Vendetta mancata

Sembrava già tutto scritto, Atlético Madrid campione e giustizia fatta.
Sembrava, perché era già successo al Milan. Perdere in maniera assurda una finale e prendersi la rivincita due anni dopo.
Sembrava, perché anche questa volta gli ingredienti erano quasi gli stessi.
A due anni di distanza, il destino ha dato la possibilità agli uomini di Simeone di riprendersi ciò che gli era stato tolto a Lisbona a soli due minuti dal fischio finale, ancora una volta contro di loro, gli odiati rivali del Real Madrid.
Forse per la prima volta i colchoneros erano favoriti contro i blancos, per tanti motivi.
A partire dal cammino per arrivare alla finale di Milano; i biancorossi sono stati in grado di superare due colossi come Barcellona e Bayern Monaco. Il Real invece ha avuto vita decisamente più facile, nonostante abbia deciso di  complicarsela contro il Wolsfburg per poi superare di misura il Manchester City, in una doppia semifinale tra le più noiose mai viste.
Oltre a questo c’era la sensazione che dovesse vincere l’Atlético perché sarebbe stato giusto così, perché due anni fa si erano fatti raggiungere nel peggiore dei modi, quando ormai erano ad un passo da alzare la coppa.
Poi perché non l’hanno ancora vinta, e prima dell’arrivo di Simeone, avevano raggiunto la finale solo una volta , con l’argentino in panchina sono arrivate due finali in tre stagioni.
Dovevano vincere loro anche perché gli odiati rivali ne hanno già vinte abbastanza, a Lisbona era arrivata la decima, si poteva pensare che fossero già felici e soddisfatti così.
Invece no, non è tutto questo che ti permette di vincere una Champions.
Puoi partire favorito, puoi avere un conto in sospeso con la sorte, ma una finale devi giocarla e vincerla.
Non è stato l’Atlético che siamo abituati a vedere, nel primo tempo sembravano degli agnellini impauriti. La tensione e la paura erano ben visibili nei loro volti, ma soprattutto nelle loro giocate. Un Real ordinato e convinto dei propri mezzi, giocando una buona partita ha portato a casa il massimo risultato.
Sarà che loro sono abituati, per i blancos giocare una finale di Champions è quasi la normalità, per i biancorossi no.
Una vita passata ad avere a che fare contro un vicino di casa che li ha sempre sovrastati in tutto: ricchezza, trofei, campioni. Per questo quando ti trovi lì, al secondo appuntamento con la storia, ancora una volta contro chi odi di più e il favorito sei tu, capita che ti tremino le gambe. Capita che la cattiveria e la grinta che ti contraddistinguono le lasci a casa. Capita che se ti chiami Torres e hai sempre tifato Atlético, senti così tanto la partita da non azzeccare un pallone.
Capita che calci un rigore pessimo nei novanta minuti, per poi tirarne uno perfetto dopo i supplementari e rammaricarti di non averlo calciato così anche prima.
Capita che in porta hai fatto i miracoli per tutta la stagione e anche nei 120 minuti della finale, ma dei rigori non riesci a sfiorarne manco uno.
Capita che sbagli il rigore decisivo perché hai troppa fretta di calciarlo e poi scrivi una lettera ai tuoi tifosi, scusandoti e promettendo a loro che quella coppa il vostro capitano la alzerà prima o poi.
Una squadra abituata a soffrire, abituata a stare nelle posizioni meno note, abituata a vincere le partite con il sangue e con la fame.
Una squadra e un popolo che riusciranno a superare questa ennesima delusione.
Tra due anni la finale si giocherà a Madrid, in quello che sarà il nuovo stadio dell’Atlético.  Vincerla a casa propria, davanti al proprio popolo, potrebbe essere il modo migliore per cancellare queste due atroci sconfitte.
Sarà la volta buona?

Gezim Qadraku.

Storie di calcio: quando Stimac augurò la morte alla famiglia di Mihajlovic

22 marzo 2013, Zagabria.
Allo stadio Maksimir la Croazia affronta la Serbia, ci si gioca la qualificazione ai mondiali del 2014. Già di per sé non è una partita normale, non può esserlo, tra due nazioni che vent’anni prima hanno dato il via a una sanguinosa e orribile guerra civile.
Ma come se non bastasse il rancore storico, c’è un’altra vicenda, tutta balcanica, a rendere questa partita fuori dal comune.
Prima della gara i due allenatori si stringono la mano e si abbracciano, si potrebbe pensare al solito saluto che si vede sempre prima di ogni fischio iniziale, invece è tutto l’opposto di quello che sembra.
L’allenatore della Croazia è Igor Stimac, mentre l’allenatore della Serbia è Sinisa Mihajlovic.
Per farvi capire quanto il c.t serbo sentisse la gara vi riporto le sue dichiarazioni:
per giocare questa partita darei due o tre anni della mia vita“.
Per l’allenatore croato invece, il calcio d’inizio della gara avrebbero dovuto darlo Ante Gotovina e Mladen Markac, due generali croati assolti dal tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, per crimini di guerra contro la popolazione serba in Croazia. Una volta tornati in patria, sono stati accolti come eroi di guerra da migliaia di persone scese appositamente in piazza.
La partita finisce 2 a 0 per la Croazia, decisive le reti di Olic e Mandzukic, saranno proprio i croati ad aggiudicarsi un posto ai mondiali brasiliani, ma tutto questo è parzialmente importante nel contesto di questa storia.
Il fulcro sono i due commissari tecnici e quel loro abbraccio che significa la pace, una volta per tutte. Sì perché fino a quel giorno, tra Stimac e Mihajlovic c’era stato di tutto, tranne che la pace.
Bisogna andare indietro nel tempo, esattamente l’8 maggio del 1991.
A Belgrado va in scena la finale della coppa di Jugoslavia, se la contendono l’Hajduk Spalato e la Stella Rossa. L’anno precedente, sempre in uno stadio di calcio, si capì che la Jugoslavia aveva ormai i giorni contati. Quella che ancora oggi viene ricordata come la famosa partita mai giocata.

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Igor Stimac (con la maglia numero 4) e Sinisa Mihajlovic

Questa volta la partita si gioca, la coppa se la aggiudica l’Hajduk Spalato vincendo per una rete a zero, con gol decisivo di Boksic. Durante i novanta minuti avviene qualcosa di difficile da spiegare.
La gara è sentitissima da entrambe le squadre, sei giorni prima, a Borovo Selo, è avvenuto un incidente che costituisce uno dei prodromi delle guerre jugoslave.
In questo piccolo villaggio a nord di Vukovar, quattro poliziotti croati hanno cercato di sostituire la bandiera della Jugoslavia con quella croata, gesto che ha provocato la reazione dell’esercito e della popolazione serba.
Borovo Selo è il villaggio dove Mihajlovic è nato e cresciuto, una situazione complicata la sua. Nato da madre croata e padre serbo, per lui quelli erano momenti tutt’altro che facili, dato che nessuno riusciva ad avere notizie di quello che stava accadendo nel suo villaggio.
Come se non bastasse, durante gli innumerevoli scontri sul terreno di gioco, Sinisa si trovò di fronte Stimac, il quale gli disse:
PREGO DIO CHE I NOSTRI UCCIDANO I TUOI A BOROVO“.
Queste parole sono impossibili da spiegare, impossibili da comprendere, risulta difficile dare una spiegazione logica ad un’espressione del genere. Questa frase va oltre ogni immaginazione, oltre a tutto ciò che ci si potrebbe aspettare in un campo di calcio.
La reazione di Mihajlovc fu furibonda, entrambi vennero espulsi. Il serbo dichiarò che avrebbe potuto ucciderlo a morsi. Il rapporto rimase teso anche negli anni successivi, nel 2003 Stimac lasciò la seguente dichiarazione:
Sua madre è croata, sua moglie è italiana, si è sposato e ha battezzato i suoi figli in una chiesa cattolica: i serbi non lo accetteranno mai“.
Qualche anno dopo Mihajlovic lo invitò a risolvere la questione davanti ad un bicchiere di vino, ma il croato rifiutò rispondendo:
Non potrei mai bere con lui. Sicuramente non avremo più contatti“.

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Un giovane Mihajlovic con il suo amico Arkan

Dopo lo scoppio della guerra lo zio materno di Sinisa minacciò di uccidere il padre, perché era serbo. La sua famiglia venne portata in salvo grazie all’intervento di Arkan, che li trasferì a Belgrado.
Un evento che ha contribuito a far sì che Mihajlovic optasse per la parte serba del suo sangue. Un Mihajlovic che durante il suo periodo da commissario tecnico della nazionale serba impose un codice di comportamento, che tutti i giocatori dovevano firmare e rispettare. Il primo ad accorgersi che il c.t faceva sul serio fu Ljajic, il quale non cantò l’inno nazionale e venne escluso dalla rosa.

Le porte della nazionale sono aperte a tutti, anche per Ljajic. Ma lui sa che la nostra rappresentativa ha i propri principi che nulla hanno a che vedere con il gioco. Tutti devono rispettare l’inno nazionale, il paese, la maglia. Se Ljajic canta l’inno e se è in forma io lo convoco. Se non vuol cantare, non può giocare.

Anche il capitano Ivanovic rischiò di fare la stessa fine, quando contestò la decisione del tecnico di applaudire l’inno degli avversari, una gesto che al giocatore del Chelsea sembrava stupido. L’allenatore non esitò a dirgli che se quello era il suo pensiero, poteva tranquillamente fare a meno di lui, il difensore cambiò idea e rimase nella rosa.
Di certo Mihajlovic non verrà ricordato per la sua deludente esperienza da commissario tecnico, una cosa che rimarrà della sua guida sarà l’importanza che diede ai valori umani rispetto a quelli tecnici.
Quei valori di appartenenza alla propria nazione, che hanno reso possibile una storia come questa. Il significato di quell’abbraccio, dopo anni di astio, è importantissimo. Per quanto possa essere stato forzato, ha dato un segnale fondamentale ad entrambe le nazioni. Il rancore probabilmente non cesserà mai, ma tutti si sono accorti che di buono, nel farsi la guerra, c’è ben poco.
Una storia così, poteva accadere solo nei Balcani.

Gezim Qadraku.

Venerdì sera

Sono le 19:10, scendo le scale della metro, mi dirigo verso il tornello, tiro fuori il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, lo appoggio sopra la banda magnetica, ma non mi legge la tessera dell’ATM. Mi tocca tirarla fuori dal portafoglio, dietro di me si è già creata la fila. Passo il tornello, sento che il treno sta arrivando, faccio le scale di corsa, arrivo giusto in tempo.
“DUOMO, FERMATA DUOMO”.
Si è appena fermato, si aprono le porte e mi fiondo dentro. Vedo un posto libero, mi ci butto letteralmente sopra. Sono stanco morto, non sento le gambe, vorrei distenderle ma non posso. Mi fa male tutto, la schiena, le braccia, la testa. La metro si è riempita, fa caldo, la gente non parla semplicemente al telefono, urla.
Dovrei mettermi le cuffie e isolarmi, ma non ho voglia di fare neanche questo. Arrivo da una settimana di sessanta ore lavorative. E’ da lunedì che entro in negozio alle 7 del mattino e ne esco alle 19, dodici ore di lavoro al giorno.
Luisa è in maternità, quell’imbecille di Giacomo non riesce a trovare una persona in grado di sostituirla e quindi tocca fare tutto a me in quel negozio di merda. Il cellulare inizia a vibrare, è il gruppo dei ragazzi.
13 messaggi:
“Raga tavolo stasera?”
“Grande bomber io ci sono”
“Io anche”
“Io no raga, sono con la Vero stasera”
“Dai coglione, hai tutto il weekend per scopare vieni a ballare”
“Figa oh sei il solito”
“Dai Andreeeeeeeeeeee”
“No davvero raga le avevo promesso questa cena da tempo”
“Sì sì metti sempre in secondo piano i tuoi amici”
“BRAVO BRAVO!”
“Oh raga ma Tia?”
“Boh non ha ancora visualizzato”
“Finisce tardi di lavorare, ma sicuro viene”
Invece no, non ho nessuna voglia di venire a ballare stasera, non ce la faccio. Anzi, non ho neanche voglia di rispondere. Ho bisogno di riposare, dormirò tutto il weekend, non ho voglia di fare assolutamente niente. Mi rinchiuderò in camera due giorni a dormire.
Rimetto il telefono in tasca, continua a vibrare, saranno sempre loro. Si saranno accorti che ho visualizzato. Alzo lo sguardo e una ragazza attira la mia attenzione.
Si è appena laureata, ha la corona d’alloro in testa, un vestito blu elegante che le arriva sopra le ginocchia la fa sembrare una di quelle donne in carriera.
Sento la madre parlare, non parla bene l’italiano, sono stranieri, devono essere dell’est.
Sì io conoscere quella persona. Brava persona lui“.
Ucraini, Bulgari o Russi, non sono in grado di distinguerli. La madre continua a parlare con una signora italiana, il padre scherza con il fratellino. Lei invece sembra sia chiusa in una bolla, è ferma, immobile, solo le brusche frenate del treno la fanno muovere.
Ha un sorriso timido, quasi si vergogna a mostrare quanto è felice. La sorella maggiore ogni tanto la tocca, le sfiora il viso, le sistema i capelli.Come a ricordarle che è tutto vero, si sorridono, ma lei non parla mai. Mi sembra che stia trattenendo tutto quello che sta provando, perché se dovesse lasciarsi andare scoppierebbe in un pianto liberatorio. Quei pianti di chi ce l’ha fatta, di chi è riuscito a coronare il suo sogno. Le lacrime di gioia, le più belle in assoluto. Sì starà immaginando il suo futuro, il lavoro dei sogni e una vita felice. Una vita migliore rispetto a quella dei suoi genitori.
PAGANO, FERMATA PAGANO. APERTURA DELLE PORTE A DESTRA. DOORS OPEN ON THE RIGHT“.
Scendono, andranno a festeggiare, li starà aspettando una cena con i fiocchi.
Mi fanno sentire ancora peggio di quanto io già stia, loro stranieri che ancora non parlano bene l’italiano e la loro figlia laureata. Io invece, che vivo nel mio paese, manco un diploma delle superiori sono riuscito a prendere.
Ora sono obbligato a fare lo schiavo in un negozio di vestiti, nel quale sono entrato solo grazie allo zio. Non bastava la stanchezza, ora mi sento una vera e propria nullità. Io, che nella vita non sono mai riuscito in niente.
Manca un’eternità a Molino Dorino, il cellulare non smette di vibrare, appoggio la testa al finestrino e chiudo gli occhi.
Sono in discoteca, la musica è alta, sto ballando con i ragazzi. Sono brillo e inizio a perdere l’equilibrio, nel frattempo mi arriva un altro drink. Ne bevo subito metà e lo lascio sul tavolo, mi è salita una botta in testa assurda, mi prometto di non bere più altrimenti starò male. Delle ragazze si avvicinano al nostro tavolo, iniziano a ballare,  noi ci guardiamo e iniziamo a ridere. Siamo tutti ubriachi, ne punto una e mi avvicino. Le dico qualcosa e lei sorride, si gira e inizia a ballare con me.
Ci guardiamo, ridiamo, mi dice qualcosa all’orecchio ma non capisco, la musica è troppo alta. Mi avvicino, le metto la mano dietro la schiena, lei continua a ballare. Mi piace, noto solo il vestito corto e provocante, del resto non mi interessa. Non mi ha respinto quindi continuo a provarci.  Mi avvicino ancora di più, le do un bacio sul collo e lei non si tira indietro. Continuiamo a ballare strusciandoci, già mi immagino che lo facciamo in macchina.
“DOORS OPEN ON THE RIGHT”
Mi viene un colpo, la voce dello speaker mi ha svegliato, non ho sentito a quale fermata siamo arrivati. Per un secondo penso di aver superato Molino, invece  siamo ancora a Uruguay fortunatamente. Mi sono addormentato e sono riuscito anche a sognare. La metro è praticamente vuota, davanti a me c’è solo una vecchia signora con una busta della spesa. Non si è accorta del mio risveglio, troppo impegnata a completare la settimana enigmistica. Il telefono inizia a vibrare, non sono messaggi è una chiamata.
Mamma.
“Sì mamma?”
“Mattia guarda che sono venuta a prenderti, sono qui davanti alla stazione”
“Oh grazie mamma”
“Dove sei?”
“Tre fermate e sono arrivato”
“Ok”
Sono le 19:35, scendo dalla metro, salgo le scale a fatica. Fortuna che è arrivata mamma, altrimenti mi sarei dovuto sorbire un’altra mezz’ora di autobus.
Salgo in macchina.
“Ciao ma”
“Com’è andata?”
“Come al solito”
“Abbiamo prenotato le pizze per le 8”
“Bravi”
“Ti ho preso la quattro stagioni”
“Brava”
Finalmente posso allungare le gambe, tiro giù lo schienale del sedile, potrei addormentarmi ancora. Chiudo gli occhi e cerco di tornare a sognare.
“Dove vai stasera?”
“Da nessuna parte”
“Come da nessuna parte? Non esci?”
“No”
“Ma dai Mattia è venerdì sera, hai vent’anni, esci a divertirti”
“Mamma stai zitta”
“Mattia ma ti sembra il modo di parlare a tua madre?”
“Sono stanco mamma, sono stanco”.

Gezim Qadraku.

God Save Leicester City

Ho guardato una sola partita del Leicester quest’anno, la gara di ritorno contro il Manchester United.
Mi sono accorto dell’esistenza di questa squadra quando ho sentito che il Napoli aveva venduto Inler ai foxes, non sapevo neanche che Ranieri fosse l’allenatore.
Poi però dopo le prime giornate di Premier quel nome ho iniziato a sentirlo sempre più spesso, inizialmente era sempre affibbiato al suo attaccante, Jamie Vardy.
Sembrava il classico inizio inaspettato della cenerentola del campionato, ai tempi si faceva il tifo per il numero nove e per il record di reti che cercava di battere.
Il girone di andata è finito, è arrivato l’anno nuovo e i ragazzi di Ranieri erano ancora davanti a tutti, allora in quel momento mi sono promesso di non guardarli, avevo una paura fottuta di portare sfiga.
Ogni sabato o domenica seguivo la partita su Livescore, per poi andare a riguardarmi subito gli highlights. Era un continuo volerci credere, ma dover fare i conti con la realtà.
Perché siamo cresciuti vedendo vincere solo le grandi squadre,  quelle con i campioni in rosa, quelle con tanti soldi.
Ad ogni weekend la tensione saliva sempre di più, poi le big della premier hanno iniziato a perdere il passo ed è rimasto solo il Tottenham, da quel momento la speranza si è trasformata in vera e propria ansia. Mi sono auto imposto di non guardare assolutamente le ultime partite, ho resistito fino alla gara contro il Sunderland.
Ho acceso la TV a pochi secondi dalla fine, giusto in tempo per godermi il gol del 2 a 0 di Vardy. La settimana successiva televisore ancora spento, fino a quando sul sito non ho letto che il West Ham stava vincendo per 2 a 1 e mancavano praticamente pochi minuti.
Poi un urlo “RIGORE”, corro da mio fratello e insieme esultiamo come due pazzi per il pareggio di Ulloa.
Contro lo Swansea mi sono messo comodo per godermi tutti i 90 minuti, ma dopo il 2 a 0 facile del primo tempo, mi sono concesso il lusso di tornare a studiare.
Contro il Manchester me la sono goduta tutta ed è andata bene, un punto, poi il Tottenham ha fatto quello che doveva fare, non vincere.
E’ e sarà per sempre la nostra favola, anche se nessuno di noi conosceva questi ragazzi fino a pochi mesi fa, ma è impossibile non tifare per loro.
E’ la nostra favola perché noi siamo quelli che non ce l’hanno fatta, noi siamo quelli che lavorano in fabbrica e quando alle 18 il lavoro è finito non torniamo a casa a riposare, ma andiamo ad allenarci in un campo di periferia dove l’erba si vede solo a Luglio.
Noi siamo quelli in cui nessuno ha mai creduto, quelli a cui non è stata data nessuna possibilità.
Noi siamo quelli che ogni domenica calcano i campi delle categorie più basse e non riescono mai a smettere di sognare di arrivare a giocare sotto i riflettori.
Noi siamo quelli che se va bene ricevono il rimborso spese minimo per pagarsi la benzina.
Noi siamo quelli che vivono di calcio, dal lunedì alla domenica, ventiquattro ore al giorno.
Noi siamo quelli che non si riconoscono in Cristiano Ronaldo o Messi, perché sono troppo lontani da noi. Troppo forti, troppi ricchi, troppo inarrivabili.
Noi ci riconosciamo in quelli come noi, quelli dati per sconfitti,  quelli con poca qualità, ma con un cuore infinito. Quelli che giocano con l’anima, quelli che sfidano i grandi poteri ogni giorno, sperando di poterli battere prima o poi.
In quelli che sognano  ad occhi aperti.
Siamo cresciuti sentendoci dire sempre la solita frase:
“credici sempre e non mollare mai, che i risultati arrivano“, ma noi quei risultati non li abbiamo mai visti. Abbiamo sempre dato il massimo, ma non è bastato.
Impossible is nothing” recitava un po’ di tempo fa un famoso spot televisivo, ma sembrava la solita campagna pubblicitaria, così lontana da noi. Sembrava.
Ora possiamo dirlo forte anche noi che niente è impossibile.
Ce la terremo stretta per tutta la vita questa meravigliosa favola.
Perché arriverà il giorno in cui su quei campi ci torneremo, ma a giocare sarà nostro figlio e quando sbaglierà una partita, o verrà scartato ad un provino o qualcuno si permetterà di dirgli che non è adatto per questo sport, noi sapremo come tirargli su il morale.
Potremo raccontargli una storia vera.
La storia della squadra inglese con la maglia blu che vinse il campionato facendo innamorare tutto il mondo,
la storia dell’allenatore che veniva preso in giro da tutti,
la storia di un gruppo di ragazzi sui quali nessuno aveva mai creduto.
Gli racconteremo la favola del Leicester, quella che sarà per sempre la nostra favola preferita.

Gezim Qadraku.

Abbiamo tutti paura

Abbiamo tutti paura, da sempre, da quando abbiamo incominciato ad instaurare un rapporto con il mondo esterno. Dalle scuole elementari, le nostre prime valutazioni, i primi di indizi di ciò che saremmo diventati.
Poi lo sport, calcio, basket, nuoto o qualsiasi altro, la competizione, il bisogno di vincere per essere il migliore. La televisione e il continuo bombardamento delle immagini dei nostri idoli. Le pubblicità, quei maledetti secondi che ti ricordano che ciò che sei non va bene, che per essere apprezzato dal mondo che ti circonda devi diventare come il protagonista dello spot di turno. E allora via, da quei momenti inizia la recita che ci accompagnerà per tutta la vita. Una continua lotta per essere qualcosa che non siamo, qualcosa che realmente non vogliamo essere, qualcosa che non potremo mai essere, solo per poter essere apprezzati da chi ci circonda.
Alle medie si trascorre quel periodo in cui si pensa di essere diventati magicamente adulti, chi non si è sentito grande in quegli anni. Quando sei l’idolo della folla sei hai una ragazza oppure sei la più invidiata se i ragazzi ti guardano. Mentre se non sei al centro dell’attenzione impegni tutto il tuo tempo per cercare di entrare a farne parte. Perché l’importante è ricoprire un ruolo apprezzato dalla collettività. Siamo cresciuti così e non abbiamo fatto altro che spendere tutto il nostro tempo per essere ammirati.
Cercare di far colpo sulla ragazza più bella della classe, avere il motorino più veloce, seguire la moda dell’anno per non essere isolato dalla folla.
Conseguire il diploma con un voto alto per potersene vantare per il resto della vita, avere la macchina più bella da distruggere subito dopo aver preso la patente, andare a ballare nella discoteca rinomata, bere quanti più alcolici possibili, perché si, sarà proprio bere un drink in più del tuo amico che ti fa fare la figura dell’uomo vissuto.
Poi è arrivata la scelta dell’università, privata è meglio, così non hai bisogno di dire altro per dimostrare che tu i soldi ce li hai e quindi non ti distingui dal branco.
Ora siamo nel periodo delle foto, le istantanee, ultimo fottuto bisogno per dimostrare la nostra appartenenza al mondo che conta. La foto con il cane, la foto della cena, la foto con il neonato di turno per far vedere a tutti che hai un cuore (che spero vi denuncerà quando crescerà e vedrà che ci sono centinaia di sue foto sui social network, ma sicuramente avrà preso da voi e quindi sarà così stupido da esserne felice) la foto dei fiori a primavera, come se non crescessero se tu non li fotografassi, la foto con il/la  tuo/a ragazzo/a per dimostrare che nella vita non ti manca proprio niente.
Tutto questo lo facciamo perché abbiamo una fottuta paura di mostrare ciò che realmente siamo, perché se il mondo non ci accettasse la nostra vita smetterebbe di avere senso. Allora guardiamo bene quali sono le figure che la collettività approva e ci impegniamo per avvicinarci il più possibile.
Al mondo non interessa chi sei, quali sono i tuoi sogni, i tuoi gusti, cosa ti piacerebbe fare della tua vita, a tutti interessa sapere cosa hai fatto fino ad oggi.
Ad un colloquio di lavoro tu sei soltanto i tuoi voti scolastici e le tue esperienze lavorative, nient’altro. Per i social network sei le foto che pubblichi e il numero di persone che ti seguono. Per i parenti i risultati che hai raggiunto, o meglio, quelli che secondo loro avresti dovuto raggiungere. Per chi non ti conosce sei l’abito con il quale esci di casa, giacca e cravatta è meglio naturalmente.
Arrivi ad un certo punto della tua esistenza che non hai la più pallida idea di chi tu sia, e lo scopri quanto incontri qualcuno che nota qualcosa di te che hai sempre avuto paura di mostrare, in quell’istante tutto quello che è stato il tuo rifugio per anni va in corto circuito. Inizi a domandarti chi sei realmente, ti chiedi se ne vale la pena continuare a recitare, ma ponendo fine al ruolo che ti sei creato potresti non far più parte del branco e questo ti porterebbe a non essere più accettato dal mondo.
Abbiamo paura, abbiamo paura di essere noi stessi, abbiamo paura di mostrarci per ciò che siamo. Eppure dovrebbe essere la cosa più facile del mondo, vivere la propria vita interpretando la propria parte, ma non siamo abituati, perché quello che siamo ci viene descritto come sbagliato sin dai primi momenti di lucidità mentale.
Ci hanno mostrato una strada da seguire e non abbiamo fatto altro che abbassare la testa e accettare.
Siamo stati creati per sbagliare, siamo umani non siamo perfetti, è nostro dovere imparare dagli errori per non commetterli di nuovo. Però nel gioco al quale abbiamo deciso di partecipare gli errori non sono previsti, nonostante da essi siano nati i più grandi successi della storia, ma questo non ci viene detto. Ci viene mostrato solo il risultato finale, un bel sorriso, il numero di zeri sul conto corrente e il trofeo in mano al vincitore.
Siamo esseri umani, dobbiamo sbagliare strada per trovare quella giusta.
La nostra vita è diventata un  continuo bisogno di essere come chi ce l’ha fatta, un continuo inseguimento della vetta del successo. Un continuo confrontarsi con amici, parenti e conoscenti a chi ce l’ha più lungo, a chi ha il portafoglio più corposo, a chi è riuscito meglio in qualcosa.
Una continua corsa che ci impedisce di goderci la vita, di spendere il nostro tempo per ciò che ci interessa realmente, di provare a realizzare i nostri sogni.
Eppure vivere è così facile, bisogna semplicemente essere se stessi.
In quanti possono permettersi un lusso del genere?

Gezim Qadraku.