Giugno 2010, sono fuori dallo stadio del Corbetta che aspetto di parlare con il nuovo allenatore della Juniores. Esce quello che probabilmente sarà un mio compagno nella prossima stagione, dietro di lui c’è il nuovo mister. Si salutano.
Mi rivolge la parola,
“Jimmy?”
“Salve mister, sì sono io”.
Ci stringiamo la mano. Andiamo in una sottospecie di ufficio stretto, c’è un tavolino che ci separa, le mura sono piene di foto di squadre del passato, sopra di lui ci sono un sacco di coppe. Ho paura che tutti questi dettagli possano distrarmi durante la conversazione. Ci sediamo entrambi. Parte subito forte e schietto.
“Io non ti conosco, sei l’unico della squadra che non ho mai visto giocare. Sei qui perché tutti mi hanno parlato bene di te. So del tuo infortunio, so tutto di te. ”
Rimango spiazzato, nessuno mi aveva mai parlato in maniera così diretta. È vero, potevo essere preso solo se qualcuno gli avesse parlato bene di me. Non gioco da più di un anno, per quel maledetto ginocchio. La conversazione va avanti, dopo un mio inizio insicuro mi lascio andare, perché vedo che dall’altra parte c’è un uomo col quale si può parlare tranquillamente.
Dopo quasi una mezz’oretta, stiamo già parlando del campo, della sua idea di gioco e di tante altre cose. Il primo impatto è stato deciso, ma buono. Avremo parlato più di mezz’ora, non sono mai riuscito a staccargli gli occhi di dosso. Tutte quelle foto e quelle coppe non sono riuscite a distrarmi neanche per un secondo.

L’inizio del rapporto fu più che buono, ma l’inizio della stagione fu pessimo.
Volevo spaccare il mondo, non giocavo da diciotto mesi e non vedevo l’ora di dimostrargli che avevano fatto bene a spendere parole buone sul mio conto. Lui però non la pensava così. Passai tutto il girone d’andata in panchina. Giocavo dall’inizio solo quando uno dei titolari stava male. Passai un periodo pessimo da settembre a dicembre. Nessuno si era mai permesso di tenermi in panchina per tutto quel tempo. Ogni volta che mi metteva dentro mi ripeteva le solite odiose parole:
“Non giochi da tanto, mentalmente sei pronto, ma non ancora fisicamente. Devi ritrovare fiducia in te, devi ritrovare le tue giocate. Piano piano. Questi minuti sono importantissimi per te. Dai tutto.”
Ovvio che davo tutto. Nonostante questo, il sabato mi ritrovavo ancora in panchina. Per la prima volta nella mia vita, mio padre mi disse che avrebbe iniziato a vedere se potevo cambiare squadra a dicembre. Cambiai idea con l’avvicinarsi del mercato invernale. Mi piaceva come ci allenava, capiva di calcio ed era riuscito a creare un gruppo unito che lo seguiva. Si stava bene nei suoi allenamenti, si sudava, si imparava, ci si divertiva. Si tornava a casa non vedendo l’ora di ritornare in campo. Decisi che l’avrei convinto, che l’avrei obbligato a mettermi titolare. L’ispirazione arrivò da lui naturalmente. In un allenamento come altri, mi prese da parte durante il riscaldamento e mi disse che gli era venuta un’idea.
“Voglio provarti davanti alla difesa. Vedo che in partitella vai sempre a prendere la palla e ti piace impostare. Tecnicamente puoi farlo e hai una buona visione di gioco. Lavoreremo tanto sulla posizione e poi vedremo se ripeti in campo quello che fai in allenamento. Cosa te ne pare?”
Si era accorto di me. E non solo, ma voleva darmi una responsabilità enorme. Il regista, in una squadra che gioca con il rombo è fondamentale. Era l’allenamento prima della partita, giocavamo l’infrasettimanale il giorno successivo, di sera. Facemmo molta tattica senza palla, mi mise a fare i movimenti con il mio compagno che aveva occupato quella posizione fino a quel giorno. Iniziai a sentire le frasi che mi avrebbe ripetuto per molto tempo.
“E’ importantissima la tua posizione, devi dare equilibrio, non azzardarti a salire. Non devi superare la mezzaluna del centrocampo avversario. Devi raddoppiare sull’attaccante insieme al centrale di difesa sul rilancio lungo del portiere. Quando abbiamo la palla noi, devi cambiare gioco il più velocemente possibile. Da destra a sinistra, da sinistra a destra. Non dobbiamo iniziare e concludere l’azione dalla stessa parte”.
Tutta l’euforia della nuova notizia andò a farsi fottere. Non sarei mai stato in grado di fare quello che voleva, come se non bastasse, verso la fine dell’allenamento sentii una contrattura al flessore. Glielo dissi e non la prese bene. Ero sicuro che comunque non mi avrebbe rischiato l’indomani. Magari mi avrebbe messo nel secondo tempo, a risultato deciso, giusto per farmi ambientare con la nuova posizione. Invece no, l’indomani tornato a casa da scuola, mi scrisse chiedendomi come stavo. Non me l’avrebbe mai chiesto se mi avesse lasciato in panchina.
Gli dissi che stavo bene, che non sentivo nulla. Mentii, non potevo fare altrimenti, era la mia occasione, sentivo che si fidava di me.
Dovevo dimostrargli che ero in grado di fare quello che mi aveva chiesto. Mi disse di presentarmi al campo prima, per provare la gamba. Eh sì, sarei partito titolare.
Feci qualche corsa su e giù, la gamba mi dava fastidio. Pensai di dirglielo, mi avrebbe ucciso se fossi uscito dopo qualche minuto, ma non potevo. Sapevo che avrei giocato poco, ma in quei minuti avrei dato il massimo. Gli dissi che stavo bene. Mi credette. I miei compagni erano arrivati, rientrai nello spogliatoio. Ci sedemmo e lui iniziò a parlare.
Disse subito che io avrei giocato davanti alla difesa, che si fidava di me, che aveva preso quella decisione perché secondo lui ero in grado di giocare lì. Tutta la mia preoccupazione svanì dopo quel discorso. Aveva tanta fiducia in me. Mi diede il numero cinque. Centrocampista centrale, davanti alla difesa, indossammo la maglietta rossa con le maniche lunghe.
Già dall’entrata in campo, la gamba iniziò a darmi fastidio. Dovevo resistere il più a lungo possibile. Continuavo a ripetermi le sue frasi.
“La posizione. L’equilibrio. Giocate semplici. Cambia gioco. Quando c’è la possibilità, verticalizza.”
Il primo pallone fu proprio una verticalizzazione, di prima, un passaggio deciso per il mio compagno. Iniziai a prendere fiducia. Feci due buone chiusure a centrocampo. Ancora più fiducia. Poi arrivò l’occasione per cambiare gioco, andai in contro al terzino sinistro, mi passò la palla, mi girai, l’altro terzino era pronto, lo servii con un buon lancio. Bene così. Non mi aveva ancora detto niente dalla panchina. Forse stavo facendo bene. Riuscimmo anche a segnare. Uno a zero per noi.
Stava andando tutto bene, quando tac. Il loro attaccante mi puntò, mi allungai per fermarlo e la contrattura mi bloccò il flessore. Caddi a terra, chiesi il cambio immediatamente.
Dovevo passare davanti a lui per tornare negli spogliatoi. Avevo timore di guardarlo negli occhi. L’avevo preso in giro. Mi aveva dato una possibilità e io gli avevo mentito sulle mie condizioni fisiche. Andai verso la panchina zoppicando. Mi guardò e sorridendo mi disse:
“non crederò più a quello che mi dirai.”
Stava ridendo, era soddisfatto di quello che avevo fatto. Vincemmo due a zero. Finita la partita venne da me e mi disse, “sei durato ventisette minuti. Sono stati ventisette minuti giocati alla grande. Ora vedi di guarire pirla!”
Non mi allenai nella settimana successiva, rimasi a casa. Ogni giorno mi scrisse per chiedermi come stavo, se miglioravo, se me la sentivo di provare ad allenarmi. Dissi alla mia ragazza che stavo sentendo più lui che lei in quel periodo. Quel suo lampo di genio, mi avrebbe permesso di debuttare l’anno successivo in prima squadra. Debuttare in eccellenza, un anno dopo il ritorno in campo, in un ruolo completamente nuovo. Parte del merito fu senza dubbio anche sua.

Tante le qualità del Mister Robecchi. Si preoccupa di tutti i suoi giocatori, nessuno escluso. Ti chiama a casa, ti scrive, in allenamento ti prende da parte e ti parla. Sia che le cose stiano andando bene sia che stiano andando male. Si mette al tuo stesso livello.
Lui è l’allenatore, ma quando stai con lui, sei convinto che sia uno dei tuoi compagni. Si stava bene nei suoi allenamenti. Era il primo a farti ridere, il primo a proporre una cena, alla quale tutti dovevano partecipare. Altrimenti non aveva senso. Mattia è una persona che da tanto, ma che si aspetta altrettanto dai suoi ragazzi. Si aspettava sempre il rispetto e la serietà. Ci si poteva sempre divertire con lui, ma bisognava allenarsi dando tutto. Non si faceva problemi ad alzare la voce, per farsi rispettare.
Un’altra qualità, è la completa dedizione per il suo lavoro. Come dice sempre lui.
“Ho due lavori. Uno che mi permette di dare da mangiare alla mia famiglia e poi l’altro, il lavoro vero. ”
Il Cristiano Ronaldo degli allenatori. Il primo ad arrivare, l’ultimo a lasciare il campo.
Era impossibile arrivare prima di lui. Ti veniva naturale chiederti, cosa potesse fare un allenatore al campo un’ora prima dell’inizio degli allenamenti. Preparava tutto quello che gli occorreva. Cinesini, scalette, ostacoli, campi ristretti per le mini partite. Avrebbe riempito tre campi a undici, se li avesse avuti. Ci allenavamo tre volte a settimana. Non esisteva l’idea che venisse al campo, senza sapere cosa fare. Neanche per scherzo.
Il programma degli allenamenti lo preparava in base alle nostre condizioni, all’avversario che avremmo incontrato, non lasciava niente al caso. Neanche il colore dei cinesini e delle pettorine. Abbiamo odiato le sue partitelle a tema. Quelle con la sponda o la sovrapposizione obbligatoria, quelle a due o tre tocchi. Poi però in partita quando vedevi che il tuo compagno ti faceva una bella sponda o il terzino si era sovrapposto come in allenamento, e la palla girava veloce, ti fermavi e dicevi :”mi sa che ha ragione lui”.
Insieme ai miei compagni, l’anno successivo decidemmo di fare un regalo a lui, e a suoi collaboratori per Natale. Ci recammo a casa sua, e lui decise di portarci nel suo ufficio.
Da quando aveva iniziato ad allenare, c’era un quadernone ad anelli, con dentro ogni allenamento della stagione, per tutti gli anni fino all’ultimo. Non si era perso niente. Avrebbe tranquillamente potuto non farlo, nessuno glielo avevo chiesto, a nessuno interessava sapere cosa aveva fatto il mercoledì del 2002.
Mattia è fatto così, Mattia per il calcio ha sempre dato tutto. Forse ha dato troppo.
E’ anche abbastanza scaramantico, diciamo. Il suo odio per i gatti neri e il venerdì 17 è risaputo ai quattro angoli del globo terrestre. Tanto che quell’anno, un venerdì cadde proprio di 17, io e i miei compagni pensammo bene di riempirgli la bacheca di Facebook, facendogli gli auguri.
Non la prese benissimo, ma quante risate.
I numeri dei giocatori erano sempre quelli.
Terzino destro con il 2, il 3 e il 4 per i centrali di difesa, il 6 per il terzino sinistro. Il centrocampista centrale con il 5, la mezz’ale destra con il 7, la sinistra con l’8, al trequartista naturalmente andava il 10 e le due punte indossavano il 9 e l’11.
Noi giovani ragazzi della Juniores del suo secondo anno a Corbetta, non ci facevamo sfuggire proprio niente. Neanche le sue migliori frasi.
Quando dava la formazione, sapeva tutto a memoria, anche i numeri di quelli in panchina.
Oltre all’immancabile cambio di gioco, c’era la pressione ad invito verso l’interno, in divaricata antero poteriore.
“Un giocatore senza motivazioni è un giocatore senza futuro.”
“Ogni partita ci aiuta ad essere un giocatore migliore.”
“Oggi ci sono le condizioni ideali per giocare una partita di calcio.”
“Dobbiamo mangiare la merda.”
“Un rigore, due, tre ci pensa… ”
Il suo “molto lieto”, all’arbitro durante la chiama.
Per non parlare degli insulti che io e i miei compagni ci siamo presi per le nostre scarpe. Per Mattia le scarpe da calcio devono essere nere. Le uniche scarpe che meritano rispetto, sono le sue amate Copa Mundial, ovviamente. Ad un certo punto sembrava che ci fosse in atto una gara a chi comprava le scarpe più colorate. Solo per sentire il suo commento.
A proposito di scaramanzia e di scarpe. Dopo avermi cambiato di ruolo, le cose per noi iniziarono ad andare bene e dopo qualche gara di fila senza sconfitta, mi fece notare che aveva sempre indossato le stesse scarpe al sabato. Allora gli dissi che era tutto merito delle scarpe.
Non glielo avessi mai detto. Non le tolse più. Si presentò alle ultime partite di maggio con un buco enorme su una delle due, ma guai a toglierle.

Oltre alla dedizione umana e caratteriale che Mattia ha dato e da a questo sport, dal mio modesto punto di vista, penso che qualcosa in più degli altri ci capisca.
Un giorno mi chiese se seguivo la serie b, gli dissi di no. Lui mi disse, “segnati questo nome, Marco Verratti. Ne riparleremo tra qualche anno.”
Era l’anno del Pescara di Zeman, con Immobile, Insigne e Verratti. Tutti sappiamo com’è andata la carriera di Verratti.
Mi viene in mente la frase che disse Ibrahimovic per Mourinho, “ucciderei per lui, se me lo chiedesse”.
E’ la stessa frase che utilizzerei anche io, se qualcuno mi chiedesse come mi sono trovato con Mattia. Lui era l’allenatore, ma si è sempre messo al nostro livello. Era prima di tutto un compagno, ascoltava i nostri problemi, si scervellava pur di aiutarci a risolverli.
Era un secondo padre, potevamo andare all’allenamento e parlare con lui, di cose che non avevamo il coraggio di dire ai nostri genitori. Era un insegnante di vita prima e di calcio poi. Ti convince a combattere per quello che crede, riesce a portarsi tutta la squadra dietro di lui. In partita ti sembra di averlo di fianco a te, che corre e suda e si sacrifica. Poi ti giri, e ti ricordi che è in panchina. Menomale che non è in campo, mangeresti chiunque ti passasse vicino, con di fianco uno come lui.
Purtroppo nel calcio le cose cambiano senza una logica. Da un anno all’altro ti ritrovi a giocare con gente che non conosci e un allenatore che non ti piace, ma che sei obbligato ad ascoltare. Ci sono allenatori che non vorresti più vedere nella tua vita.
Poi c’è Mattia, che se dovesse chiamarti per chiederti di andare con lui, gli diresti di sì a prescindere. Andresti in guerra con lui, anche se foste gli unici due a combattere.
Penso che tutti quelli che l’hanno avuto come allenatore siano d’accordo sulla frase che mi ribolliva in testa, a pochi istanti dall’inizio delle partite.
“Mister dacci il segnale e noi scateniamo l’inferno.”
Gezim Qadraku.