Buongiorno amore

Ci siamo addormentati mano nella mano, promettendoci che durante il sonno ci saremmo impegnati affinché le mani non si dividessero.
Che stupidi, siamo proprio innamorati. Sembriamo due ragazzini che hanno appena scoperto quanto è bello amare un’altra persona. Mi sono svegliato e non ho sentito le sue dita tra le mie, uno dei due durante la notte non si è impegnato abbastanza.
Sta ancora dormendo, mi dà le spalle, ha scacciato via il lenzuolo e ha la schiena completamente scoperta. Inizio ad accarezzarla, partendo dal collo, per poi scendere piano piano. Tra una carezza e l’altra ci aggiungo un bacio, leggero, soffice, tale da non svegliarla. Sento che muove le gambe, non ce l’ho fatta, si sta svegliando.
Mi appoggio a lei, il mio petto copre la sua schiena, riprendo la sua mano e la stringo.
Voglio che si risvegli esattamente come ci eravamo promessi. Mano nella mano.
Ha aperto gli occhi, gira la testa e mi guarda. E’ bella da far schifo anche appena sveglia, nonostante le occhiaie, i capelli spettinati e senza un briciolo di trucco.
Mi guarda, sorride e sussurra: “voglio svegliarmi così per tutta la vita”.

Gezim Qadraku.

Un insegnante di vita e di calcio

Giugno 2010, sono fuori dallo stadio del Corbetta che aspetto di parlare con il nuovo allenatore della Juniores. Esce quello che probabilmente sarà un mio compagno nella prossima stagione, dietro di lui c’è il nuovo mister. Si salutano.
Mi rivolge la parola,
“Jimmy?”
“Salve mister, sì sono io”.
Ci stringiamo la mano. Andiamo in una sottospecie di ufficio stretto, c’è un tavolino che ci separa, le mura sono piene di foto di squadre del passato, sopra di lui ci sono un sacco di coppe. Ho paura che tutti questi dettagli possano distrarmi durante la conversazione. Ci sediamo entrambi. Parte subito forte e schietto.
“Io non ti conosco, sei l’unico della squadra che non ho mai visto giocare. Sei qui perché tutti mi hanno parlato bene di te. So del tuo infortunio, so tutto di te. ”
Rimango spiazzato, nessuno mi aveva mai parlato in maniera così diretta. È vero, potevo essere preso solo se qualcuno gli avesse parlato bene di me. Non gioco da più di un anno, per quel maledetto ginocchio. La conversazione va avanti, dopo un mio inizio insicuro mi lascio andare, perché vedo che dall’altra parte c’è un uomo col quale si può parlare tranquillamente.
Dopo quasi una mezz’oretta, stiamo già parlando del campo, della sua idea di gioco e di tante altre cose. Il primo impatto è stato deciso, ma buono. Avremo parlato più di mezz’ora, non sono mai riuscito a staccargli gli occhi di dosso. Tutte quelle foto e quelle coppe non sono riuscite a distrarmi neanche per un secondo.

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L’inizio del rapporto fu più che buono, ma l’inizio della stagione fu pessimo.
Volevo spaccare il mondo, non giocavo da diciotto mesi e non vedevo l’ora di dimostrargli che avevano fatto bene a spendere parole buone sul mio conto. Lui però non la pensava così. Passai tutto il girone d’andata in panchina. Giocavo dall’inizio solo quando uno dei titolari stava male. Passai un periodo pessimo da settembre a dicembre. Nessuno si era mai permesso di tenermi in panchina per tutto quel tempo. Ogni volta che mi metteva dentro mi ripeteva le solite odiose parole:
“Non giochi da tanto, mentalmente sei pronto, ma non ancora fisicamente. Devi ritrovare fiducia in te, devi ritrovare le tue giocate. Piano piano. Questi minuti sono importantissimi per te. Dai tutto.”
Ovvio che davo tutto. Nonostante questo, il sabato mi ritrovavo ancora in panchina. Per la prima volta nella mia vita, mio padre mi disse che avrebbe iniziato a vedere se potevo cambiare squadra a dicembre. Cambiai idea con l’avvicinarsi del mercato invernale. Mi piaceva come ci allenava, capiva di calcio ed era riuscito a creare un gruppo unito che lo seguiva. Si stava bene nei suoi allenamenti, si sudava, si imparava, ci si divertiva. Si tornava a casa non vedendo l’ora di ritornare in campo. Decisi che l’avrei convinto, che l’avrei obbligato a mettermi titolare. L’ispirazione arrivò da lui naturalmente. In un allenamento come altri, mi prese da parte durante il riscaldamento e mi disse che gli era venuta un’idea.
“Voglio provarti davanti alla difesa. Vedo che in partitella vai sempre a prendere la palla e ti piace impostare. Tecnicamente puoi farlo e hai una buona visione di gioco. Lavoreremo tanto sulla posizione e poi vedremo se ripeti in campo quello che fai in allenamento. Cosa te ne pare?”
Si era accorto di me. E non solo, ma voleva darmi una responsabilità enorme. Il regista, in una squadra che gioca con il rombo è fondamentale. Era l’allenamento prima della partita, giocavamo l’infrasettimanale il giorno successivo, di sera. Facemmo molta tattica senza palla, mi mise a fare i movimenti con il mio compagno che aveva occupato quella posizione fino a quel giorno. Iniziai a sentire le frasi che mi avrebbe ripetuto per molto tempo.
“E’ importantissima la tua posizione, devi dare equilibrio, non azzardarti a salire. Non devi superare la mezzaluna del centrocampo avversario. Devi raddoppiare sull’attaccante insieme al centrale di difesa sul rilancio lungo del portiere. Quando abbiamo la palla noi, devi cambiare gioco il più velocemente possibile. Da destra a sinistra, da sinistra a destra. Non dobbiamo iniziare e concludere l’azione dalla stessa parte”.
Tutta l’euforia della nuova notizia andò a farsi fottere. Non sarei mai stato in grado di fare quello che voleva, come se non bastasse, verso la fine dell’allenamento sentii una contrattura al flessore. Glielo dissi e non la prese bene. Ero sicuro che comunque non mi avrebbe rischiato l’indomani. Magari mi avrebbe messo nel secondo tempo, a risultato deciso, giusto per farmi ambientare con la nuova posizione. Invece no, l’indomani tornato a casa da scuola, mi scrisse chiedendomi come stavo. Non me l’avrebbe mai chiesto se mi avesse lasciato in panchina.
Gli dissi che stavo bene, che non sentivo nulla. Mentii, non potevo fare altrimenti, era la mia occasione, sentivo che si fidava di me.
Dovevo dimostrargli che ero in grado di fare quello che mi aveva chiesto. Mi disse di presentarmi al campo prima, per provare la gamba. Eh sì, sarei partito titolare.
Feci qualche corsa su e giù, la gamba mi dava fastidio. Pensai di dirglielo, mi avrebbe ucciso se fossi uscito dopo qualche minuto, ma non potevo. Sapevo che avrei giocato poco, ma in quei minuti avrei dato il massimo. Gli dissi che stavo bene. Mi credette. I miei compagni erano arrivati, rientrai nello spogliatoio. Ci sedemmo e lui iniziò a parlare.
Disse subito che io avrei giocato davanti alla difesa, che si fidava di me, che aveva preso quella decisione perché secondo lui ero in grado di giocare lì. Tutta la mia preoccupazione svanì dopo quel discorso. Aveva tanta fiducia in me. Mi diede il numero cinque. Centrocampista centrale, davanti alla difesa, indossammo la maglietta rossa con le maniche lunghe.
Già dall’entrata in campo, la gamba iniziò a darmi fastidio. Dovevo resistere il più a lungo possibile. Continuavo a ripetermi le sue frasi.
“La posizione. L’equilibrio. Giocate semplici. Cambia gioco. Quando c’è la possibilità, verticalizza.”
Il primo pallone fu proprio una verticalizzazione, di prima, un passaggio deciso per il mio compagno. Iniziai a prendere fiducia. Feci due buone chiusure a centrocampo. Ancora più fiducia. Poi arrivò l’occasione per cambiare gioco, andai in contro al terzino sinistro, mi passò la palla, mi girai, l’altro terzino era pronto, lo servii con un buon lancio. Bene così. Non mi aveva ancora detto niente dalla panchina. Forse stavo facendo bene. Riuscimmo anche a segnare. Uno a zero per noi.
Stava andando tutto bene, quando tac. Il loro attaccante mi puntò, mi allungai per fermarlo e la contrattura mi bloccò il flessore. Caddi a terra, chiesi il cambio immediatamente.
Dovevo passare davanti a lui per tornare negli spogliatoi. Avevo timore di guardarlo negli occhi. L’avevo preso in giro. Mi aveva dato una possibilità e io gli avevo mentito sulle mie condizioni fisiche. Andai verso la panchina zoppicando. Mi guardò e sorridendo mi disse:
“non crederò più a quello che mi dirai.”
Stava ridendo, era soddisfatto di quello che avevo fatto. Vincemmo due a zero. Finita la partita venne da me e mi disse, “sei durato ventisette minuti. Sono stati ventisette minuti giocati alla grande. Ora vedi di guarire pirla!”
Non mi allenai nella settimana successiva, rimasi a casa. Ogni giorno mi scrisse per chiedermi come stavo, se miglioravo, se me la sentivo di provare ad allenarmi. Dissi alla mia ragazza che stavo sentendo più lui che lei in quel periodo. Quel suo lampo di genio, mi avrebbe permesso di debuttare l’anno successivo in prima squadra. Debuttare in eccellenza, un anno dopo il ritorno in campo, in un ruolo completamente nuovo. Parte del merito fu senza dubbio anche sua.

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Tante le qualità del Mister Robecchi. Si preoccupa di tutti i suoi giocatori, nessuno escluso. Ti chiama a casa, ti scrive, in allenamento ti prende da parte e ti parla. Sia che le cose stiano andando bene sia che stiano andando male. Si mette al tuo stesso livello.
Lui è l’allenatore, ma quando stai con lui, sei convinto che sia uno dei tuoi compagni. Si stava bene nei suoi allenamenti. Era il primo a farti ridere, il primo a proporre una cena, alla quale tutti dovevano partecipare. Altrimenti non aveva senso. Mattia è una persona che da tanto, ma che si aspetta altrettanto dai suoi ragazzi. Si aspettava sempre il rispetto e la serietà. Ci si poteva sempre divertire con lui, ma bisognava allenarsi dando tutto. Non si faceva problemi ad alzare la voce, per farsi rispettare.
Un’altra qualità, è la completa dedizione per il suo lavoro. Come dice sempre lui.
“Ho due lavori. Uno che mi permette di dare da mangiare alla mia famiglia e poi l’altro, il lavoro vero. ”
Il Cristiano Ronaldo degli allenatori. Il primo ad arrivare, l’ultimo a lasciare il campo.
Era impossibile arrivare prima di lui. Ti veniva naturale chiederti, cosa potesse fare un allenatore al campo un’ora prima dell’inizio degli allenamenti. Preparava tutto quello che gli occorreva. Cinesini, scalette, ostacoli, campi ristretti per le mini partite. Avrebbe riempito tre campi a undici, se li avesse avuti. Ci allenavamo tre volte a settimana. Non esisteva l’idea che venisse al campo, senza sapere cosa fare. Neanche per scherzo.
Il programma degli allenamenti lo preparava in base alle nostre condizioni, all’avversario che avremmo incontrato, non lasciava niente al caso. Neanche il colore dei cinesini e delle pettorine. Abbiamo odiato le sue partitelle a tema. Quelle con la sponda o la sovrapposizione obbligatoria, quelle a due o tre tocchi. Poi però in partita quando vedevi che il tuo compagno ti faceva una bella sponda o il terzino si era sovrapposto come in allenamento, e la palla girava veloce, ti fermavi e dicevi :”mi sa che ha ragione lui”.
Insieme ai miei compagni, l’anno successivo decidemmo di fare un regalo a lui, e a suoi collaboratori per Natale. Ci recammo a casa sua, e lui decise di portarci nel suo ufficio.
Da quando aveva iniziato ad allenare, c’era un quadernone ad anelli, con dentro ogni allenamento della stagione, per tutti gli anni fino all’ultimo. Non si era perso niente. Avrebbe tranquillamente potuto non farlo, nessuno glielo avevo chiesto, a nessuno interessava sapere cosa aveva fatto il mercoledì del 2002.
Mattia è fatto così, Mattia per il calcio ha sempre dato tutto. Forse ha dato troppo.
E’ anche abbastanza scaramantico, diciamo. Il suo odio per i gatti neri e il venerdì 17 è risaputo ai quattro angoli del globo terrestre. Tanto che quell’anno, un venerdì cadde proprio di 17, io e i miei compagni pensammo bene di riempirgli la bacheca di Facebook, facendogli gli auguri.
Non la prese benissimo, ma quante risate.
I numeri dei giocatori erano sempre quelli.
Terzino destro con il 2, il 3 e il 4 per i centrali di difesa, il 6 per il terzino sinistro. Il centrocampista centrale con il 5, la mezz’ale destra con il 7, la sinistra con l’8, al trequartista naturalmente andava il 10 e le due punte indossavano il 9 e l’11.
Noi giovani ragazzi della Juniores del suo secondo anno a Corbetta, non ci facevamo sfuggire proprio niente. Neanche le sue migliori frasi.
Quando dava la formazione, sapeva tutto a memoria, anche i numeri di quelli in panchina.
Oltre all’immancabile cambio di gioco, c’era la pressione ad invito verso l’interno, in divaricata antero poteriore.
“Un giocatore senza motivazioni è un giocatore senza futuro.”
“Ogni partita ci aiuta ad essere un giocatore migliore.”
“Oggi ci sono le condizioni ideali per giocare una partita di calcio.”
“Dobbiamo mangiare la merda.”
“Un rigore, due, tre ci pensa… ”
Il suo “molto lieto”, all’arbitro durante la chiama.
Per non parlare degli insulti che io e i miei compagni ci siamo presi per le nostre scarpe. Per Mattia le scarpe da calcio devono essere nere. Le uniche scarpe che meritano rispetto, sono le sue amate Copa Mundial, ovviamente. Ad un certo punto sembrava che ci fosse in atto una gara a chi comprava le scarpe più colorate. Solo per sentire il suo commento.
A proposito di scaramanzia e di scarpe. Dopo avermi cambiato di ruolo, le cose per noi iniziarono ad andare bene e dopo qualche gara di fila senza sconfitta, mi fece notare che aveva sempre indossato le stesse scarpe al sabato. Allora gli dissi che era tutto merito delle scarpe.
Non glielo avessi mai detto. Non le tolse più. Si presentò alle ultime partite di maggio con un buco enorme su una delle due, ma guai a toglierle.

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Oltre alla dedizione umana e caratteriale che Mattia ha dato e da a questo sport, dal mio modesto punto di vista, penso che qualcosa in più degli altri ci capisca.
Un giorno mi chiese se seguivo la serie b, gli dissi di no. Lui mi disse, “segnati questo nome, Marco Verratti. Ne riparleremo tra qualche anno.”
Era l’anno del Pescara di Zeman, con Immobile, Insigne e Verratti. Tutti sappiamo com’è andata la carriera di Verratti.
Mi viene in mente la frase che disse Ibrahimovic per Mourinho, “ucciderei per lui, se me lo chiedesse”.
E’ la stessa frase che utilizzerei anche io, se qualcuno mi chiedesse come mi sono trovato con Mattia. Lui era l’allenatore, ma si è sempre messo al nostro livello. Era prima di tutto un compagno, ascoltava i nostri problemi, si scervellava pur di aiutarci a risolverli.
Era un secondo padre, potevamo andare all’allenamento e parlare con lui, di cose che non avevamo il coraggio di dire ai nostri genitori. Era un insegnante di vita prima e di calcio poi. Ti convince a combattere per quello che crede, riesce a portarsi tutta la squadra dietro di lui. In partita ti sembra di averlo di fianco a te, che corre e suda e si sacrifica. Poi ti giri, e ti ricordi che è in panchina. Menomale che non è in campo, mangeresti chiunque ti passasse vicino, con di fianco uno come lui.
Purtroppo nel calcio le cose cambiano senza una logica. Da un anno all’altro ti ritrovi a giocare con gente che non conosci e un allenatore che non ti piace, ma che sei obbligato ad ascoltare. Ci sono allenatori che non vorresti più vedere nella tua vita.
Poi c’è Mattia, che se dovesse chiamarti per chiederti di andare con lui, gli diresti di sì a prescindere. Andresti in guerra con lui, anche se foste gli unici due a combattere.
Penso che tutti quelli che l’hanno avuto come allenatore siano d’accordo sulla frase che mi ribolliva in testa, a pochi istanti dall’inizio delle partite.
“Mister dacci il segnale e noi scateniamo l’inferno.”

Gezim Qadraku.

Il Musagete

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“Rui Costa dentro, palla buona per Shevchenko, Shevchenko, SHEVCHENKOOOOOOO, rete!!!! Uno a zero per il Milan. Rui Costa ha illuminato la notte di San Siro con un apertura deliziosa e Shevchenko non ha perdonato Casillas. ”
E’ il 26 novembre 2002, allo stadio Giuseppe Meazza, i rossoneri incontrano il Real Madrid. Gara valida per il secondo turno di Champions League. Mister Ancelotti schiera Rui Costa e Rivaldo, dietro l’unica punta Shevchenko. Il Milan parte bene, i suoi fantasisti sono ispirati.
Costacurta allontana di testa un cross di Figo, Seedorf controlla e appoggia per Kaladze, il quale serve Rui Costa, posizionato dietro il cerchio di centrocampo. Il portoghese si gira e pennella un assist meraviglioso per l’Ucraino, che partito largo, si inserisce tra le maglie bianche della difesa Madridista e batte Casillas con un destro ad incrociare chirurgico.
Quella Champions League la vinceranno proprio i ragazzi di Ancelotti, nella storica finale tutta italiana contro la Juventus, terminata ai calci di rigore.
Purtroppo non c’è più, ma su Youtube tempo fa, c’era un video nel quale si potevano vedere tutte le azioni del portoghese durante la finale. Il Milan si schierava con il rombo a centrocampo, che vedeva come vertice basso Pirlo, a sinistra Seedorf, a destra Gattuso e come vertice alto Rui. In quella partita era ovunque, impostava l’azione, dettava l’ultimo passaggio,si faceva dare la palla in qualsiasi posizione, quando il Milan perdeva palla si posizionava dietro per difendere e dare una mano ai suoi compagni.
Nasce il 29 marzo del 1972. Anno in cui Bill Gates e Paul Allen fondarono quella che sarebbe diventata la Microsoft. Il regista Francis Ford Coppola, realizzò la prima pellicola della trilogia de “il Padrino”.
Nasce a Lisbona, la capitale portoghese, cresce nella Damaia, barrio umile della città.
Manuel è un bambino modello. E’ bravo a scuola, ma è bravo anche con i piedi. Obbliga i suoi amici a giocare in casa, usando i divani come porta, mentre la madre prepara la zuppa di pesce. La svolta arriva durante un provino per il Benfica.
Al primo tocco di palla, un certo Eusebio, nota subito il ragazzino. E’ gracile, è il più piccolo, ma il talento è cristallino. La pantera nera sarà prima un insegnante di vita, poi un allenatore.
Rui Costa ricorda ancora quella partita, nella quale si lasciò andare e disse una parolaccia. Eusebio lo tirò fuori dal campo immediatamente.
L’esplosione vera e propria arriva nell’estate del 1991. Si giocano i mondiali under 20, il Portogallo schiera Rui Costa, Figo, Paulo Sousa e Joao Pinto. Rui indossa la maglia numero cinque in quella competizione, segna la rete decisiva in semifinale contro l’Australia. In finale c’è il Brasile di Roberto Carlos ed Elber. La partita si decide ai rigori, quello decisivo lo realizza proprio lui. Portando il Portogallo sul tetto del mondo.

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L’Europa inizia ad accorgersi del ragazzo. Dopo tre anni nel Benfica di Eriksson, nell’estate del 1994 il giovane trequartista si trasferisce a Firenze. Cecchi Gori sborsa undici miliardi delle vecchie lire per averlo. Formerà con Batistuta un attacco pazzesco, ma tra i due nascerà anche una bellissima amicizia, nonostante avessero ben poco in comune. Con la città e i tifosi è amore vero. Il Franchi lo adora, viene paragonato a due mostri sacri come Baggio e Antognoni.
‘Rui / baila la Portuguesa / passa la pelota a Nuno / segna e poi facci cantar’ intona per lui la Fiesole.
Segnerà cinquanta gol in duecentosettantasei presenze. La favola idilliaca si conclude proprio nel settimo anno (la crisi del settimo anno). La Fiorentina sta fallendo e i pezzi pregiati vengono venduti ad uno a uno. Batistuta è andato alla Roma, Toldo all’Inter e Rui?
Il ragazzo ha l’imbarazzo della scelta, c’è il Parma che gli offre un ambiente simile a quello di Firenze. Il Real Madrid dell’amico Figo offre cinquanta miliardi, ma sono “pochi”. La Lazio di Cragnotti sembra averlo tesserato, quando arriva la chiamata di Galliani. E’ una torrida giornata di luglio dell’estate del 2001, il Milan ha appena completato un attacco che fa sognare i tifosi.
Rui costa – Inzaghi – Shevchenko.

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Ha lasciato Firenze solo perché è stato costretto, non se ne sarebbe mai andato. Considera le sue due città natali Lisbona e Firenze. Il suo primogenito lo chiama ancora “babbo”, tipica espressione toscana. I tifosi viola organizzarono una festa al Franchi per salutarlo, la sua presenza non era prevista, era già a Milano. Rui, con la sua incredibile umiltà, si presentò allo stadio. Niente foto, niente celebrazioni, non era lì da calciatore, era lì da Fiorentino.
“Ho vinto poco a Firenze, ma a livello di Champions League non so quante Champions League ho conquistato.”
A Milano, l’avventura inizia con un brutto infortunio al gomito e la sfortunata annata di Terim. Le cose migliorano con l’arrivo di Carlo Ancelotti. Nella stagione 2002/2003 alza al cielo di Manchester la Champions League, vince la coppa Italia nella doppia finale contro la Roma di Capello e la Supercoppa Europea ai danni dei rivali del Porto.
Uno a zero, gol di Sheva su un cross splendido del solito Rui.
Un anno quasi perfetto per il Milan e il portoghese.
Tra i tanti soprannomi che Pellegatti gli ha affibbiato, il mio preferito è Musagete.
“Appellativo di Apollo. Guida e capo delle muse.”
L’anno successivo è caratterizzato dall’arrivo in rossonero di Kakà. Stesso ruolo, ma più giovane, più veloce. L’ambientamento del brasiliano nel calcio italiano è qualcosa di incredibile. Non lo ferma nessuno, segna, risolve le partite quasi da solo. Ancelotti non vorrebbe rinunciare a nessuno dei due, spesso utilizza l’alberto di Natale.
Un 4-3-2-1, che prevede la coesistenza di due trequartisti. Ma qualcuno dall’alto non gradisce.
Il Milan si laurea campione d’Italia. E’ il Milan di Kakà. Rui partecipa poco, è spesso relegato in panchina. Dopo un anno ad osservare l’esplosione del numero ventidue, Rui gioca l’europeo a casa sua. Delusione cocente per lui e per tutto il Portogallo. I Lusitani vedono svanire il loro sogno in finale contro la Grecia. Anche in nazionale fu costretto a convivere con un altro concorrente. Deco. Nonostante le panchine e i pochi minuti giocati, mai una parola di troppo, mai una polemica. Umiltà ed educazione lo hanno sempre contraddistinto. Dentro e fuori dal campo.
L’anno successivo sarà quello tragedia calcistica di Istanbul. Il Milan perde una finale assurda contro il Liverpool. L’avventura rossonera dura ancora una stagione.
Verrà ricordato per gli assist, quasi settanta. Uno più bello dell’altro. Dai più maligni verrà ricordato anche perché non segnava mai. Già, solo undici le reti del portoghese con la casacca rossonera. Segnerà lo stesso numero di gol, nei suoi ultimi due anni al Benfica.

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Torna a San Siro, in una notte di Champions League con il suo Benfica. Per l’ultimo saluto, viene onorato da eroe. La curva Sud lo ringrazia e lui risponde inchinandosi. Come fa il suo amico e compagno Seedorf dietro di lui.
“Il Milan ti entra nelle vene e non ti esce più.”

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Numero dieci sulle spalle, maglietta fuori dai calzoncini, calzettoni bassi, parastinchi in vista, nastri ai polsi e sopra il ginocchio, per tenere caldo il prezioso rotuleo. Ecco a cosa penso quando sento pronunciare la parola “trequartista”. Il mio pensiero va subito a quel portoghese, che recitò quel ruolo nella miglior maniera possibile.
Oltre ad una tecnica sublime, Rui era dotato di una visione di gioco mostruosa. Lo spazio per il passaggio non c’era? Beh lui in qualche modo lo trovava. Non si limitava a passare la palla. Prima sistemava un tappeto rosso che partiva dai suoi piedi e finiva ai piedi del compagno, solo dopo ci faceva scivolare sopra il pallone. In modo tale che questo arrivasse sui piedi del compagno nella miglior maniera possibile. Non erano assist quelli, erano pepite d’oro.
Se Sheva e Pippo sono stati fortunati ad avere dietro di loro uno come lui. Anche il numero dieci rossonero ha avuto la fortuna di avere come finalizzatori due che, quelle pepite le depositavano in banca come Dio comanda.
Giocava a testa alta Rui, guardava le stelle mentre danzava in mezzo al campo, con la palla incollata al piede, in attesa del movimento giusto del compagno.
Ha diretto l’orchestra rossonera, nella Scala del calcio mondiale. Non è una cosa che ti puoi permettere di fare se non hai la sua testa, la sua corsa e i suoi piedi.
Lui poteva, perché per lui dirigere era un istinto naturale.
Decideva lui a che velocità andare, quando bisognava accelerare e quando bisognava rallentare.
Obrigado Maestro.

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“E’ un fuoriclasse puro, quindi giocatore di statura straordinaria, mondiale. E’ l’unico, assieme a Zidane, in grado di cambiare volto a una squadra. Anzi più di Zidane. Rui è giocatore universale, completo. ”
Zvonimir Boban.

Gezim Qadraku.

Un amore mancato

Si conoscevano dalle scuole medie, da quel giorno in cui lei entrò in classe spaesata ed impaurita. Non è mai bello cambiare scuola e doversi ambientare con i nuovi compagni.
Da quel preciso istante, per lui iniziò una nuova vita. Una vita caratterizzata da una sola costante. Lei.
Lei era il motivo che lo spingeva ad alzarsi la mattina, per andare a scuola.
Lei lo faceva sorridere, anche nei momenti più difficili per un adolescente.
Lei era la protagonista dei suoi sogni. Che restavano tali una volta suonata la sveglia.
Lei che era diventata la sua migliore amica. O meglio, lui era diventato il suo migliore amico. Perché lei poteva essere tutto, tranne che un’amica. La sua timidezza vinceva ogni giorno su tutto. Sui desideri di ogni notte, sulle idee che escogitava per dichiararsi una volta per tutte. Sulla voglia di prendere le sue mani e stringerle forte. Sulla voglia di baciarla ogni volta, prima di tornare a casa. Alla fine la timidezza aveva la meglio e ogni piano slittava al giorno dopo. Finirono le scuole medie, ma la costante della sua vita non cambiò. La scelta della scuola superiore li aveva separati, ma il rapporto era rimasto.
Amico. La cosa peggiore che può capitare ad un ragazzo innamorato. Amico, sintomo di un uomo poco coraggioso. Quanti amori mancati, per assenza di coraggio.
Un incidente mortale se la portò via. Per sempre.
Gli era rimasto l’ultimo messaggio sul cellulare: “Sto andando dal dentista con mia madre. Se non faccio tardi andiamo a prenderci un gelato.”
Ecco cosa gli restava della ragazza che gli aveva cambiato la vita. Un messaggio. E tanti, troppi rimorsi.
La perse così, all’improvviso, senza preavviso, contro la sua volontà.
La aveva amata così tanto, aveva provato un sentimento così forte, da rendere la dichiarazione del suo amore qualcosa di impossibile. Lo aspettava un’esistenza difficile.
Non tanto per la scomparsa della ragazza che tanto aveva amato. Sembra impossibile, ma ci si abitua a tutto nella vita, anche alla scomparsa della persona amata.
Ma come si può vivere aspettando una risposta che non si riceverà mai?

Gezim Qadraku.

Immigrato: essere umano in fuga da morte certa.

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Il piccolo Aylan ha perso la vita.
La sua famiglia ha perso la forza di andare avanti.
I Siriani hanno perso l’ennesimo loro connazionale.
L’Europa ha perso l’opportunità di migliorare la vita di una famiglia, incolpevole di quello che sta accadendo nel loro paese.
Il mondo ha perso la dignità.
Abbiamo perso tutti.
Aylan non è più importante degli altri, non è più importante di tutti quegli esseri umani che sono morti per cercare una vita migliore, in un paese diverso dal loro.
Ma solo la foto cruda della morte di un bambino, è riuscita a farci rendere conto di cosa sta succedendo e di quanto stiamo sbagliando. E’ riuscita a farci capire, che anche tutti quelli che sono morti in mezzo al mare, senza che nessuno potesse fotografarli, erano persone.
Abbiamo trovato qualsiasi aggettivo per definirli.
Immigrati, rifugiati, extracomunitari, clandestini, richiedenti asilo. Dimenticandoci che sono esseri umani, proprio come noi. Ogni giorno salta fuori una nuova etichetta, un nuovo aggettivo per definire una persona e noi tutti non facciamo altro che accettare questa situazione.
Un uomo viene considerato per il colore della pelle, per il paese dove è nato, per i suoi gusti sessuali, per la sua religione, per la sua ricchezza. Un fanatico cattolico negli Stati Uniti viene visto come una persona per bene, dalla quale prendere esempio.
Un fanatico mussulmano in Africa o in medio Oriente viene visto come un terrorista.
Perché? Perché non ragioniamo più con la nostra testa, ma con quello che ci viene sputato addosso da telegiornali e giornali.
Bisogna fare i complimenti al capolavoro fatto dalla politica e dai media. Riuscire a convincere uno stato intero, che se le cose vanno male è per colpa di chi sta peggio di loro. Bisogna essere veramente ignoranti per credere che il problema di questo paese siano delle persone che come patrimonio personale, hanno quei due stracci che si portano addosso.
Nessuno lascia casa, figli, famiglia, amici per piacere. Se queste persone continuano a farlo, magari, è perché non vedono altra possibilità. Non penso che qualcuno di loro, come sogno da bambino abbia avuto quello di venire in Italia a raccogliere i pomodori o a pulire i cessi.
Facile dire, “stai a casa tua”, quando una casa ce l’hai.
Nel film “Inception”, Dom Cobb (Leonardo di Caprio) si rivolge a Mr Saito chiedendogli,
“Qual’è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale?”
Mr Saito non risponde e Dom Cobb replica:
“Un’idea. Resistente, altamente contagiosa. Una volta che un’idea si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. Un’idea pienamente formata, pienamente compresa si avvinghia, qui da qualche parte. ”
L’idea che gli stranieri siano un problema, si è impossessata del cervello di moltissime persone.
Purtroppo ci sono determinati paesi che si possono permettere il lusso di far scoppiare guerre a destra e a sinistra, senza porsi il problema delle conseguenze.
Mi sono imbattuto in un video che mostra un bambino Siriano mentre dice:“Fermate la guerra e noi staremo qui”. Lui non lo sa che la guerra fa comodo a molti.
Siamo nel 2015, abbiamo superato un limite che non doveva essere valicato. Abbiamo toccato il fondo. Ci è stato donato un pianeta meraviglioso sul quale vivere. Abbiamo la possibilità di poter condividere questa fortuna con i nostri simili.
Invece noi, che per pura casualità siamo nati nella parte migliore del mondo, non siamo riusciti a migliorare niente. Non abbiamo fatto altro che distruggere il pianeta e distruggere i nostri simili. Vorrei che ci fosse qualcuno, da qualche parte, con un potere disumano in grado di potere resettare tutto. Far ripartire tutto da zero. Perché abbiamo fallito.
Abbiamo perso tutti.

Gezim Qadraku.