spalle mi dico che avrei potuto dargli almeno un euro. Se io aiuto lui, qualcuno aiuterà un altro senzatetto da qualche altra parte. Non è di certo compito mio dare una mano a tutti, basta che io faccia qualcosa per chi incontro sulla mia strada. Arrivo alla conclusione che sono una persona egoista come tanti, non do mai una mano a nessuno e utilizzo sempre la solita scusa per pulirmi la coscienza.

La mia attenzione viene successivamente rapita dal fatto che il monitor alla fermata non funziona e non so tra quanto arriverà il tram. Cerco di orientarmi di nuovo in quella che è stata la mia quotidianità per tanto tempo.
C’è solo una donna che parla al telefono al mio fianco, ha le cuffie e sembra che abbia la videocamera accesa,  dato che continua a fare facce simpatiche mentre parla. Nel frattempo arriva gente, è un continuo di clacson che suonano e macchine che non rispettano il semaforo rosso. Osservo l’entrata della stazione e mi accorgo che è piena di ragazzi di colore, chi vende qualcosa e chi vaga senza una meta.
Continuo a scrutare la vita milanese che mi scorre di fianco, è passato un anno dall’ultima volta, mi pare un’eternità. Gli amici mi stanno aspettando a casa di Luca. Tra una settimana parte per New York e ha voluto fare una cena come ai vecchi tempi per salutarci. Non potevo assolutamente mancare.

Mentre cerco di immaginarmi come andrà la serata, il tram arriva. Salgo, non ho il biglietto, me ne accorgo solo una volta dentro. Non ci saranno controllori in giro a quest’ora. Rimango in piedi, continuo ad osservare ogni minimo dettaglio. Penso di mettermi le cuffie ed isolarmi, ma preferisco proseguire ad ascoltare ciò che succede. Solo il fatto di udire di nuovo le persone che parlano in italiano mi dà l’idea di essere a casa. Anche se in realtà è da un quarto di secolo che mi chiedo quale sia il posto che io debba considerare casa. Mi mancavano i tram milanesi. Sono su uno di quelli vecchi con gli interni di colore marrone, quanto li amo. Mi fanno provare una strana nostalgia verso un’epoca che non ho mai vissuto. Davanti a me due giovani ragazze parlano in inglese, saranno qui in Erasmus. Continuo a fissarle, sono veramente carine. Mi sento a disagio perché non ho la più pallida idea di che età possano avere, potrebbero anche essere minorenni. Allora cerco di guardare altro, osservo la città, ma continuo ad ascoltare ciò che accade sul mezzo. Un ragazzo parla al telefono con un amico, una certa Marta gli ha chiesto se una mattina è libero per fare colazione assieme. Ha un sorriso a trentadue denti mentre parla, gli brillano gli occhi. Se solo Marta potesse vederlo, per rendersi conto di quanto lo ha reso felice.
Scende alla fermata successiva insieme alle ragazze.

Dopo una ventina minuti sono finalmente arrivato, sicuro che i ragazzi avranno provato a chiamarmi, ma la scheda tedesca non funziona una volta passato il confine.
Fortunatamente c’è un supermercato nella via dove abita Luca, non posso presentarmi a mani vuote. Compro il primo vino che costa più di cinque euro. Sono stanco e in ritardo per perdere tempo a scegliere. Arrivo alla cassa, davanti a me c’è un uomo di colore. Non è africano, sarà Pakistano o Indiano. Ha una faccia sofferente, è stanco, la schiena curva in avanti, i vestiti sporchi. Ha comprato cinque bottiglie di vino bianco. Le inserisce tutte in un sacchetto, esegue due nodi e lo guarda con insicurezza. Lo sa che potrebbe rompersi e rimane fermo per qualche secondo a pensare. La cassiera lo osserva dubbiosa. Probabilmente è indeciso se spendere dieci centesimi per comprarne un altro, evidentemente per lui quegli spiccioli fanno la differenza. Decide di risparmiare ed esce dal supermercato. La gente di fianco a noi sta soffrendo, ma molte volte non ci accorgiamo di nulla. Bisognerebbe fermarsi a guardare ciò che ci circonda, per rendersi conto di quanto si è fortunati.

Pago la bottiglia, esco dal supermercato e mi dirigo verso il numero civico 26.
Citofono, mi aprono subito senza chiedere chi è. Luca mi ha scritto che l’entrata del suo condominio è la lettera E. Do un’occhiata veloce e capisco che deve essere quella davanti a me in fondo. Un altro citofono, il portone si apre e già sento le voci famigliari dei ragazzi. Non faccio in tempo a fare i primi scalini che intravedo una luce uscire da una porta del primo piano:

FINALMENTE!
E’ Luca, mi corre incontro, ci abbracciamo forte.

“Ho provato a chiamarti, ma rispondeva una voce tedesca”
“Eh sì immaginavo, appena esco dalla Germania non sono più raggiungibile”
“Sarei venuto a prenderti, ma ho pensato che sarebbe stato inutile”
“Hai fatto benissimo, poi sono solo venti minuti di tram che sarà mai”

Saliamo insieme, varco la soglia e vengo investito da una botta di ricordi e sorrisi. Non manca nessuno: Clara, Greta, Jack e Pippo.

“E’ arrivato il cruccoooooo!”
“Eccolooooo!”
“Marcolino finalmenteee!”
“Ohhh ragazzi che bello rivedervi!”

Abbraccio tutti. Sembra passata una vita dall’ultima volta, eppure niente è cambiato. Neanche il tempo di mettere giù la borsa, che mi ritrovo con in mano un bicchiere di vino rosso a parlare con quelli che sono stati i miei compagni di vita durante il periodo universitario. In pochi minuti le distanze e i cambiamenti spariscono, ogni singolo ingranaggio riparte a funzionare da dove si era fermato.
Pensare che tre anni fa festeggiavamo le nostre lauree e da quel giorno ognuno ha preso una via diversa. Io l’unico ad aver lasciato l’Italia,  Clara e Pippo hanno trovato lavoro a Roma, Greta convive con il suo ragazzo a Verona, Jack si è dato al giornalismo e Luca, dopo vari tentativi, ha deciso di provare l’esperienza americana.

“Ragazze ditemi subito cosa mi avete cucinato”
“Indovina un po’?”
“Cozze gratinate?”
“ESATTO!”
“Ahhhhh quanto mi manca il cibo italiano”
“Solo il cibo è, gli amici no?”

Risata collettiva, io e Jack ci picchiamo per gioco come abbiamo sempre fatto.
La serata prende il via, apparecchiamo la tavola tutti insieme e ognuno di noi racconta le novità agli altri. Si inizia a mangiare e tra una bicchiere di vino e l’altro sembra di tornare indietro negli anni. Finiti i primi Jack riceve una telefonata e si rifugia in una stanza, io e le ragazze usciamo a fumare, Pippo e Luca restano dentro a bere. Mi metto in mezzo a Greta e Clara chiedendo a loro di raccontarmi cosa mi sono perso in tutto questo tempo. Dopo qualche minuto smetto di ascoltarle, mi concentro sulle loro mani che mi scombussolano i capelli per farmi arrabbiare, guardo Pippo e Luca in cucina mentre bevono e ridono felici.

Un’ondata di ricordi invade la mia testa, ripenso a quegli anni passati insieme tra libri ed esami, quante gioie e delusioni, ma sempre  gli uni di fianco agli altri. Siamo un gruppo unito, ci vogliamo bene e questa cena ne è l’ennesima dimostrazione.
Solo ora che mi ritrovo in mezzo a loro, mi accorgo di quanto mi mancano.
Perso nei pensieri, mi dimentico di fumare la sigaretta. Sento che tutte queste reminiscenze mi stanno facendo commuovere. Ho gli occhi lucidi, fingo uno starnuto per non farlo notare alle ragazze.
Mi chiedo se ci sarà una prossima cena, penso a quante cose potranno cambiare negli anni, forse riusciremo tutti a costruirci una famiglia. Spero solo che ognuno di noi possa essere felice.

Racconterò di loro ai miei figli, quando mi chiederanno cos’è l’amicizia.
La paragonerò ad un oggetto di cui loro non avranno mai sentito parlare, ovvero la cassetta a nastro. Un oggetto che è già introvabile adesso, figurarsi tra qualche anno. Gli racconterò di come funzionavano le cassette, dei tasti che aveva una radio. Il Play, lo stop, le frecce per mandare avanti o tornare indietro. Dirò loro che l’amicizia è un bene prezioso, del quale bisogna prendersi cura. Proprio come facevamo noi da piccoli con le nostre cassette preferite, per poterle riascoltare ogni volta che ne avevamo voglia. Così è l’amicizia, se te ne prendi cura, puoi ascoltarla ogni volta che vuoi, perché non ci sarà distanza che tenga, il tempo per i tuoi amici riuscirai sempre a trovarlo.
Poi basterà schiacciare il tasto play e tutto ripartirà da dove si era fermato.

Gezim Qadraku.