Ce ne andiamo in Italia (parte finale)

Fa freddo, sento il vento intrufolarsi tra la sciarpa e il colletto del cappotto e in un millesimo di secondo raggiungere tutto il corpo. L’aria gelida mi provoca un brivido alla schiena. È tardi, sono almeno dieci minuti che ti aspetto. Decido di chiamarti, anche se questo implica dover tirare fuori la mano dalla tasca del cappotto per prendere il cellulare, che è in borsa. Il gesto mi costa l’esposizione dell’arto all’aria fredda. Questo non fa altro che aumentare il mio nervoso. Cerco tra le ultime chiamate, il tuo nome è il primo della lista. Ti chiamo. Il telefono continua a squillare a vuoto. Al quinto squillo finalmente rispondi.
Arrivo”, dici subito e metti giù. Capisco che stavi dormendo. Quindi ti ci vorranno un paio di minuti per prepararti, sommati al quarto d’ora per arrivare qui. Tempo che dovrò passare seduta, al freddo, su una panchina di fronte al parcheggio dell’azienda per la quale lavoro. Se solo avessi la patente, se solo fossi stata in grado di diventare una donna indipendente, in tutti questi anni in Italia.
Tisha kan e hajrit”, non avrei dovuto aspettarti la sera, al freddo, sudata, dopo aver passato cinque ore a pulire gli uffici e i bagni dell’azienda. Ma no, in Italia l’unico traguardo che sono riuscita a raggiungere è stato diventare una donna delle pulizie. Non ho fatto altro che pulire. Prima le case degli amici dei nostri figli, poi quelle di persone ancora più benestanti, dove ho compreso il significato del verbo “vivere” e poi il salto di qualità, l’ultimo step. Un contratto vero, niente più soldi in nero lasciati in una busta sopra il tavolo della cucina. Ora pago anche i contributi per la pensione. Un contratto di lavoro legale, dopo 25 anni trascorsi in Italia.
Dicono che non è mai troppo tardi. Dicono anche che i soldi non fanno la felicità. Dovrebbero provare cosa vuol dire vivere senza di essi e trascorrere la vita a spaccarsi la schiena per guadagnarne giusto abbastanza da poter sopravvivere. Ripenso a quali erano i miei sogni quando arrivammo qui. Pensavo addirittura di completare gli esami che mi erano rimasti e di laurearmi. Che ingenua. Ma come pensavo di riuscire a fare tanto?

Ricontrollo il cellulare e sono passati soltanto cinque minuti. Ho freddo, ho fame e sono esausta. Voglio soltanto farmi una doccia bollente e andare a dormire. La mente mi riporta indietro ai primi giorni in Italia, non riesco ad allontanarmi da quei ricordi. Ripenso alla felicità per la possibilità di poter avere una nostra intimità. Alla gioia incontenibile nel sapere che i nostri figli avrebbero studiato qui e sarebbero diventati qualcuno. Mi domando perché una persona si costruisca così tante aspettative basandosi esclusivamente sulla propria immaginazione. Mi chiedo perché, dopo Blerim, abbiamo deciso di avere altri due figli. Non pensavamo a quanti soldi ci sarebbero serviti per crescerli? A quante cose ci avrebbero chiesto durante la loro crescita?
Non pensavamo a niente, eravamo come sotto gli effetti di qualche sostanza stupefacente. Eravamo fatti di speranza. Non consideravamo la realtà delle cose. Essere stranieri, non sapere la lingua e non conoscere nessuno. La nostra quotidianità sarebbe stata condizionata da tutto questo e l’avremmo pagato a caro prezzo. La speranza ci aveva resi ciechi. Il tuo stipendio bastava a malapena, poi io iniziai a pulire e con quegli spiccioli riuscivo a pagare almeno la spesa. Così potevamo mettere da parte qualche soldo per goderci le estati in Kosovo. L’unico posto dove potevamo permetterci di andare. L’unico posto dove volevamo andare. Dove per anni abbiamo portato avanti questa narrativa della vita agiata e delle possibilità immense che un paese come l’Italia ci dava. Facevamo i peggiori lavori, tornavamo a casa distrutti e la nostra quotidianità era cadenzata dal conteggio dei mesi che mancavano all’estate, al momento del ritorno. Avremmo dovuto raccontare la verità. Avremmo dovuto essere fieri di noi stessi, di quello che stavamo facendo. Avevamo deciso di buttare via la nostra vita, di spaccarci la schiena, di pulire la merda degli italiani, di fare i lavori che a loro non andava di fare, solo ed esclusivamente per dare ai nostri figli un futuro migliore. Ma tutto questo non lo raccontavamo a nessuno, lo nascondevamo, come una persona cerca di coprire e nascondere un difetto fisico agli occhi degli altri. Ci vergognavamo di noi stessi, ma non avremmo dovuto. Saremmo dovuti andare in giro con un cartello sopra la testa, con scritto a caratteri cubitali “sto pulendo la merda per dare ai miei figli un futuro migliore”.

C’era da andarne fieri e camminare a testa alta. In Kosovo ci dicevano tutti che eravamo salvi, che stavamo facendo la bella vita.
Jeni pshtu, u knaqt nat Itali.”
Dovevamo far vedere di aver fatto i soldi e così li davamo via per aiutare gli altri. O meglio, tu li davi ai tuoi fratelli. Costruivi a loro case, mentre noi, ogni estate, dovevamo andare a dormire da loro. Venticinque anni in Italia e siamo riusciti, a fatica, a comprarci un misero appartamento in Kosovo. Hai dovuto chiedere i soldi in prestito ai tuoi fratelli e poi hai dovuto darli indietro. Tu, invece, a loro li avevi regalati. Non sei mai cambiato in tutti questi anni ed è finita come immaginavo. È finita che dopo i tuoi fratelli, anche i tuoi figli ti hanno messo i piedi in testa. Albina si è sposata con un italiano. Tu le hai detto che non l’avresti mai più fatta entrare in casa e lei non è più tornata. Le ultime parole che ti ha rivolto sono un incubo che mi perseguita ogni giorno.


Se il vostro unico obiettivo era che ci sposassimo con un albanese, potevate tranquillamente rimanere in Kosovo. Non c’era bisogno di venire in Italia. Una vita a romperci i coglioni che l’avete fatto per darci un futuro migliore e poi l’unica cosa che veramente vi interessa è la nazionalità del nostro partner. Dovevate rimanere in Kosovo, saremmo stati tutti più felici.

Dopo Albina, è stato Blerim a uscire di casa. È andato a studiare a Roma, ha cercato di allontanarsi il più possibile da noi e ce l’ha fatta. Valon, invece, vive ancora qui, ma a fatica lo vediamo. Torna a casa tardi dal lavoro e il weekend lo passa sempre dai suoi amici. Almeno così dice, ma sono sicura che ha una ragazza, molto probabilmente italiana.

Sento il rumore di una macchina, sei tu. Mi alzo con molta fatica. Come mi metto in posizione eretta, sento un tremolio ancora più forte alle gambe e fitte nella zona lombare. Sono da buttare via ormai, il mio fisico non serve più a nulla. Apro la portiera, mi siedo e allaccio la cintura. Stai ascoltando un cd di musica folklore a un volume medio alto e sono già infastidita.
A je lodh?” Mi domandi con un tono freddo, distaccato e disinteressato.
Jo, jo“, ti rispondo, guardando fuori dal finestrino alla mia destra, cercando di aumentare il più possibile la distanza fra noi. Mentre percorri in maniera rozza e a una velocità troppo elevata la strada verso casa, parte una canzone cantata con le ciftelijat. Il tono di voce dei cantanti è altissimo, il baccano che riescono a creare è inspiegabile e ho la sensazione che la testa mi possa esplodere da un momento all’altro. Non ti dico niente, non ho le forze per litigare. Vorrei che abbassassi il volume, vorrei che ci arrivassi da solo, che ti ricordassi quante volte ti ho detto che non mi piacciono queste canzoni e che il volume alto mi dà fastidio. Ma non ci arrivi, non ci sei mai arrivato a niente, da solo. Bisogna sempre ricordartele, ripetertele le cose. E io non ne ho più né la voglia, né la forza. Chiudo gli occhi e cerco di isolarmi, ma il tentativo risulta impossibile.

Dopo un tempo infinito arriviamo finalmente a casa. Apro il portone, saliamo in ascensore e trascorriamo i quattro piani di salita in religioso silenzio. Tu guardi il cellulare, mentre io fisso me stessa allo specchio. Ho cinquantadue anni, ne dimostro almeno dieci in più. Arriviamo al nostro piano, ti anticipo all’uscita dall’ascensore. Apro la porta e mi dirigo verso la cucina, per controllare se hai mangiato. Vedo tutto in ordine e la cosa mi fa impazzire di rabbia.
Non hai mangiato?” Ti chiedo urlando.
Raggiungi la cucina con tutta la calma del mondo. Mentre mantieni il tuo sguardo sul cellulare, mi dici di preparare due uova, che le mangi con un po’ di formaggio. Poi ti siedi a tavola, come se fosse la cosa più normale del mondo. Non ti sforzi neanche di prendere un fazzoletto o le posate. Ti metti comodo e aspetti che io ti serva, come hai fatto in tutti questi anni, come ho accettato di fare io dal giorno in cui ho accettato di diventare tua moglie. Fisso il forno e cerco di mantenere la calma, anche se l’unica cosa che vorrei fare è girarmi e tirarti qualcosa addosso. Ora devo anche prepararti la cena, perché non sei in grado di fare nulla in questa benedetta casa.

Prendo la padella, apro la bottiglia di olio e ne verso una quantità eccessiva, con tutto il nervoso che ho addosso. Poi rompo subito le uova e le butto in padella, senza aspettare che l’olio sia caldo. Resto in quella posizione, a fissare la padella, mentre tu accendi la televisione e non ti accorgi di nulla. Vorrei urlartelo, che questa è l’ultima volta, che dalle mie mani non mangerai più nulla, ma tengo il rospo dentro. Non devo rovinare il piano, se voglio che funzioni. Nel frattempo l’olio si è scaldato e le uova iniziano a cuocersi. Le guardo con impazienza, sperando di accelerare il processo. Dopo pochi minuti le tolgo dalla padella, anche se non sono esattamente pronte, ma tanto non te ne accorgerai. Ci butto sopra del sale con un movimento disinteressato, non curante di dove il sale finirà e le metto su un piatto troppo piccolo. Te lo porgo e mi muovo verso la direzione opposta, prima che tu l’abbia afferrato per bene. Per un secondo ho paura che possa cadere, ma non succede.

Percorro il corridoio per andare in camera da letto a prendere il pigiama. Incontro le foto di quella che è stata la nostra famiglia. Una foto, la più grande, attira la mia attenzione. Noi sul divano, pochi mesi dopo la nascita di Valon. Tu che tieni in braccio il piccolino, Albina seduta sulle mie ginocchia con addosso quello che era il suo vestito preferito, bianco con le rose rosse e Blerim, tutto fiero con la maglia dell’Inter, in mezzo a noi. Ridiamo, siamo felici. Mi sembra passata un’eternità. Quando abbiamo smesso di essere felici? Quando abbiamo capito che non avevamo più alcuna speranza di realizzare i nostri sogni? Quando abbiamo smesso di lottare? Un’aura di delusione e tristezza si impossessa della mia mente. Raggiungo la camera da letto, prendo il pigiama da sotto il cuscino e faccio il percorso inverso per raggiungere il bagno. Cammino più rapidamente, portando il mio sguardo verso il bianco scolorito delle mura per evitare di imbattermi in altre foto del nostro passato pieno di sogni e speranze. Entro in bagno e chiudo la porta con un gesto frettoloso. Mi spoglio, mi catapulto in doccia e finalmente provo la prima sensazione di benessere della giornata. L’acqua calda sulla mia tempia è paradisiaca. Resto così per un paio di minuti, prima che la mente mi riporti al piano di domani. Me ne andrò. Ti lascerò le carte per il divorzio da firmare sul tavolo della cucina. Non so come reagirai, non so che effetto ti farà questa notizia. Probabilmente andrai a cercarmi in Kosovo, ma non mi troverai. Neanche io so quale sarà la mia destinazione. Ho prenotato un taxi per domani mattina alle 10, quando tu sarai al lavoro. Gli chiederò di portarmi in aeroporto. Lì comprerò un biglietto per il primo volo disponibile. Non mi troverai mai più.

Prendo lo shampoo, lo verso sulla mano destra e poi inizio a spalmarlo sui capelli. Parto dalla fronte e vado verso la nuca. Così, in ripetizione, per un sacco di volte. Poi faccio andare di nuovo l’acqua, chiudo gli occhi e lascio che il getto tolga lo shampoo dalla testa, senza che io debba utilizzare le mani, che nel frattempo ho stretto una all’altra. La schiuma mi copre il viso e si mischia alle lacrime. Stringo le dita sempre più forte e il pianto diventa ancora più potente. Sento i battiti del cuore aumentare a dismisura, sul mio volto non percepisco più la schiuma, ma soltanto le lacrime. Non ho la forza per restare in piedi e così, appoggiandomi al muro – in maniera lenta e passiva – mi lascio scivolare giù. Continuo a piangere e a tenere le mani strette. Ora l’acqua mi colpisce all’altezza delle spalle. Mantengo gli occhi chiusi e mi domando come abbiamo fatto ad arrivare fino a questo punto. Volevamo vivere due vite, una in Italia e una in Kosovo. Abbiamo finito per non essere in grado di viverne neanche una. Abbiamo perso i nostri figli, il nostro matrimonio e anche il nostro paese. Siamo rimasti così ancorati all’idea che avevamo di esso, che ancora oggi continuiamo a cercarlo, ma il paese che abbiamo lasciato non esiste più. È cambiato tutto e sono cambiate anche le persone. L’estate scorsa hai passato tutto il viaggio di ritorno a lamentarti perché nessuno ti aveva invitato per una cena come si deve, perché i tuoi fratelli erano venuti a trovarci soltanto una volta, mentre i tuoi nipoti neanche una. Sono rimasta in silenzio tutto il tempo, mi sono resa conto che la tua mente e il tuo cuore sono ancora fermi a 25 anni fa.

Lascio che l’acqua continui a cadere sul mio corpo, non ho il coraggio di aprire gli occhi. Per un momento spero che, aprendoli, ogni cosa possa ritornare a quando eravamo felici e ci scattavamo le foto tutti insieme. A quando eravamo fatti di speranza. Ma sono cosciente che ora devo pensare alla mia, di felicità. I ragazzi sono indipendenti ormai e io non voglio continuare a essere la tua serva. Forse potrò essere felice da sola, in un altro paese. Forse sarà la volta buona. Proverò a fare come aveva scritto Pirandello. Me ne andrò, scapperò e proverò a vivere una vita nuova, una vita soltanto mia, a vivere per davvero. Se non altro, dell’Italia mi rimarranno i libri. Quelli che i nostri figli iniziarono a leggere e a portare in casa sin da piccoli. Provarono a indicarci la via, ma a noi interessava solo che diventassero come noi. Che si sposassero con qualcuno come noi. Così non avremmo dovuto vergognarci agli occhi dei nostri parenti. Ci hanno provato, a farceli leggere. Con me ci sono riusciti, ovviamente. Affamata come sono sempre stata di letteratura. Scoprire quella italiana è stato l’ossigeno che mi ha permesso di respirare in tutti questi anni. A te, invece, quei libri hanno sempre dato fastidio. Probabilmente Albina aveva ragione, saremmo dovuti restare in Kosovo, se il nostro obiettivo era soltanto quello di creare delle nostre fotocopie. Ma quello non era l’intento iniziale. Avevamo deciso di venire qui per essere felici, per creare una famiglia, qualcosa di soltanto nostro, qualcosa di diverso da quello che ci lasciavamo indietro, qualcosa che ci avrebbero invidiato tutti. Quelle persone dalle quali non vedevamo l’ora di allontanarci, per le quali poi abbiamo speso le estati sempre nello stesso posto e per le quali abbiamo dimenticato quali erano le nostre intenzioni. Il loro possibile giudizio ha condizionato la nostra vita e soltanto ora, dopo 25 anni, ci siamo accorti che a loro, di noi, non è mai fregato nulla. Ci sono stati vicini finché avevamo soldi da regalare. Quando li abbiamo finiti, si sono dimenticati di noi. Non siamo riusciti a fare niente in tutti questi anni. Abbiamo distrutto tutto quello che potevamo, abbiamo perso ogni cosa possibile, abbiamo fallito. Forse, ripensandoci, alla fine siamo stati il miglior esempio per i nostri figli. L’esempio da non seguire. Guardate quello che abbiamo fatto noi e fate il contrario.

Gezim Qadraku

3 pensieri riguardo “Ce ne andiamo in Italia (parte finale)

  1. Bellissimo racconto, complimenti!
    Uno spaccato sorprendente di una vita da migranti, con i suoi slanci, speranze e delusioni, con uno stile narrativo particolare, insolito; lascia un profondo senso di malinconia, ma così è la realtà che così bene evoca e descrive.

    "Mi piace"

Lascia un commento