Un bambino felice

“Ti ricordi la prima volta che hai provato la sensazione di felicità?”
“Certo che me la ricordo. Ero in quarta elementare, se non sbaglio era la fine di novembre, erano caduti i primi fiocchi di neve e iniziava a fare freddo. Quel giorno papà fu assunto in un’azienda che costruiva elicotteri. Una di quelle in cui se riesci ad entrare, poi non ne esci più e sei a posto per tutta la vita. Lo stabilimento era enorme, si trovava ad un’ora da casa, la notizia portò una gioia e una felicità che non avevamo mai provato prima. Da quando avevo iniziato la scuola papà non aveva mai avuto un posto fisso di lavoro, faceva qualche lavoretto ogni tanto, ma la maggior parte delle volte era a casa.
I soldi mancavano sempre, già a quell’età avevo capito che non potevo chiedere niente. Il frigorifero spesso era vuoto, se c’era qualcosa la maggior parte delle volte non mi piaceva, ma ero costretto a farmelo piacere. Quella sera inondai mio padre di domande. Continuavo a chiedergli cosa avrebbe dovuto fare,  com’erano gli elicotteri, se avrebbe potuto guidarne uno”.
“Cosa faceva?”
“Fu assunto nel reparto del controllo dimensionale, controllava le misure dei pezzi. Non ho mai saputo come diavolo fece ad entrare in quell’azienda. E’ passato un sacco di tempo, ma ricordo quel mese come se i fatti fossero accaduti ieri. Papà pian piano, iniziò a ricordarsi che la vita era fatta anche di sorrisi. Tornava a casa dal lavoro abbastanza stanco, ma entrava in casa sempre sorridendo. Raramente mi era capitato di vederlo felice, prima di quel momento. La consapevolezza di aver trovato un lavoro sicuro, di ricevere uno stipendio, portarono a lui e alla casa una sensazione di di pace, della quale avevamo proprio bisogno. Poi arrivò il periodo natalizio. Tutto era illuminato, il paese era pieno di decorazioni, a scuola preparavamo la recita, e io non vedevo l’ora che iniziassero le vacanze. Quando poi le vacanze arrivarono le maestre ci riempirono di compiti, come sempre.
Non avevo voglia di fare niente, volevo semplicemente assaporarmi quegli sprazzi di vita normale che ci stavano accadendo, volevo godermi i sorrisi dei miei genitori. Papà lavorò fino al 23 dicembre, me lo ricordo perché il giorno dopo era la vigilia.
Quella sera provai per la prima volta la sensazione di felicità. Ero in camera mia a guardare i cartoni, mamma era in sala che guardava una di quelle soap opera americane, nelle quali la gente finge di essere felice e di amarsi. Suonò il citofono, era papà.
Corsi ad aprirgli. Qualcosa dentro di me mi disse di uscire dalla porta ad aspettarlo, mentre saliva le scale. Non lo facevo mai, ma un presentimento mi convinse. Aveva in mano dei pacchi regalo, saliva le scale saltellando e urlando che era arrivato Babbo Natale. Iniziò l’ultima serie di scalini e io gli corsi incontro, gli saltai addosso, rischiammo entrambi di cadere. Tra quei pacchi c’era il mio regalo di natale.
“Stasera mangiamo la pizza” mi disse.
“Davvero? Giuramelo?”
“Te lo giuro”.
Ritornai su per le scale, entrai in casa correndo e urlando. Mamma all’inizio si spaventò, poi quando vide papà la sua faccia si dipinse di un sorriso enorme, infinito.
Lo abbracciò, prese i regali e li sistemò sotto quella specie di albero che avevamo cercato di fare. Era piccolo e abbastanza brutto, gli addobbi erano veramente pochi, ma non importava. Quella sera sembrava che qualcosa fosse cambiato.
“Mi hanno dato la tredicesima” disse mio padre a mia madre. Non sapevo cosa fosse e non mi interessava. Non vedevo l’ora di mangiarmi la pizza.
“Dai papà muoviti, chiama la pizzeria!!!!”
“Che pizza vuoi Samuel?”
“E che ne so? Quanti tipi di pizza esistono?”
Avevo 8 anni, non avevo mai mangiato una pizza.
“Ecco la lista Samuel, qui ci sono tutte le pizze. Guardala per bene e dimmi quale ti ispira di più”.
Sapevo solo che la pizza normale, senza nessun ingrediente, era la pizza margherita. Presi la lista, sulla copertina c’era disegnata una pizza appena sfornata e sullo sfondo un forno a legna.
“Ma come fai a ricordarti anche i dettagli?”
“Non le puoi dimenticare certe emozioni.
Iniziai a scorrere i nomi, ad un certo punto lessi “pizza americana : wurstel e patatine”.
Il fatto che una pizza si chiamasse così mi colpì e decisi di prenderla. Prima di dirlo a papà ebbi un momento di tentennamento. Mi ero dimenticato di guardare quanto costasse. Ripresi in mano la lista, prima di guardare il prezzo della pizza che avevo scelto, lessi quello della pizza margherita.  Solo dopo andai a controllare quanto costava la pizza americana. Volevo vedere quanto stavo facendo spendere in più a mio padre. Per fortuna la differenza era minima.
“Papà ho deciso, voglio la pizza americana”, mamma chiamò la pizzeria e ordinò.
Aspettammo circa una mezz’oretta, durante l’attesa mamma e papà mi raccontarono alcune delle loro avventure  più divertenti, di quando avevano la mia età. Ridemmo a squarciagola, come se qualcuno fino a quel momento ce lo avesse impedito. Poi finalmente squillò il citofono, era il ragazzo delle pizze. Per la prima volta sul nostro tavolo c’era qualcosa di colorato, di bello, di buono. Mi ricordo che cercai di gustarmi la pizza, ma dopo la prima fetta mangiata con calma, mi divorai le altre in un batter d’occhio. Finito di mangiare, ci spostammo nella nostra minuscola sala e decidemmo di guardare un film che davano in televisione.
Del film ricordo poco, passai tutta la sera a pregare che quella sensazione di felicità, di calma, di spensieratezza e quelle risate potessero durare per sempre”.

Gezim Qadraku.

El poeta del fùtbol

Questa storia è ambientata in Sud America, in Argentina per l’esattezza e narra di un calciatore che nella sua carriera ha vestito la maglia numero dieci e ha fatto con la palla, ciò che nessuno aveva mai fatto prima.
Questa è la storia del poeta del fùtbol, Juan Romàn Riquelme.

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Nasce a pane e pallone, come tantissimi bambini argentini. Ci mette poco a passare dalle partitelle di strada ai campi di calcio. Il trampolino di lancio per il ragazzo è la squadra degli Argentinos Juniors.
In Argentina tutti si sono accorti di quel ragazzo timido, taciturno, dai piedi vellutati. Viene soprannominato “el Mudo” e verrà chiamato così per tutta la sua carriera. Cresce sotto la pressione del padre, che dopo ogni partita gli fa notare tutti gli errori che ha commesso. Probabilmente questo incide sulla crescita del ragazzo e i risultati non tardano. Arrivano subito offerte importanti dalla capitale, entrambe le squadre di Buenos Aires offrono cifre alte per il ragazzo.
River o Boca?
No, non c’è neanche da porsela la domanda. Ha già scelto il padre, che solo all’idea di vedere il figlio giocare per il River sbotta e dice al ragazzo:
“se indosserai quella maglia non verrò più allo stadio a vederti giocare”.
Non poteva andare diversamente. Debutta in prima squadra nel momento peggiore possibile, quelli sono gli ultimi anni di Diego Armando Maradona al Boca, tornato in patria per finire la propria carriera. Romàn esordisce in prima squadra, segna anche dopo poche partite, ma passa gran parte del tempo in panchina.
Maradona lascia nel 1998 e da quel momento inizia la carriera di Riquelme. Si prende quel numero, il dieci, già pensante di suo, figuriamoci dopo che è stato indossato da quello che sarà per sempre, l’unico e inimitabile Diez. Dopo aver vinto sia il torneo di Apertura che di Clausura nel suo primo anno da protagonista, nella stagione successiva il ragazzo decide che è arrivata l’ora che il calcio mondiale si accorga della sua esistenza.
Opta per farsi notare quando gli occhi di tutto il mondo lo guardano.
Tokyo, 28 novembre 2000 finale della coppa intercontinentale. Il Boca Juniors si trova di fronte le maglie bianche dei Galacticos di Madrid. L’attenzione è tutta sul Real, che si presenta con gente come Casillas, Roberto Carlos, Hierro, Guti, Figo e Raul. Il risultato sembrerebbe già scritto, ma quella partita ha un unico protagonista.
El Mudo. Non segna, ma è ancora più decisivo di Palermo, autore di una doppietta nei primi cinque minuti della finale. Il secondo gol parte da un’invenzione del numero dieci, che pennella un lancio di quaranta metri, sfruttato alla perfezione da Palermo. Per il resto della gara delizia gli occhi di chi lo sta guardando con giocate sontuose, cambi di gioco, dribbling stretti, fa letteralmente impazzire il centrocampo madridista. Makélélé e McManaman non ci capiscono praticamente nulla per tutti i novanta minuti. Missione riuscita, dopo quella partita tutto il mondo si è accorto dell’esistenza di Riquelme.

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Resta ancora una stagione in Argentina, nella quale vince di nuovo la copa Libertadores e poi arriva l’inevitabile salto dell’oceano per venire a giocare in Europa, destinazione Barcellona. La stagione blaugrana non è quella che Romàn si era sognato, le cose non vanno per il verso giusto, il ragazzo non si trova a suo agio e Van Gaal di certo non gliele manda a dire.
“Con la palla al piede sei il miglior giocatore al mondo, senza ci fai giocare in dieci”.
El Mudo cerca fortuna altrove, non va troppo lontano, nella stagione successiva veste la maglia gialla del Villareal. Il Diez torna a fare cose degne di quel numero, si trova a suo agio, gioca bene e porta il sottomarino giallo dove mai era stato. Prima arriva il terzo posto in campionato, che permette l’accesso alla Champions League e l’anno seguente proprio in Europa sfiora il miracolo.
Purtroppo qualcosa va storto, nel momento in cui tutto il popolo amarillo pone la fiducia sul piede destro di Romàn, lui tradisce. Si fa parare il rigore nella semifinale contro l’Arsenal all’88 minuto. Il sogno svanisce sul più bello.
Qualche giorno dopo al Bernabeu un certo Zidane saluta i suoi tifosi e al fischio finale scambia la maglia proprio con Romàn.
“È un onore ritirarmi con la sua maglietta tra le mani”.
Il rapporto con Pellegrini si rompe e il Diez non può far altro che tornare a casa. Lì dove è sempre rimasto il suo cuore, su quella maglia azul y oro.
“La Bombonera sarà per sempre il giardino di casa mia”.
Non si limita a concludere la carriera, permette agli Xeneizes di tornare a vincere. Due titoli Apertura e una copa Libertadores. Forse questo è stato il miglior periodo della sua carriera. Davanti alla sua gente, con addosso la sua maglia. Si è sentito amato, e quando uno come lui sente l’amore della propria gente, risponde dando altrettanto amore.
Lo fa con capolavori come questo.

 

Se per il Boca il sentimento è stato immenso, quello per gli Argentinos Juniors forse lo è stato ancora di più. Torna nella squadra che lo ha lanciato con un obiettivo, riportarla in Primera Division.
Ci riesce e con questo ultimo miracolo saluta tutti.
Uno di altri tempi anche fuori dal campo, significative le sue dichiarazioni sul famoso tunnel di suola che fece ai danni di Yepes vicino alla linea del fallo laterale:
“In una partita del genere, un classico, eravamo sopra 3-0 e me ne sono uscito con quella cosa. Un altro al posto suo mi avrebbe fatto male, lui invece mi ha seguito lungo la fascia e mi ha chiuso in fallo laterale. È stato molto più uomo Yepes a reagire così, che io a fargli un tunnel in quella situazione”.
Le affermazioni di due mostri sacri come Ronaldo (il primo) e Iniesta, dimostrano come i suoi colleghi abbiano capito realmente il valore di Romàn.
“Si no te gusta Romàn, no te gusta el Fùtbol” ha detto il brasiliano.
Mentre lo spagnolo ha dichiarato che “Lionel Messi è il giocatore più forte del mondo, ma Riquelme è fuori concorso”.
E’ stato definito l’ultimo Diez,un tipo di giocatore che forse non vedremo più sui campi di calcio. Lui come Rui Costa o Zidane. Sarebbe fin troppo riduttivo definirlo trequartista, non si può descrivere Romàn tramite un ruolo in campo, lui dirigeva da qualsiasi posizione. L’importante era fargli arrivare palla poi ci pensava lui. Con il suo modo di fare introverso, la sua andatura lenta, il suo gioco fatto di tante pause e sprazzi di genio incomprensibili per noi comuni mortali. Il suo sguardo quasi perso nel vuoto, come se non si capacitasse del perché tutti intorno a lui corressero a perdi fiato. Lento sì, non discuto di ciò. Non aveva fretta di prendersi tutto il tempo che gli serviva per fare la giocata, la quale doveva essere quella più utile per la squadra, ma anche la più bella da far vedere al pubblico. Andava piano, per dare tempo a chi lo guardava di godersi lo spettacolo.
Creava arte utilizzando un pallone Romàn.

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Cosa faceva uscire da quei piedi?
Erano lettere d’amore verso gli spettatori le sue giocate.
A riguardare le immagini sembra che abbia giocato in un’epoca tutta sua, come se le partite in cui c’era lui fossero state disputate in un diverso arco temporale.  Avrei preferito vederlo in bianco e nero, perché quelle immagini senza colori, così distanti dai giorni nostri danno un accento leggendario ai protagonisti delle storie. Esattamente quello che è stato Romàn, una leggenda che ci ha mostrato come si accarezza quell’oggetto sferico che tanto amiamo. Era dotato di talmente tanta tecnica e rispettava così tanto il pallone, che gli si poteva perdonare tutto. Se c’era una cosa che tutti attendevano durante la partita, erano le punizioni di Riquelme, ci ha fatto vedere come si tirano i calci da fermo.
I suoi tiri erano poesie. Non erano punizioni forti, né con effetti strani, erano dichiarazioni d’amore verso il pubblico che si appoggiavano delicatamente alla rete, dove il portiere non poteva mai arrivare.
Anche in questa situazione decideva lui quando si poteva dare inizio allo spettacolo.
“L’arbitro fischia ma Riquelme non parte. È Román che decide quando si deve battere la punizione”. (Stefano Borghi)
Indescrivibile la doppietta contro il Cile, entrambi i gol arrivarono su punizione.

Se fossi argentino dedicherei alla mia ragazza le punizioni di Romàn.
Concludo con le parole di un poeta, un sudamericano come Riquelme. Penso che questo sia il modo più adatto per descrivere come si sente il mondo del calcio senza l’ultimo Diez.

“Una volta lui le aveva detto una cosa che lei non riusciva a concepire: gli amputati sentono dolori, crampi, solletico, alla gamba che non hanno più. Così si sentiva lei senza di lui, sentendolo là dove non c’era più”.
(Gabriel Garcia Marquez).

Gezim Qadraku.

La guardava

Erano sdraiati sul letto, entrambi nudi, le lenzuola coprivano poche parti dei loro corpi. Si scaldavano restando vicini, uno appiccicato all’altra. La testa di lei era appoggiata sul petto del ragazzo. Lei parlava, ma lui non l’ascoltava. Era perso nei suoi pensieri, nei suoi sogni, quelli nei quali lei ci era stata tante volte. Quante volte aveva solo desiderato di poter scambiare due parole con lei, quante volte la paura l’aveva bloccato, mai si sarebbe immaginato di ritrovarsi insieme a lei in un letto ad accarezzarle i capelli, dopo aver fatto l’amore.
“Era un sogno solo poter parlare con te”
“Io stavo solo aspettando che tu facessi il primo passo”
“Non riuscivo a fare altro che guardarti”
Aveva passato un periodo lunghissimo ad osservarla, aveva sempre cercato quegli occhi e li aveva sempre trovati.
L’aveva guardata, come gli uomini avevano sempre osservato la luna.
Come qualcosa di irraggiungibile.

Gezim Qadraku.

23 anni

Ho ventitré anni.
Alcuni miei coetanei si sono già sposati e hanno avuto un figlio. La maggior parte degli altri invece condivide la propria vita con un’altra persona e sta solo aspettando il momento più opportuno per fare il passo importante. Io invece sono da solo, io che alle cene di famiglia devo sempre subire la stessa domanda dai parenti, “allora ti vedi con qualcuno?”.
Manco fossi afflitto da una malattia strana che mi impedisce di avere delle relazioni.
Ho ventitré anni e passo la mia vita a leggere, a preparare esami a cercare di capire cosa voglio fare da grande. Si lo so dovrei già sapere cosa fare una volta finiti gli studi, in realtà non faccio altro che cambiare idea ogni giorno che passa. Allora uso come scusa la frase del film The Big Kahuna:
“Non sentirti in colpa se non sai cosa fare della tua vita, le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita, i quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno”.
Sono uno di quelli che una volta finiti gli studi partirebbe con lo zaino in spalla per girare il mondo. Questo sì che potrebbe essere un ottimo lavoro, girare per il mondo a caso. Senza un obiettivo. Vallo a spiegare a genitori e parenti che il tuo sogno non è avere una casa, sposarsi, fare figli, avere una vita tranquilla. Se provi solo a tirar fuori il discorso vieni etichettato come quello strano, pazzo, quello che non sa cosa fare della sua vita, quello poco maturo, quello che non ha voglia di lavorare, quello che studia così tanto da diventare scemo.
Ho ventitré anni e per ora ho solo fatto qualche lavoretto casuale, per cercare di avere una sorta di indipendenza e non diventare un peso per i miei genitori. Comodi i soldi, non portano la felicità, ma rendono la quotidianità meno pesante. Nonostante questo l’idea di fare per anni la stessa cosa cinque giorni alla settimana, mi fa venire nausea e paura.
Ho ventitré anni e le certezze mi fanno paura, anche se forse qualche certezza vorrei anche averla.
Ho ventitré anni e mi rifugio nei romanzi, con la speranza di trovare, tra le righe di Dostoevskij o Bukowski, un’idea su quello che potrò diventare da grande.
Ho ventitré anni e la sera sto a casa volentieri a guardarmi una puntata della serie televisiva del momento. I miei idoli sono Heisenberg (Bryan Cranston in breaking bad) e Rustin Spencer (Matthew McCounaghey in True Detective).  Ormai in discoteca ci sono i ragazzini che mi sembrano così piccoli e il mio corpo inizia a mandarmi segnali per farmi restare a casa la sera, invece che metterlo alla prova con alcool e orari strambi.
A furia di guardarmi serie televisive il mio prototipo di donna è diventato Meredith Grey (protagonista di Grey’s Anatomy). Il mio unico interesse in questo momento è l’inizio della seconda stagione di Better Call Saul.
Ho ventitré anni e ho scoperto che l’alcool, preso in dosi accettabili, può diventare un ottimo compagno di vita.
Ho ventitré anni, ho conosciuto l’amore e porto sul cuore le ferite. Conosciamo persone diverse ogni giorno, qualche mattina ci svegliamo in un letto che non è il nostro chiedendoci dove diavolo siamo finiti, poi giriamo la testa e colleghiamo che quello è stato l’ennesimo fine serata concluso in un letto di una persona sconosciuta fino a qualche ora prima. Abbiamo avuto tutti un unico vero amore e nonostante facciamo di tutto, faremo fatica a dimenticarcelo.
Ho ventitré anni e ho mandato a fanculo le diete e lo specchio, ho capito che se c’è qualcuno che mi vuole dovrà accontentarsi di quello che sono.
Ho ventitré anni e ho avuto la fortuna di crescere con pochissima tecnologia, mi rendo conto di quanto l’adolescenza delle generazioni future sia triste.
Bambini di dieci anni si aggirano intorno a me con la testa già fissa sullo lo schermo e il cervello completamente perso.
Ho ventitré anni e faccio parte della generazione di mezzo, ovvero quelli che hanno utilizzato la tecnologia per primi e ora cercano di usarla in maniera parsimoniosa. Rido di fronte all’incapacità dei miei genitori nell’utilizzare le app e piango guardando bambini smanettare sul computer meglio di me.
Ho ventitré anni, sono cambiate tante cose dai tempi delle superiori; con qualche vecchio amico non ci si saluta più, qualche amico è rimasto, qualcun altro ha deciso di spostarsi, di andarsene in un altro paese. Allora ti fermi e rifletti, ti ritornano in mente le parole dei tuoi genitori
“goditi la vita, perché ogni momento è unico e non torna più”.
Ripensi a tutti i momenti passati con l’amico che ora vive a migliaia di chilometri da te e ti chiedi se te li sei goduti abbastanza, se avresti potuto vederlo più spesso quando abitava dall’altra parte della strada, se ne valeva la pena tenergli il muso per qualche sciocchezza che aveva fatto.
Ti perdi in questi pensieri, ma arrivi alla conclusione che se non vedi l’ora di sentirlo o di vederlo, allora nonostante quei chilometri l’amicizia c’è ancora e forse ci sarà per sempre, nonostante la distanza, nonostante i problemi quotidiani, nonostante tutto l’amicizia resta e questo ti permette di fare sonni abbastanza tranquilli.
Ho ventitré anni, non seguo nessun modello non voglio assomigliare a nessuno, vorrei uscire di casa il prima possibile, vorrei rendermi indipendente, vorrei fare qualcosa della mia vita, ma non so cosa.
Ho ventitré anni, non ho le idee chiare, ma sono uno di quelli coi quali una semplice birra al bar in una sera di metà settimana può rivelarsi molto più interessante di quanto potreste immaginarvi.
Ho ventitré anni e non ho nessuna voglia di crescere.

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Gezim Qadraku.