Triste quotidianità

Ci stringiamo la mano, ci salutiamo,  mi augura buona fortuna. Sono stato licenziato, il capo è stato così gentile da chiamarmi in ufficio e non farmelo sapere tramite una lettera. Torno giù in magazzino, non mi va di dirlo a nessuno. Passo mezz’ora a fare finta di fare qualcosa, suona la campanella, è finita un’altra giornata di lavoro. Per me è stata l’ultima in questo magazzino, prendo il mio zaino e mi dirigo verso l’uscita. Saluto Mario, mi dice che rimane anche stasera a fare un’ora di straordinario. Mi augura buon weekend, lui lo passerà a lavorare. Ormai la gente non lavora più per il proprio benessere, la gente lavora per non perdere il lavoro. Un’ora di straordinari tutti i giorni, il sabato è diventato scontato, ora si lavora anche la domenica.
Riposo? Mai. Soldi? Il giusto per non morire di fame.
Non c’è più una vita, c’è solo l’identica meccanica giornata lavorativa. Stessi orari, stesse mansioni, per tutti i giorni. Uccide solo l’idea, figurarsi la realtà. Salgo in macchina, consapevole che sarà una delle ultime volte che la guiderò, se non troverò un altro lavoro. Di questi tempi è più probabile vincere al lotto che trovare un lavoro. Ho duecento euro sul conto, non so se mi arriverà lo stipendio di questo mese. Vado al supermercato, il frigo stamattina era vuoto. E’ una fredda sera d’autunno, il supermercato è deserto, sembra che anche gli articoli siano depressi, c’è una orribile canzone triste di sottofondo. Fa freddo in tutti i reparti, non solo in quello dei surgelati. Non c’è nulla che attira la mia attenzione, prendo due birre, mi è passata la fame. Arrivo alla cassa, il cassiere è stravaccato sulla sedia che fissa nel vuoto. Non mi saluta neanche, batte una birra, moltiplica per due, mi chiede i soldi. Pago, esco. Salgo in macchina, apro una birra e me la scolo tutta d’un fiato.
Parto, alla radio annunciano la morte di due giovani ragazzi che si sono fatti esplodere in nome del loro Dio. Forse avrei dovuto aggrapparmi anch’io ad una religione, sembra che le vite dei credenti siano così felici, qualsiasi cosa accada è merito di Dio. Io l’ho sempre considerata una perdita di tempo. La notizia successiva riguarda il ritrovamento di acqua su un pianeta lontano da noi anni luce, mi chiedo a cosa serva. Se non troverò un lavoro, sarò il primo a morire di sete in un pianeta dove di acqua ce n’è in abbondanza. Siamo in guerra tutti i giorni, la gente muore ancora di fame, i ricchi si arricchiscono sulle spalle dei poveri. Il mondo va a rotoli, ma sembra che questo non faccia più notizia.

Gezim Qadraku.

Quel fenomeno di Federico Buffa

Era una di quelle sere nelle quali non sai cosa fare e ti perdi tra i video di YouTube, ad un certo punto sulla destra, nella sezione dei video consigliati, lessi un titolo: “Federico Buffa demolisce in 40 secondi sette anni di campagna acquisti del Milan”.
Fu un colpo di fulmine, non avevo mai sentito un’analisi così ben fatta di un singolo argomento. Non avevo Sky, non ero a conoscenza della sua esistenza, non ho idea di quanti suoi video guardai quella sera. Da quel momento non cercai altro su YouTube se non il suo nome.
Mi concentrai sul calcio inizialmente, la mia passione, trovavo degli spezzoni durante le trasmissioni Sky nelle quali tirava fuori chicche e aneddoti meravigliosi, i soprannomi dei calciatori, storie mai sentite.
Pur di sentirlo parlare, mi misi a guardare le telecronache dell’NBA con Flavio Tranquillo. Non ci capisco nulla di pallacanestro e non mi ha mai attirato come sport, ma da quando ho scoperto l’avvocato, non dico che ho iniziato a seguire il basket, ma le sue telecronache le vado sempre a cercare. Poi per la mia felicità dopo i racconti su Maradona e Jordan, sono arrivate le storie mondiali e quest’anno i racconti delle leggende del calcio. Il miglior regalo che Sky potesse farci, a noi amanti dell’avvocato.
Mentre sei a casa che non riesci a contenere la felicità per come quell’uomo riesce a raccontarti in maniera impeccabile tutto quello che ti interessa, ti verrebbe voglia di averlo nel tuo salotto e farlo parlare per ore e ore. Sappiamo che è un fenomeno in quello che fa, ma come tutti è partito veramente da lontano.

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Nasce in una famiglia milanista, obbligato a tifare Milan il suo primo idolo è il portiere rossonero Barluzzi. Poi la sua attenzione si sposta verso i più conosciuti Prati e Rivera. Come la maggior parte dei ragazzi italiani, sognava di fare il calciatore. Era un trequartista ai tempi delle superiori, quando provò ad aggiudicarsi il pass per andare in America a trascorrere un anno di studi, ma non lo considerarono adatto a quel mondo e lo lasciarono a casa. Si era già sognato un futuro da star del calcio americano, se l’avessero preso, forse ora sarebbe uno dei calciatori sconosciuti della Major League Soccer. Negli States ci ritorna pochi anni dopo e capisce che quella sarà la sua destinazione perenne.  Il padre gli regala un viaggio in America per la maturità.
Dopo aver apprezzato quel mondo fantastico a stelle e strisce, torna  in Italia e  mostra il suo articolo sull’America ad un certo Aldo Giordani, giornalista mostruoso dei tempi, il quale apprezza e decide di pubblicare il pezzo. Gira gli Stati Uniti d’America in lungo e in largo, si ritrova a guardare le partite dell’NBA nei posti migliori, chissà come deve essere stato vedersi Micheal Jordan a pochi centimetri.
Torna in Italia e inizia la professione di agente, rappresenta alcune giocatrici del campionato di serie A. Diventa anche radiocronista ufficiale delle partite dell’Olimpia Milano, nello stesso periodo conosce quello che diventerà il suo gemello, un altro fenomeno in questo campo. Flavio Tranquillo. I due stanno agli ordini di Giordani, lo seguono, lo ascoltano e cercano di imparare il più possibile. Si laurea in giurisprudenza, con 110 e lode, OVVIAMENTE. La carriera da agente non continua e prende il sopravvento quella da telecronista, per nostra fortuna.
Ascoltare quei due sembra di sfogliare un’enciclopedia. La cultura, se si vuole raccontare qualcosa è fondamentale. La loro formazione sportiva e culturale è praticamente perfetta. Entrambi hanno giocato, hanno provato sulle loro mani quello che raccontano. Come se non bastasse aver giocato a basket, l’hanno anche arbitrato. Esperienze che poi fanno la differenza, quando ti ritrovi a commentare una partita.
Come li sentiamo parlare in televisione, nella stessa maniera parlano tra di loro. Troppo bella la loro intesa. Essendo un alieno, unico nel suo genere, può permettersi di analizzare anche le partite di calcio.
Inizialmente viene invitato a Milan Channel come opinionista, pochi anni dopo conduce la partita tattica, nella quale spiega ai tifosi rossoneri l’andamento delle partite del Milan. Una passeggiata di salute per uno come lui che arriva dal mondo analitico del basket. Gli viene proposto di continuare in quel mondo, ma si accorge che il calcio non è solo uno sport, c’è dentro anche la politica e cose che a lui non piacciono. Non può commentare una partita se non può dire quello che vuole, o dire qualcosa che faccia piacere a qualcuno. Si distacca dal calcio, quando ci ritorna lo fa esclusivamente da narratore.
Come fai a non amarlo? Sa tutto. Potrebbe allenare una squadra di basket e una di calcio in contemporanea, è preparato, condisce la sua preparazione culturale a quella sportiva dando vita a narrazioni fantastiche, ha una dote che penso tutti i giornalisti dovrebbero avere, la pronuncia delle lingue straniere. Sentirlo parlare in spagnolo è una libidine. L’apice per noi malati di calcio sono state le storie sui mondiali. A casa mia pure le zanzare si fermavano, guai a chi fiatava. Parla Buffa, tutti in silenzio.
Dopo il successo di storie mondiali, Sky ha pensato bene di fargli raccontare alcuni personaggi storici del calcio, facendolo andare in giro per il mondo nei luoghi dove hanno avuto luogo le storie.
Oltre che fare un regalo immenso a noi spettatori, lo ha fatto a lui.
Un uomo affetto dalla sindrome dell’obbrobrio di domicilio, quando torna da un viaggio pensa subito all’altro. Poco amante della tecnologia, fino a qualche anno fa nei suoi viaggi si portava dietro solo una matita. Odia essere rintracciabile, gli dà fastidio pagare con la carta di credito, per il fatto che possono sapere dov’è in quel momento. Viaggia tanto, perché è uno di quelli che vuole sparire. Il suo amore per gli Stati Uniti è palese, ne ha bisogno, è necessario per lui tornare in America. Quel continente ti permette un continuo aggiornamento, puoi capire cosa succederà tra qualche anno nel resto del mondo, dato che quello che succede da noi ora, da loro ormai è roba vecchia. Eppure in un’intervista ha dichiarato che uno dei suoi posti preferiti è l’Iran. La cultura persiana lo fa impazzire e a detta sua, le donne più belle del mondo si trovano in Persia. Io all’avvocato credo sempre.
Un uomo umile, che si ritiene baciato dalla fortuna per quello che fa. Il suo più grande nemico è la mancanza di coraggio, se fosse un film sarebbe “l’impossibilità di essere normale”, una pellicola degli anni settanta.
Se avesse seguito il suo istinto ora dovrebbe essere a Kyushu, l’isola più meridionale del Giappone, ad insegnare italiano alle signore giapponesi. Faccio fatica a capire perché in Giappone vogliano imparare l’italiano.
Va beh, fortuna che le cose sono andate diversamente dai suoi piani.
Se dovesse raccontare la vita di noi comuni mortali che lo seguiamo, riuscirebbe a renderla interessante.
E’ sempre un piacere ascoltarla avvocato.
Ah, per il bene dell’umanità, si faccia clonare.

Gezim Qadraku.

Ci siamo persi

E’ uscita dal portone del palazzo correndo, mi è saltata in braccio e mi ha stretto forte. Non era da lei un atteggiamento del genere, non si è mai comportata così, ha sempre avuto una sorta di vergogna nel mostrarmi tutto quello che provava.
Era bella quella sera, aveva i capelli mossi, il trucco vistoso, si era messo lo smalto rosso sia sulle dite delle mani che dei piedi, l’abbronzatura le faceva risaltare la chioma bionda. Era da perdere il fiato.
Dopo avermi stretto per parecchi minuti mi ha dato il regalo che mi aveva preso dal paese dove era andata in vacanza. Una misera cartolina.
Ho pensato che l’aveva comprata il giorno stesso in aeroporto, l’unico momento in cui si era ricordata che qui aveva un ragazzo. Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava. Aveva addosso una felicità che non le avevo mai visto, qualcosa che non era merito mio. Non c’è delusione più grande nel vedere la tua persona felice per merito di qualcun altro. Abbiamo passato la sera seduti su una panchina, lei mi raccontava le sue vacanze e io cercavo di capire di chi fosse il merito di quel sorriso infinito che le era spuntato sul viso. Era lì fisicamente, di fianco a me, ma col cuore era da un’altra parte. Non ha fatto altro che controllare il cellulare per tutto il tempo. L’ho riaccompagnata, ci siamo salutati con un misero bacio insignificante. Mi scriveva sempre qualche messaggio mentre tornavo a casa in macchina, non mi ha scritto niente, neanche la buonanotte, zero. Ho capito che l’avevo persa. Che non era più la mia persona. Ora non mi restava che scoprire chi fosse il colpevole o aspettare che fosse lei a dirmelo. Ho perso lei, ma lei non ha perso me.
Rimarrò in attesa, nel caso dovesse cambiare idea. La aspetterò, anche per sempre se sarà necessario.
Per me, per lei, per quello che eravamo insieme.

Gezim Qadraku.

Vicino a lei

Eravamo in fila fuori dallo stadio, all’inizio del concerto mancavano ormai poche ore. Finalmente il momento che avevamo aspettato per mesi era arrivato.
Luca ed Elena erano qualche metro davanti a noi, riempivano l’attesa a litigare per qualche futile motivo. Io ero davanti a Chiara.
Ci siamo conosciuti un mesetto fa, alla festa di compleanno di Elena. Il solito “come va’?” si è trasformato in una conversazione che è durata tutta la sera. Le ho chiesto di uscire, ma mi ha detto che era ancora in ballo con il suo ex fidanzato, mi ha dato l’idea che la storia fosse al capolinea, avrei potuto scriverle o fare qualcosa , ma ho optato per lasciarle il suo spazio.
L’altro giorno ho scoperto che sarebbe venuta anche lei al concerto, l’iniziale felicità si è trasformata in ansia. Di certo con il suo ex le cose non andavano più bene, altrimenti non sarebbe venuta al concerto da sola.  Ho pensato a come comportarmi, a cosa dirle, ho immaginato ai vari momenti in cui ci saremmo ritrovati da soli, visto che gli altri due sono famosi per appartarsi frequentemente.  Il giorno tanto atteso è arrivato, ed eccoci qui davanti allo stadio. Abbiamo parlato per tutto il tempo,  mi è sembrata abbastanza contenta della mia compagnia. Non le ho chiesto niente dell’ex fidanzato, non volevo essere invadente.
Verso il tardo pomeriggio hanno iniziato ad aprire i cancelli, ci siamo alzati, ci siamo messi in fila e lei è rimasta dietro di me. Ogni tanto cercavo di darle una sbirciatina e la vedevo indaffarata con il cellulare, non poteva che essere il suo ex, il nostro parlare è diminuito vertiginosamente.  Ho provato una delusione enorme, tutti i miei viaggi mentali sono andati a farsi fottere in quell’istante. Ho pensato che stavano facendo pace, che non mi avrebbe più calcolato e che avrebbe fatto finta di divertirsi al concerto, o che magari se ne sarebbe andata con una scusa all’ultimo secondo.
Poi, all’improvviso dopo molti minuti di silenzio, mi sono sentito le sue mani sulle scapole, ho capito che cercava le mie. Ho subito, di scatto, portato le mani all’altezza delle sue.
Le nostre dita si sono incrociate, ho sentito la sua testa appoggiarsi alla mia schiena. Il suo corpo esile cercava di scaldarsi tramite il mio. In tutto questo, nessuno dei due ha aperto bocca, ci siamo mossi senza neanche guardarci, come se già sapessimo le mosse e i bisogni dell’altro. Come se ci conoscessimo da una vita.
Nel frattempo la fila  avanzava e l’entrata era sempre più vicina, la gente continuava a spingere. Il momento per il quale avevamo patito il freddo era a pochi passi da noi, il posto in cui tutti volevano essere era lo stadio, non in quella maledetta fila.
Io sarei rimasto lì per tutta la notte, al freddo, con le folate di vento che mi tagliavano le guance. In piedi, accanto a lei, con le sue mani tra le mie.
Avevo appena trovato il mio posto nel mondo.
Vicino a lei.

Gezim Qadraku.

Ritrovarsi

Ero in metro quando mi è arrivato il messaggio, il treno era appena ripartito da Cadorna, la maggior parte delle persone era scesa. Seduto davanti a me c’era un ventenne alle prese con tabacco, filtro e cartine, lo stavo fissando quando ho sentito vibrare il telefono.
Era una notifica su Facebook, un messaggio in posta, l’ho aperto e ho letto il nome, Jetmira.
Il cellulare mi è caduto per terra. Il ragazzo ha lasciato quello che stava facendo, si è alzato e mi ha chiesto se andava tutto bene, chissà che faccia avevo. L’ho ringraziato, sono sceso a Lanza, anche se non è la mia fermata. Mi sono seduto e ho riletto un centinaio di volte il testo, era proprio lei e mi chiedeva come stavo, dov’ero e cosa stavo facendo.
Io e Jetmira eravamo in classe insieme alle elementari, un giorno qualunque improvvisamente  scoprii di amarla. Abitavamo nello stesso paesino di campagna, la nostra scuola distanziava circa un chilometro dalle nostre case. La strada era tutta dritta, la facevamo sempre a piedi insieme ad altri nostri compagni. Mi ricordo tutto di quel periodo, quando di inverno uscivamo da scuola nel tardo pomeriggio ed era tutto buio, faceva freddo, ci stringevamo per scaldarci. La strada ghiacciata, facevano attenzione a non cadere.
D’estate invece non ne volevamo sapere di tornare a casa, stavamo a giocare nei campi fino al tramonto, fino a quando qualche genitore non veniva a prendere il proprio figlio e quello era il segnale che il gioco era finito.
Passai tanto di quel tempo a cercare un metodo per dirglielo, a voce proprio non ci riuscivo, mi vergognavo troppo. Come fai a dire ad una persona che da un momento all’altro ti sei accorto che la ami?
Dopo notti insonni e giorni trascorsi a cercare di trovare il coraggio di dirle il tutto, decisi di scriverle il classico biglietto, “vuoi stare con me?” e sotto un quadratino con il “si” e  un quadratino con il “no”. Disegnai il quadratino del no un po’ più piccolino, giusto perché mi stava antipatico. Me lo ricordo bene il giorno in cui le diedi il bigliettino, arrivato alla vietta chiusa di casa mia, le presi la mano, le diedi il pezzo di carta e filai di corsa a casa, mi vergognai tantissimo. Non dormii tutta la notte, pensai e ripensai se andare a scuola o no il giorno dopo.
Se avesse sbarrato il quadratino del no? Che figura ci avrei fatto? Se invece avesse scelto il sì e io non fossi andato? Decisi di andare. La mattina seguente fu diversa delle solite. Nonno e papà sembravano due fantasmi, lessi nei loro volti la paura. Papà si limitò a dirmi che non sarei andato a scuola. Non capivo, nessuno parlava e tutti sembravano avere paura, guardavo fuori e tutto mi sembrava normale. Non me ne rendevo conto ma tutto stava per cambiare, i carri armati avevano chiuso la strada che portava alla nostra scuola, la guerra era arrivata anche da noi. Si sparava in tutto il Kosovo da qualche mese, ma eravamo convinti che da noi non sarebbero arrivati i fucili. Scappammo nel pomeriggio, ci rifugiammo nel bosco dietro al nostro paesino. Non rividi più Jetmira,  non seppi più niente di lei, me la ero quasi dimenticata e invece…
Le ho risposto, ci siamo sentiti per tutta la serata, mi ha detto che  è rimasta in Kosovo per tutta la durata della guerra, ora abita a Prishtina, insegna geografia e storia alle elementari.
Ho preso il primo biglietto aereo che ho trovato, ero impaziente  di vederla, ero convinto che me l’avessero uccisa. E’ venuta a prendermi all’aeroporto, siamo andati a berci un caffè nel bar sotto casa sua. Appena ci siamo seduti ha tirato fuori dalla borsa un foglio di un colore che si avvicinava all’oro, il colore della carta che è sopravvissuta allo scorrere della vita. Me lo ha dato, l’ho aperto, era il bigliettino che le avevo dato l’ultima volta che ci eravamo visti.
Aveva sbarrato il quadratino del sì.
Ci siamo ritrovati, come si ritrovano tutti quelli che si amano.

Gezim Qadraku.

Il figlio della lupa

La leggenda narra che la lupa allattò Romolo e Remo finché i due gemelli non furono trovati dal pastore Faustolo. Si sono dimenticati di raccontarci un pezzo della storia. C’era un terzo neonato con quei due, il suo nome era Francesco, il pastore non si accorse di lui e il piccolo fu cresciuto dalla lupa.
Gli dei gli delegarono un incarico importante:
“Ama la città di Roma fino all’ultimo dei tuoi giorni e mostra al mondo come si gioca a calcio”.

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E’ in via Vetulonia che il ragazzo incomincia ad adempiere al suo dovere, prima inizia a calciare e solo dopo a camminare. Lo chiamano gnomo, non ne vuole proprio sapere di crescere, è un piccolo giocherellone, rompe le scatole a tutti. Sarà anche piccolo, ma per le strade di Roma è lui il più forte, calcia già fortissimo. Tanto che il barista dove compra sempre il gelato, glielo dice ogni volta “non tirare forte Francesco”, ma è tutto inutile.

“Quando ero piccolo e annavo a giocà a’ pallone con ragazzi che non conoscevo e stavano a fa le squadre se finiva sempre con “palla o regazzino?” poi dopo 2 minuti di gioco ed un paio di tunnel tutti: “Refamo le squadre, refamo le squadre il regazzino è troppo forte!”
Il padre segue ben volentieri il talento del figlio, dopo i primi anni passati per la Fortitudo Luditor, la Smit Trastever e la Lodigiani, nel 1989 quando il ragazzo ha dodici anni parecchie squadre si fanno avanti.
Tra tutte ci sono le due  più rappresentative della capitale, Lazio e Roma. Che si fa?
La famiglia decide di parlarne a tavola, la madre propone di mandare Francesco alla Lazio, la reazione degli uomini della famiglia è immediata. Il fratello tira i calci alla madre sotto il tavolo, il marito la guarda male e la decisione è presa. Roma, non poteva essere altrimenti.
La Lazio proprio no, non si può.
Nella Roma c’è il suo idolo, il principe Giuseppe Giannini, ora può finalmente vederlo dal vivo non si deve più accontentare del poster in camera. L’esordio tra i grandi arriva presto, a sedici anni Boskov decide di buttarlo nella mischia negli ultimi minuti di un Brescia- Roma.
Nei tre anni successivi l’allenatore dei giallo rossi sarà Carlo Mazzone, una figura importantissima per il giovane ragazzo. Ormai tutti si sono accorti di lui, è forte, è romano, deve giocare. Tutti vogliono vederlo partire dal primo minuto. Mazzone distribuisce le sue presenze in maniera impeccabile, lo protegge dalle critiche e controlla anche la sua privata.
Un anno e qualche mese dopo il suo esordio in prima squadra arriva anche il primo gol in serie A, la vittima è il Foggia. Si era preparato l’esultanza la sera prima, ma quando la palla entra non sa cosa fare, dove andare, corre e gesticola a caso. Sarà un episodio, perché poi col tempo Totti le preparerà molto bene le sue esultanze. Dopo il difficile rapporto con l’allenatore argentino Carlos Bianchi, sulla panchina della Roma arriva Zdenek Zeman.
Il ragazzo apprende molto dal boemo, matura mentalmente e fisicamente, dimostra di essere compatibile con le difficili richieste dell’allenatore. Viene investito dai compagni di squadra della maglia numero dieci, non la veste semplicemente, si fa cucire quel numero sulla pelle. Non lo cambierà più. L’anno seguente diventa anche capitano, pure la fascia se la fa cucire. Quando viene sostituito chi entra al suo posto ha un’altra fascia da dare al vice capitano.
La stagione 99-00 è il preludio al successo, arriva Capello che decide di costruire una grande squadra sulle spalle del numero dieci. Nel 2001 arriva il tanto atteso trionfo, il trio delle meraviglie Batistuta-Montella-Totti distrugge tutto quello che trova davanti, segnano tutti e tre anche nell’ultima giornata di campionato. La Roma sconfigge il Parma per tre a uno, in uno stadio Olimpico che rischia di scoppiare. La Roma è campione d’Italia e Totti si classifica quinto nella lista del pallone d’oro.
Ha vinto lo scudetto da capitano, da protagonista, da leader. E’ diverso vincere a Roma, l’ambiente è sempre bollente, la gente chiede tanto e non si accontenta mai. Uno scudetto con la Roma ne vale almeno dieci vinti con Milan, Juventus o Inter.
Le stagioni passano, gli allenatori iniziano a cambiare velocemente, ma lui è sempre lì. La maglia numero dieci, la fascia di capitano e i gol che piovono a raffica. La stagione 2005-2006 è una stagione chiave della carriera di Francesco. Sulla panchina della Roma si siede Spalletti, i giallo rossi sono protagonisti di un record mai stabilito fino a quel momento, vincono undici partite di fila. La prima svolta arriva a Genova, la Roma incontra la Sampdoria e tutti e quattro gli attaccanti sono infortunati.
“Te la senti di fare la prima punta?” Gli chiede l’allenatore. “Ci provo, massimo finisce zero a zero” risponde il capitano. Totti segna e in quel preciso istante capisce che quello è il suo ruolo. E’ la stagione del mondiale e cento giorni prima dell’inizio del torneo prende forma la tragedia, il capitano si infortuna gravemente. In un contrasto con il difensore dell’Empoli Vanigli la caviglia fa un movimento innaturale, lo si capisce subito che è grave. Il tempo è poco, si parla addirittura di carriera finita, tutti vogliono sapere se ce la farà o meno.
Lippi lo aspetta, Francesco abbassa la testa, si tira su le maniche e incredibilmente riesce a presentarsi in forma in Germania. Quello degli azzurri è un cammino emozionante, favoloso, ricco di colpi di scena. Il primo vero brivido arriva negli ottavi di finale, il risultato è fermo sullo zero a zero, è l’ultimo minuto di recupero e Fabio Grosso si è procurato un calcio di rigore. Calcia Totti, chi altro se no?
(mi ricordo ancora quanto tremavo in quel momento)
Hanno tutti paura che faccia il cucchiaio, ci ha pensato, ma poi ha cambiato idea. Calcia forte alto alla sua sinistra, GOL. Italia ai quarti di finale. Diventa campione del mondo Francesco, tre mesi prima si pensava che dovesse smettere di giocare e invece la sera del 9 luglio bacia la coppa più bella che esista. Condivide la propria felicità con il suo popolo, al circo massimo, dove sembra che sia arrivata tutta l’Italia a gioire.

Totti

Prende una decisione coraggiosa dopo il trionfo, lascia la maglia azzurra. Ha una certa età, si conosce e sa che non potrebbe dare il massimo sia per la Roma che per la nazionale. La decisione si rivela opportuna, l’anno seguente mette a segno la bellezza di ventisei reti in campionato che gli valgono la scarpa d’oro, cannoniere più prolifico d’Europa.
A trentuno anni, un’età nella quale in teoria un calciatore inizia ad andare più piano a giocare di meno, invece Totti sembra vivere un’altra giovinezza. Arrivano altri allenatori nella capitale, ma lui è inamovibile, ma non perché è il capitano, perché è Totti e allora tutto gli è dovuto.
No, Francesco continua a segnare e ad incantare. Sfracella i record con una facilità disarmante.
591 presenze nel campionato di Serie A, quarto di sempre.
68 rigori realizzati, primato che detiene insieme a Roberto Baggio.
Il 25 novembre a 38 anni e 59 ha stabilito il record del più longevo marcatore della Champions League.
315 le reti realizzate a livello professionistico, detiene il record del maggior numero di gol con la stessa squadra.
Più di una volta nella sua carriera si è presentata la possibilità di cambiare squadra, come fai a non volerlo uno così? Tutti hanno cercato di prenderlo, anche il Real Madrid, ma non ci sono riusciti neanche loro. Tanto che è rimasto uno dei più grandi rammarichi di un certo Florentino Perez:
“Ho speso tantissimi soldi nella mia vita per costruire una squadra potente come il Real Madrid, ma il mio desiderio sarebbe stato quello di avere con me il capitano della Roma: Francesco Totti. Purtroppo è uno dei pochi campioni che è rimasto, una vera bandiera che ha sposato un progetto: quello di voler giocare per sempre nella squadra della sua stessa città e ciò non può che fargli onore. Era impossibile arrivare a Totti: paradossalmente, più difficile prendere lui che chiunque altro proprio perché le motivazioni che lo tengono a Roma sono importanti”.

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E’ sempre stato al centro dei riflettori, molte volte perché faceva comodo mettercelo, è capitato anche che il capitano sbagliasse. Come fece per esempio durante l’Europeo del 2004 quando sputò in faccia al danese Poulsen e venne squalificato. In quel caso ci fu qualcuno che lo difese, qualcuno che proprio non ti aspetti,
“Caro Totti, capisco le necessità professionali, ma io non avrei chiesto scusa a nessuno. Erano tre ore che quel danese la prendeva a gomitate, pedate, stincate. Pur non essendo una tifosa di calcio, guardavo ed ho visto tutto. Con sdegno. Unico dissenso: io avrei tirato un cazzotto nei denti e una ginocchiata non le dico dove. Stia bene, dunque, non si rimproveri ed abbia le più vive congratulazioni di Oriana Fallaci”.
Col passare degli anni è diventato un personaggio anche fuori dal campo, svariate pubblicità sono riuscite a trasformare la sua timidezza in una forma genuina di simpatia. Ogni suo gesto viene amplificato all’ennesima potenza. Le sue particolari esultanze, soprattutto nei derby, la maglietta “vi ho purgato ancora”, il selfie. Le sue entrate non sempre pulite, una su tutte il calcione rifilato a Balotelli. Ma si sa che un errore viene sempre ingigantito, ma sarebbero dovute essere ingigantite anche le parole del padre di Gabriele Sandri (il giovane tifoso laziale ucciso in una stazione di servizio, dal colpo di pistola di un carabiniere)
“Sono laziale da sempre, ho fatto 44 anni di stadio, e Francesco Totti era il mio nemico sportivo, calcisticamente e campanilisticamente non lo sopportavo. Poi l’ho conosciuto il giorno del funerale di Gabriele e ho scoperto una bellissima persona. Di quel giorno tremendo ho pochi ricordi nitidi, uno è la faccia di Totti. Non lo sapevamo nemmeno che sarebbe passato. Venne alla celebrazione evitando le telecamere e mettendosi in disparte senza dire parole. Nella stessa maniera in chiesa venne da noi per farci le condoglianze. Tante persone sono venute a stringerci la mano, a darci un abbraccio, tanti volti non me li ricordo, ma quello di Francesco si, e questo già dice tanto: era semplicemente dispiaciuto, toccato dal dramma che stavamo vivendo. Fu discreto, pudico, composto, sincero, queste cose un padre a cui hanno ucciso un figlio le capisce. Abbiamo avvertito la sua partecipazione al nostro dolore, stando sempre defilato, senza dire una parola tranne quel venire a cercarci per far vedere, ma solo a noi, che c’era pure lui il giorno del funerale di Gabbo”.
E’ stato un privilegio per quelli della mia generazione poter ammirare un talento del genere, è riuscito sempre a farci pensare che giocare ai suoi livelli fosse facile, ha trasformato l’impossibile in facile. Il suo autografo? Il cucchiaio, il modo più incosciente per tirare un calcio di rigore. Mostrato al mondo intero per la prima volta negli europei del 2000 ai danni del povero Van Der Sar e poi utilizzato in tutti i modi, non solo dal dischetto.
Questa è arte signori miei:

Nel suo repertorio ce n’è per tutti i gusti, destro e sinistro come se fosse lo stesso piede. Il gol contro la Sampdoria l’hanno applaudito anche gli dei del calcio. Quel tiro forte che aveva da ragazzino per le vie della città non ha fatto altro che aumentare di potenza, tanto che i suoi tiri si sono trasformati in missili terra aria. Calcia forte, magari la palla non prende chissà quale traiettoria, il problema è che non la vedi proprio. Dotato di una tecnica e di una visione di gioco favolosa. Sono quasi dieci anni che fa la prima punta, ruolo al quale è richiesta la sponda per il centrocampista, il quale ha il compito di lanciare nello spazio gli esterni.
Con Francesco i centrocampisti devono solo preoccuparsi di passargli la palla, ci pensa lui a lanciare gli esterni. Viene incontro, spalle alla porta, ha già preparato la giocata e di prima, di destro o di sinistro con una precisione pazzesca lancia nello spazio i suoi compagni, il tutto è reso ancora più complicato dal fatto che ha una visuale ridotta, è girato di spalle verso la porta avversaria, il corpo non è nella posizione ideale per fare un movimento del genere, ma queste sono tutte teorie che lui ogni volta butta nel cestino.
E’ come metterla in banca la palla, puoi dargliela nella peggior maniera possibile, tanto lui in qualche modo la stoppa e fa ripartire l’azione. Non puoi dire che non te lo aspettavi il suo passaggio, se ha la palla Totti devi solo attaccare lo spazio, lui ti trova, sempre .
Gli assist in rovesciata non gli avevo neanche mai concepiti, per Francesco sembrano una passeggiata di salute. Neanche lui si capacita di quello che sa fare, quando riguarda le partite in televisione è il primo a chiedersi come abbia fatto, ma quando è su quel prato verde tutto gli viene naturale, perché è nato per fare questo, è nato per giocare a calcio. Nonostante da piccolo pensava di fare il benzinaio, gli è sempre piaciuto l’odore della benzina ed era convinto che i benzinai guadagnassero bene. Fortuna che non è andata così.
Non vuole che la sua maglia venga ritirata, non vuole togliere l’opportunità a nessuno di indossarla, il problema è che per vestire quella maglia bisogna avere un coraggio da pazzi. Probabilmente dal giorno in cui smetterà di giocare, nelle scuole romane un capitolo del programma di storia sarà dedicato a lui.
Chiesero a Zeman quali fossero i cinque migliori giocatori italiani, il boemo rispose così:
“Totti, Totti, Totti, Totti e Totti”.
Pelè lo ha definito il miglior giocatore del mondo, solo un po’ sfortunato.

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Ormai non fa più notizia Totti. Lo sai che se gioca segna, che se entra cambia il volto della partita, che avere lui in campo diventa un problema impossibile da risolvere per gli avversari. Ma ormai tutto questo è diventata una costante. Però nel calcio nulla è scontato.
In questo sport ogni pallone, ogni partita, ogni stagione è una storia a sé. Se sei diventato scontato, se anche la cosa più bella che fai non fa più notizia, vuol dire che in quello che fai non sei forte, non sei un campione, non sei un fuoriclasse, sei un mostro.
L’incarico che gli fu dato dagli dei era parecchio difficile da realizzare per un essere umano, ma Francesco ha trasformato la richiesta in realtà.
Ha amato la sua città, non l’ha mai abbandonata, ha onorato la sua maglia e ha mostrato al mondo intero come si gioca a calcio.

Gezim Qadraku.

L’attesa

Aspettare l’arrivo della tua persona non è facile, soprattutto quando sai bene o male per che ora dovrebbe arrivare. Cerchi di trovare qualcosa da fare, per far passare il tempo più velocemente possibile. Continui il libro che stai leggendo, oppure ti guardi un film.
L’unica cosa che attrae sempre la tua attenzione in quei momenti, sono le lancette dell’orologio. Vorresti che il tempo trascorresse più in fretta. Nel frattempo si  è fatta l’ora prevista dell’arrivo, ma ancora niente. E’ arrivato il buio, questa cosa ti rincuora perché sai che alle prime luci nel viale, capirai che l’attesa è finita. Ti alzi, lasci quello che stai facendo. Guardi fuori dalla finestra, nella speranza che proprio quello sia il momento dell’arrivo. Invece ancora niente.  Vorresti trovare qualcos’altro da fare, ma l’unica cosa che ti riesce è quella di camminare avanti e indietro per il corridoio.
Scorgi delle luci, ti sporgi sul balcone, ma la macchina non è quella che stai aspettando. Vorresti scendere in strada e picchiare il proprietario dell’auto.
“Proprio ora dovevi passare? E’ tutto il giorno che aspetto la mia persona, e tu passi proprio adesso nella mia via?”
Potresti effettuare una chiamata, ma non vuoi essere la causa di un possibile incidente stradale.  La telefonata rovinerebbe quel momento impagabile, che è l’attimo in cui capisci che l’attesa è finita.
Proprio mentre sei perso nei tuoi pensieri, arriva il segnale tanto atteso. Senti il rumore della macchina, vedi le luci, il colore è quello giusto.
Apri la porta e corri tra le braccia della tua persona. Il viso famigliare, il profumo buono, lo sguardo felice ed il sorriso dolce. Improvvisamente tutte le ore passate ad aspettare ti sembrano così belle. Danno ancora più valore a quel momento tanto atteso.
E’ bello aspettare qualcuno, avendo la certezza che arriverà.

Gezim Qadraku.

Qualcuno volò sul nido del cuculo

Corre l’anno 1963, nell’istituto psichiatrico di Salem fa la sua comparsa il signor Randle Patrick McMurphy. Il soggetto è un tipo bellicoso, indolente a qualsiasi tipo di lavoro, aggressivo, finito in cella già cinque volte. Il suo intento è quello di fingersi un malato mentale per sfuggire alla prigione.

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Il film ci narra il suo periodo di degenza e la sua lenta, ma totale trasformazione.  Il protagonista si prende subito la scena nell’ospedale. E’ intelligente, vivace, ribelle. Mantiene un comportamento anticonformista, incomincia giocando a carte e facendo perdere agli altri pazienti tutte le loro sigarette, gioca da solo a basket, propone una votazione per cambiare l’orario delle riunioni di terapia per poter guardare le finali di baseball.
Un bel giorno, aiutato dal “grande capo”, un nativo sordomuto, riesce a scavalcare la recinzione e a mettersi alla guida dell’autobus che viene utilizzato per portare in giro i pazienti meno gravi. Insieme agli altri degenti prende una barca, spacciando sé e gli altri per un gruppo di medici.
Questo è il primo momento in cui i pazienti si ricordano di essere degli esseri umani, di non essere pazzi, di essere realmente in grado ancora, di fare qualcosa. L’avventura finisce con qualche pesce pescato e il ritorno nell’istituto.
Dopo un parapiglia scoppiato a causa delle sigarette che i degenti hanno perso giocando a carte, McMurphy e il grande capo si scagliano contro  gli infermieri e vengono portati in un altro ospedale. Qui il protagonista riceve il suo primo elettroshock e scopre che il grande capo si è finto sordomuto e nessuno lo ha mai scoperto. Oltre che col nativo, McMurphy lega  anche con Billy Bibit, un ragazzo introverso e affetto da balbuzie. Il protagonista, convinto di poter lasciare l’istituto dopo i giorni prestabiliti, scopre che così non è, e decide di provare a scappare.
Organizza con il grande capo la fuga, la sera stessa decidono di fare una festa per salutare tutti. L’alcool però manda in fumo il loro piano e il giorno successivo Billy si suicida, per la vergogna di essere stato trovato a letto con una ragazza che l’amico aveva fatto entrare nel centro per la festa. McMurphy cerca di uccidere la caporeparto, ma questo gesto gli costa caro. I medici, che lo hanno preso in antipatia sin dall’inizio decidono di “curarlo” con una lobotomia, trasformandolo così in un vegetale.

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La pellicola è tratta dal romanzo omonimo di Ken Kesey, che scrisse il libro in seguito alla sua esperienza da volontario in un ospedale psichiatrico.È uno dei tre film nella storia del cinema (insieme a Accadde una notte di Frank Capra e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme) ad aver vinto tutti e cinque gli Oscar principali ( miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice, migliore sceneggiatura non originale).
L’interpretazione di Jack Nicholson è maestosa, tutti gli altri pazienti sono interpretati in maniera eccelsa. Il protagonista riesce a creare una vera e propria rivoluzione all’interno del centro, col passare del tempo i pazienti, chi più chi meno, iniziano a pensare a se stessi come persone e non solo come pazzi.
La percezione delle loro priorità cambia, capiscono che le cose importanti della vita sono al di fuori di quel centro. I suoi due cari amici riescono a carpire pienamente il messaggio di McMurphy. Il povero Billy se ne infischia delle regole e va a letto con la ragazza.
Il grande capo, prende coscienza della sua forza e la usa per riprendersi la libertà.
Al termine della pellicola viene naturale porsi qualche domanda:
Perché quei trattamenti disumani?
I pazzi esistono veramente?
Qual’è il limite che separa la sanità dalla pazzia?
Non sarà che tutti sono entrati sani nell’istituto e poi sono stati trasformati in “pazzi” come succede al protagonista?
Oltre ad essere un atto di accusa contro i manicomi, il film descrive l’intolleranza del potere (il comportamento mantenuto dalla caporeparto ne è la prova) , i meccanismi repressivi della società (occhio per occhio e il mondo diventa cieco, mi verrebbe da dire), ma soprattutto il condizionamento dell’uomo da parte degli altri uomini. Come dimostrò Milgram nel suo esperimento, la maggioranza delle persone darebbe una scossa letale ad un’altra persona solo perché è un tizio col camice bianco a chiederglielo.
Le persone che parteciparono all’esperimento erano persone normali.

Voto? 10, naturalmente.

Gezim Qadraku.