Lunedì mattina

7.10, suona la sveglia, allungo il braccio per spegnerla. Ho il treno tra un’ora. Ho voglia di richiudere gli occhi ancora per qualche minuto, ho un’ora per fare colazione e vestirmi. Perché mi sveglio sempre così presto?
Perché sono uno di quelli che ha paura di arrivare sempre in ritardo, infatti mi rispondo da solo alle domande.
Mi alzo, non c’è nessuno a casa. Vado in bagno, mi sciacquo la faccia, mi guardo allo specchio. I capelli sono sempre più lunghi, non hanno più un perché. La barba è uno schifo, ho chiazze di peli qua e là, una merda. Dovrei darmi una sistemata ogni tanto, andare dal parrucchiere più spesso. Me lo ripeto sempre, ma ogni volta finisco per tornarci mesi dopo. Riscaldo il latte e il caffè, mamma mi ha lasciato una fetta di torta alle mele. Inizio a mangiarla, aspettando che il latte e il caffè si riscaldino. Faccio partire Einaudi sul cellulare, qualcosa che mi rilassi. Fuori diluvia, devo andare in università solo per due ore di lezione, sono indeciso se andarci o meno.
Verso prima il latte e poi il caffè, non li ho fatti riscaldare abbastanza, sono tiepidi. Dio santo che imbranato. Bevo tutto di fretta dal nervoso. Mi lavo i denti, torno in camera e mi metto la tuta che ho addosso da una settimana. Opto per una felpa bianca sopra. Non ho voglia di fare un cazzo la mattina, potrei dedicare più tempo anche ai vestiti, mi ripeto sempre anche questo, ma non lo faccio mai. Sono le 8.40, è ancora presto per uscire, ma sono già pronto. Ci metto dieci minuti ad arrivare in stazione. Ho venti minuti, non so cosa fare. Avrei potuto dormire, mi maledico. Guardo il cellulare, nessuna notifica, nessun messaggio, come al solito. Vado in cucina, accendo la tv e giro tutti i canali, ma non trovo niente di interessante. Si sono fatte le 8:52, esco. Sta diluviando ancora, piove in obliquo, sono appena uscito di casa e sono già fradicio. E’ proprio lunedì cazzo!
Arrivo in stazione, tutta la gente è sulle scale che portano al binario. Non salgo, rimango giù. Salirò quando arriverà il treno. Cerco di far passare il tempo cambiando le canzoni dell’ipod, mi fa tutto schifo oggi. Sento una mano che mi tocca la spalla sinistra, mi giro, è Giulia. Tolgo le cuffie e spengo l’ipod.
“Ciao Giulia”
“Ciao Ale, che giornataccia”
“Davvero, è Lunedì e diluvia. Peggio di così!”
“Vai in uni?”
“Sì, solo per due ore di lezione”
“Che sbatti, io ho la giornata piena”
“Come sei messa? Quanto ti manca?”
“Ho ancora tre esami, penso di laurearmi quest’estate, tu invece?”
“Io punto a dicembre, sono rimasto un po’ indietro quest’anno”
Lo speaker annuncia che il treno è in arrivo e appena conclude la frase, una voce femminile dà senso alla mia mattinata.
“Ciao Giulia, ciao Ale”
“Ciao Valeeee”
“Ccciao”
Si salutano, si baciano, iniziano a parlare. Sono bloccato, sono riuscito solamente a tirar fuori un misero ciao. Non so cosa fare, mi sento a disagio, quanto mi piace questa ragazza. Inizia a tremarmi il piede destro, cerco di nascondere il tutto facendo segno alle ragazze che il treno è arrivato; saliamo tutti e tre insieme. E’ pieno di gente, loro due salgono, ma neanche al piano superiore c’è posto. Si siedono sulle scale, mi siedo anche io. Sarà una mezz’ora di inferno. Continuano a parlare e io non riesco proprio a dire nulla, continuo a guardare altrove, vorrei semplicemente poter fissare Valentina. Dopo qualche fermata riesco a rilassarmi e ogni tanto entro nel discorso. Riesco a far sorridere Valentina, la cosa mi fa un effetto meraviglioso. Ci avviciniamo a Milano e avviene la tragedia. Giulia scende. Ci saluta e ci augura buona giornata. Ora sono solo, siamo io e Valentina.
Che cazzo faccio? Cosa le dico? Provo a chiederle dove scende.
“Scendo a Repubblica, tu?”
“Anche io” dovrei essere contento, invece vado ancora più in difficoltà. Mancano tre fermate, sarà un’agonia. Poi lei inizia a parlare, mi chiede cosa sto studiando e nasce miracolosamente un discorso. Quanto è bella, quanto è semplice. Si cura prima di uscire, non esagera, ma si vede che dedica del tempo a sé stessa. Sarebbe bella anche in pigiama comunque. Chissà cosa pensa lei di me, sto schifo di ragazzo con dei capelli senza senso che va in università con addosso una tuta che somiglia ad un pigiama. Mi maledico, mi rimprovero, vorrei tanto attirare la sua attenzione.
Intanto siamo arrivati a Repubblica.
“Scendi a Missori immagino”
“Esatto, tu invece?”
“Anche io, ho iniziato a lavorare per un ufficio vicino all’università”
Dannazione, altro tempo da passare con lei. Sono sempre più in difficoltà, è lei che tiene viva la conversazione. Lei fa domande, lei mi racconta la sua quotidianità. Ho controllato qualche giorno fa il suo profilo di Facebook, è tornata single. Potrebbe essere la mia occasione, potrei almeno farle capire che tutto sommato non sono un ragazzo così inutile come può sembrare, ma niente, è così bella che mi mette troppo in difficoltà.
“PROVACI, PROVACI, INVENTA QUALCOSA” continuo a ripetermi, ma è tutto inutile. Prendiamo la metro. Non parla più, si sarà stufata di conversare praticamente da sola. Tira fuori il cellulare, controlla le notifiche, sarà piena di messaggi. Non guardo il mio, non voglio sentirmi ancora più di merda. Guardo in giro, prego che il tempo scorra velocemente, ma sembra che la metro vada più lenta del solito. Arriva la nostra fermata, la faccio passare, almeno un gesto da gentiluomo, visto che non richiede parlare. Mi saluta e mi augura buona giornata. Se ne va, vestita della sua bellezza.
Adesso mi sento meglio, adesso sono tranquillo. Non ho fatto niente, me lo rimproverò per tutta la giornata.
Diluvia anche a Milano, apro l’ombrello, rimetto le cuffie e torno nel mio mondo solitario.
Ho avuto paura, come ne ho sempre avuta nella mia vita. Paura di vivere, paura di lasciarmi andare, paura di essere me stesso. D’altronde se ti lasci andare non puoi più tornare indietro, questa cosa ha sempre fatto sì che rimanessi fermo. Se le avessi chiesto di berci un caffè e mi avesse risposto di no? Sarebbe finita lì. Non avrei più avuto il coraggio di parlarle, avrei avuto il terrore di incontrarla in stazione e nel caso avrei dovuto evitarla. Penso sempre ad un futuro in cui le cose vanno male. Per questo mi accontento, perché ho paura di rischiare. Mi sembra che qualcuno abbia cantato “chi si accontenta gode”. Beh non ha capito niente. Chi si accontenta è infelice, chi si accontenta è debole. Io sono debole, io sono insicuro, io sono infelice. Ecco cosa potrei dare ad una donna, la mia insicurezza. Peccato che le donne cerchino la sicurezza negli uomini. Potrebbe essere un modo per rompere il ghiaccio.
“Hei ciao, ho tutta la mia insicurezza da offrirti”.

Gezim Qadraku.

L’usignolo di Kiev

7 le meraviglie del mondo. 7 i vizi capitali. 7 i colori dell’arcobaleno.
7 i colli di Roma. 7 i giorni della settimana. 7 le note musicali.
7 è il numero di maglia che ha indossato il protagonista di questa storia.
Andriy Shevchenko.
Nasce in un villaggio di 390 abitanti a 100 chilometri da Kiev, l’attuale capitale dell’Ucraina. Nel 1976 però non si parlava di Ucraina, ma di URSS. A soli tre anni si trasferisce a Kiev insieme alla sua famiglia, ma sei anni dopo sono costretti ad allontanarsi dalla città. A pochi chilometri da loro c’è stato il peggior incidente nucleare della storia, il disastro di Chernobyl.
Il suo futuro non prevedeva la possibilità di diventare un calciatore, il padre sognava per lui la carriera militare. Non fu facile per l’osservatore della Dinamo Kiev convincere il papà di Andriy che il bambino poteva realmente diventare qualcuno nel mondo del pallone. L’accordo riesce miracolosamente e il bambino veste la maglia bianco azzurra della squadra ucraina. Alla tenera età di quattordici anni si mette in mostra in Galles, disputa la coppa “Ian Rush”, vincendo il premio di capocannoniere della manifestazione. Riceve come premio le scarpe di Ian Rush, è proprio la stella gallese a consegnargliele.
Vince tre campionati nazionali di fila nei primi tre anni con la Dinamo Kiev, ma la svolta per la carriera del ragazzo arriva nella stagione 1997-98.
In panchina si siede il colonnello Valeriy Lobanovskyi. E’ grazie a lui se Shevchenko diventa quello che noi abbiamo potuto ammirare.
Avviene un cambiamento radicale nel modo di vivere il calcio per Andriy. Stop alle sigarette, allenamenti al limite dell’impossibile e l’insegnamento più importante, si vince e si perde tutti insieme.
Lo ricorda lo stesso Sheva: “Quando l’ho conosciuto pensavo tanto a me stesso nel gioco. Lui ha spiegato bene a tutti cosa vuol dire lavorare per un collettivo. Veramente, ha cambiato tantissimo la mia visione del calcio. Ci ha aiutato a capire che con la concentrazione, con la voglia, con il senso del gruppo, si può battere qualsiasi avversario, anche se è tanto più forte di te”.
Era un perfezionista Lobanovskyi e non lasciava nulla al caso, fu il primo ad utilizzare i computer negli allenamenti. Misurava l’attitudine, la reazione e la velocità dei suoi giocatori. Così capiva chi era adatto a giocare. Celebre la sua “salita della morte”, ripetute eseguite su una salita con una pendenza del 18%, chi non ce la faceva sapeva che si sarebbe seduto in panchina. Andriy ce la faceva sempre. Domandarono al colonnello “E se un giorno Shevchenko fosse stato più lento del dovuto in questi test?
La risposta fu al quanto chiara: “Allora non sarebbe stato Shevchenko”.
Non lo avrebbe scambiato neanche con Ronaldo, stiamo parlando del 1998, l’anno in cui il brasiliano giocava nell’Inter e distruggeva tutto quello che trovava davanti. Per Sheva il maestro è stato un secondo padre, non ha mai smesso di essergli riconoscente, neanche dopo la morte.
Quando il colonnello Lobanovskyi morì, per me fu terrificante. Era stato come un padre… Mi ha cresciuto, e mi ha fatto diventare quello che sono oggi. Tutti i trofei, li porteró sempre, sulla sua tomba. È giusto che sia così, perché sono il 50% suoi ed il 50% miei“.

man+lobanovsky

Andriy non ha mai avuto un vero e proprio talento, non è stato un Ronaldo o un Van Basten, lui è stato il frutto dei continui allenamenti, del duro lavoro, della sua perseveranza. Però un talento ce l’aveva, ed era quello di esaltarsi quando giocava contro le grandi. La prima volta che si esalta entra nella storia.
Barcellona – Dinamo Kiev 0 a 4. Tripletta di Shevchenko. Sarà così per tutta la sua carriera, quando c’era da giocare un big match Sheva diventava letale. Dopo cinque campionati consecutivi vinti in Ucraina e il titolo di capocannoniere della Champions League, insieme a Yorke, il ragazzo è pronto per fare il salto di qualità. Tutti lo vogliono, ma è il Milan a riuscire a portarselo a casa.
E’ Braida a vederlo dal vivo e ad innamorarsene, ed è grazie a lui che Andriy sbarca a Milano.
L’ucraino lo vidi giocare dal vivo e mi era piaciuto tantissimo, pensavo avesse una forza nelle gambe come Gullit. Poi lo andammo a vedere con Galliani e lui giocò male, tanto che Adriano mi disse: ‘Ma sei matto a volere prendere questo?’. Ma nessuno può giocare sempre bene, così riandai a Kiev e portai a Sheva una maglietta del Milan, dicendo ad un suo uomo di fiducia che con quella avrebbe vinto il Pallone d’Oro”.
I dubbi erano molti, nonostante il ragazzo avesse già dimostrato in un palcoscenico come quello della Champions le sue qualità. Il cambiamento era enorme, passare da Kiev a Milano non è semplice. Campionati completamente diversi, culture differenti e un livello, quello italiano, che non ha niente a che vedere con quello del calcio ucraino. La rigidità e la metodicità degli allenamenti di Lobanovskyi sono stati fondamentali per aiutare l’ucraino ad ambientarsi immediatamente al nostro calcio. I primi ad accorgersi che il ragazzo non avrebbe avuto alcuna difficoltà furono i suoi compagni di squadra, Costacurta in particolare.
Ricordo la prima settimana d’allenamento di sheva con noi. Nel giorno delle ripetute, alla fine di più di due ore e mezza ininterrotte di allenamento, ci stavamo dirigendo tutti negli spogliatoi. Andriy un po’ titubante e con un italiano zoppicante mi chiese : “Billy scusa quando inizia allenamenti?” Credevo che mi stesse prendendo per il culo, ma poi ho capito che diceva sul serio quando rimase altre due ore ad allenarsi da solo”.
Si presenta ai tifosi rossoneri segnando subito all’esordio in campionato contro il Lecce. Si laurea capocannoniere con 24 gol, l’ultimo ad iniziare così in Italia era stato un certo Platini. Eppure 24 gol per una seconda punta che parte da lontano e spesso da esterno sono tanti.
E’ una seconda punta con la mentalità da prima punta”. Questo il pensiero di Zaccheroni, il suo primo allenatore in rossonero. Ogni suo movimento è finalizzato al gol, si allarga, stringe verso il centro, attacca la profondità esclusivamente per fare gol. Unico pensiero fisso nella testa dell’ucraino.
Il Milan non sfrutta a pieno le reti di Sheva. Passano altri due anni, nei quali il diavolo non riesce a conquistare nessun trofeo. Poi la svolta, la stagione 2002/03. I rossoneri si rinforzano con l’arrivo di Nesta, Seedorf, Rivaldo e Tomasson (ottima prima riserva), per sheva però tutto si complica ad agosto, nel preliminare contro lo Slovan Liberec si infortuna al menisco. In campionato racimola qualche gol, ma in Europa dà il meglio di sé. Decisivo insieme ad Inzaghi nella gara al cardiopalma contro l’Ajax, decide il derby della morte in semifinale. Segna anche in finale, ma il gol viene annullato.
La gara finisce ai rigori e l’ultimo, quello decisivo, lo tira proprio Andriy. Un rigore dalla durata infinita, l’arbitro fischia, ma lui non sente, la sua testa continua a muoversi verso il dirigente di gara, poi chiede l’ok e parte. Buffon da una parte, palla dall’altra. Milan campione d’Europa.

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Quell’anno arriverà anche la coppa Italia e la Supercoppa Europea, uno a zero contro il Porto. Assist di Rui Costa e gol di Sheva, ovviamente.
L’anno successivo il Milan torna sul tetto d’Italia. Decisivo. Sempre. All’andata contro la Roma, partita che permette ai rossoneri di avvicinarsi ai giallorossi e al ritorno, nella gara decisiva per la conquista del tricolore. Assist di Kakà e gol di Sheva. Milan campione d’Italia.
Poi il calcio si ricorda di essere bastardo e toglie all’ucraino tutto ciò che gli ha dato. La stagione 2004/05 è quella che inizia dal pallone d’oro e finisce nella notte maledetta di Istanbul. Se l’azione della parata di Dudek sul tiro ravvicinato di Andriy accadesse altre novantanove volte, quella palla entrerebbe sempre. Invece quella volta gli dei del calcio salvarono il portiere polacco. L’ucraino è ancora decisivo nella lotteria dei calci di rigore, però nella versione opposta rispetto all’ultima volta. Il suo errore permette ai reds di laurearsi campioni d’Europa.
Nella sua ultima stagione  a Milano entra nella lista dei pochi calciatori in grado di segnare quattro gol in una partita di Champions League, la vittima dell’ucraino è il Fenerbache.
Il 2006 però è un anno storico per la sua Ucraina, che per la prima volta nella storia si qualifica ai mondiali. Il protagonista non può che essere lui, segna un terzo dei gol totali della nazionale nel girone di qualificazione. Gli ucraini superano il girone come secondi, agli ottavi sconfiggono la Svizzera ai calci di rigore, ma ai quarti di finale non possono fare altro che soccombere allo strapotere italiano.
Poi succede quello che nessun milanista avrebbe mai pensato. Sheva se ne va. Si presenta in curva sud, saluta i tifosi e cerca di autoconvincersi davanti ai giornalisti che andare a giocare in Inghilterra è quello che vuole.
La lingua inglese viene utilizzata come motivazione di questo trasferimento. E’ con questa decisione che l’ucraino si pregiudica il suo futuro. Al Chelsea sarà irriconoscibile, la velocità non è più quella di una volta, la sua facilità di integramento sparisce e sembra un pesce fuor d’acqua. Non combina praticamente niente che sia degno di nota in quelle due stagioni, rischia di vincere un’altra Champions League, ma sono i red devils ad avere la meglio ai calci di rigore, nella finale di Mosca. Non si presentò a ritirare la medaglia e fu definito dal quotidiano inglese “The sun”, il peggior affare di calciomercato della Premier League degli ultimi dieci anni. Un finale a luci spente, un ritorno al Milan che sa tanto di minestra riscaldata e cosa dice il proverbio lo sappiamo tutti. Un finale di carriera trascorso alla sua Dinamo Kiev, un addio passato senza lasciare traccia. Di certo i suoi figli ora sapranno anche parlare un ottimo inglese, ma questo non era il finale che si meritava Andriy Shevchenko. No, non doveva andare così.
La sua correttezza in campo è sempre stata esemplare, freddo, glaciale anche nel ricevere i tackle dei difensori, c’è un episodio nel quale Andriy ha mostrato tutto l’uomo che era. Nella sfida contro il Cagliari nella stagione 2004/05, a causa di uno scontro aereo con Loria si ruppe lo zigomo sinistro. Ecco le parole del “colpevole” di quell’infortunio:
Era un giocatore di una correttezza unica. Mai sentito lamentarsi con nessun avversario, eppure prendeva una quantità infinita di calci. Quel giorno per sbaglio, in uno scontro fortuito, gli procurai la frattura dello zigomo. Molti giocatori inveirono contro di me, per avergli praticamente sfasciato la faccia. Lui in tutta tranquillità, si rialzò e disse: tranquillo è tutto apposto, non è successo nulla” (Simone Loria).
Successe anche un altro fatto proprio mentre Andriy lasciava il campo, dopo aver dato il cambio a Tomasson si diresse verso gli spogliatoi, con un gesto di stizza gettò un tampone, mentre lo lanciò si accorse che il tampone era finito nella direzione del mister Ancellotti. L’ucraino si girò subito per chiedere scusa all’allenatore, perché il gesto visto ad una prima rapida occhiata poteva quasi far pensare che ce l’avesse con il mister.

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Un giocatore atipico. La sua dedizione, la tenacia nel perseguire l’obiettivo e la freddezza che gli scorreva nel sangue gli hanno permesso di essere un killer del gol. Il classico esempio che la fatica ripaga, guardavi Sheva all’inizio di una nuova stagione e ti sembrava di vedere un altro giocatore rispetto a qualche mese prima. Era un continuo miglioramento, non si accontentava mai.
Il duro lavoro, la cura dei dettagli, l’impegno su quello che sapeva fare meno bene  l’hanno portato ad essere un giocatore completo. Destro e sinistro quasi alla stessa maniera, i gol di testa, i tiri dalla distanza potenti e precisi. Le punizioni.
I rigori invece sono sempre stati un marchio di fabbrica. Il movimento del corpo ad ingannare il portiere. Molti dei suoi tiri dagli undici metri hanno avuto un finale felice, ma oltre ai palloni in rete il portiere veniva spesso ingannato. Si buttava dall’altra parte. Una cosa che rende il gol dal dischetto ancora più bello. Contando anche i due rigori delle finali di Champions l’ucraino ha calciato nella sua carriera 49 rigori, andando a segno 43 volte, solo sei gli errori. Una percentuale realizzativa dell’87,76%. Vanta inoltre il titolo di capocannoniere dei derby della Madonina, con ben 14 reti all’attivo.
La sua rapidità, la capacità di rubare il tempo all’avversario, la sua intelligenza nel trovarsi nel posto giusto al momento giusto, la sua bravura nel sapersi smarcare dai difensori; tutte caratteristiche che gli hanno permesso di essere un finalizzatore mostruoso.
Forse solo riguardando ora i suoi gol, si può capire il vero valore di Andriy. La facilità con la quale rendeva quasi scontate certe sue  finalizzazioni, sono la prova che stiamo parlando di un calciatore di altissimo livello.
Sarà difficile trovarne un altro come lui, così strano, così complesso, così decisivo.
Proprio come il canto dell’usignolo, fatto di toni chiari e forti, composto di strofe di toni singoli e doppi densamente allineati l’uno all’altro. Considerato tra i più belli e i più complicati.
“Non è brasiliano però/che gol/ che fa/. Il fenomeno lascialo là/qui c’è/Shevà”.

Gezim Qadraku.

Sul tram

La prossima è la mia fermata, sono in piedi vicino all’autista del tram. Sono su uno di quelli vecchi, di color arancione e con gli interni tutti marrone scuro. Quelli che quando l’autista frena, emettono un rumore al quanto fastidioso. Questi nello specifico, mi fanno provare nostalgia per un’epoca che non ho vissuto.
Non mi siedo mai, non vorrei inavvertitamente occupare il posto a qualche anziano.
Il tram è fermo, il semaforo è rosso. È un bel sabato invernale, un sole spavaldo squarcia il telo grigio che copre Milano. La mia attenzione viene rapita da una scena che accade di fronte ai miei occhi. Il semaforo dei pedoni è verde, una signora anziana parla con un ragazzo. Avrà la mia età, sta fumando una sigaretta, è vestito abbastanza bene.
Sorride alla donna e le porge il braccio, la aiuta ad attraversare le strisce pedonali. L’anziana è lenta, troppo per il ritmo milanese. I due non sono ancora arrivati a metà del tragitto, che il semaforo pedonale è diventato rosso. Scatta il verde per noi, il tram parte, ma a metà incrocio è costretto ad arrestarsi. La signora e il ragazzo sono in mezzo alla strada. Mi tolgo le cuffie dalle orecchie, non sento nessun clacson, anzi percepisco un silenzio che mi sembra surreale. Sono tutti fermi. Sembra che io non sia l’unico a seguire ogni passo di quei due. Dopo parecchi secondi la donna arriva finalmente al marciapiede, dà un bacio al ragazzo sulla guancia e si salutano. Lui butta la sigaretta e procede verso la sua destinazione sorridendo. Sembra che i due non si siano minimamente accorti di quello che hanno causato.
È un millesimo di secondo, dal silenzio assurdo si ritorna alla solita frenesia.
Il tram riparte, le macchine pure, Milano ricomincia a correre. Per un attimo tutto si era fermato, per un attimo tutti si erano concessi il lusso di respirare.
Tutto grazie ad un semplice gesto di cortesia

Gezim Qadraku.