Al ristorante

Il cameriere chiese ai due cosa volessero da bere.
“Che vino vuoi amore?”
“E’ indifferente”, rispose lei senza un minimo di interesse.
Quell’atteggiamento fece arrabbiare Riccardo. Si presentava, ancora una volta, la solita situazione. L’incapacità di Amina nel prendere una decisione.
Era la loro prima cena da coppia. Stavano insieme da un paio di mesi, ma questa caratteristica caratteriale della ragazza era subito saltata all’occhio di lui. Si conoscevano ancora poco, e lei non era una di quelle persone che condividono immediatamente i propri segreti. A differenza di Riccardo, che dopo pochi giorni le aveva raccontato quasi tutta la sua vita. Era una ragazza silenziosa lei, quel tipo di persona che ha sofferto molto nella vita, e ha superato le difficoltà da sola, senza dover chiedere aiuto a nessuno. Atteggiamento caratteristico di molti, quello di chiedere il sostegno degli altri quando si trovano in difficoltà. Lei invece era convinta che non bisogna appoggiarsi a qualcuno quando non si sta bene, perché se la persona in questione ad un certo punto decide di andarsene, poi come si fa?
Succede spesso. Le persone se ne vanno e ti lasciano lì, da solo, con i tuoi guai.
Il ragazzo rimase in silenzio per più di un minuto, cercando di contenere la sua rabbia, mentre lei continuava a non guardarlo. Girava e rigirava le pagine del menù.
L’aveva avvertito appena si erano conosciuti che non era il tipo di persona che fa questo genere di cose. A lei non interessavano le cene o i posti di gala. Era una di quelle ragazze che preferiscono una scatola di gelato davanti alla serie tv del momento, per festeggiare l’anniversario. Lui non ne aveva voluto sapere e l’aveva portata in uno dei migliori ristoranti della città.
“Possibile che non scegli mai? Non ti può sempre andare bene ogni cosa!”
“Sì invece”.
“NO INVECE.
NON FAI MAI UNA SCELTA.
DICI SEMPRE CHE TI VA BENE TUTTO. E’ SEMPRE INDIFFERENTE PER TE.
NON E’ POSSIBILE!!”.
Riccardo non era riuscito a contenere la sua ira. La ragazza smise di leggere il menù, avvicinò la sedia al tavolo e iniziò a parlare, fissando Riccardo.
“Non ho mai avuto la possibilità di scegliere, perché non ho mai avuto niente nella mia vita. Da piccola qualsiasi cosa c’era nel frigorifero andava bene. E se per caso non mi piaceva, dovevo farmela piacere. A papà è stata amputata una gamba quando avevo solo tre anni. Lui non poté più lavorare da quel momento. Mamma cuciva i vestiti dei nostri amici quando raramente glieli portavano. Avrebbe potuto fare la sarta, ma non abbiamo mai avuto i soldi per aprire un negozio.
Luka aveva iniziato a fare qualche lavoretto qua e là, portava sempre qualche soldo a casa. Mamma aveva paura che prendesse qualche giro strano. Andava lui a comprare il cibo, o meglio, quello che potevamo permetterci con quei soldi, in tempo di guerra. Le uova erano il prodotto che costava di meno. Acqua ed elettricità diventarono un lusso in quel periodo, quindi mamma, nei brevi momenti in cui c’erano sia acqua che elettricità, ci preparava grosse porzioni di cibo, in modo tale da averlo pronto per giorni. Capitava che mangiassimo uova per una settimana intera. Si raffreddavano, ma era comunque un miracolo trovare qualcosa nel piatto all’ora di cena. Non abbiamo mai avuto niente noi.
Sono nata povera, ho rischiato di morire povera, ma il destino ha deciso diversamente. Per me vivere ha sempre significato soffrire e non avere quello di cui avevo bisogno. Ho smesso di sognare nel momento in cui ho iniziato ad andare a scuola. Non era consigliabile farlo, meno sognavi e più la tua vita era semplice. La realtà, vera e cruda, mi è stata gettata addosso sin da piccola. I sogni non si realizzano, il mondo è un posto ostile dove chiunque è pronto farti cadere. Aspettavo Babbo Natale quell’inverno, ma arrivarono solo bombe. Un centinaio, ogni giorno. Fu così per più di tre anni. Smisi di andare a scuola, passavo le giornate a contare le esplosioni. Poi fummo costretti a scappare, a rifugiarci nei boschi. Del cibo non c’era più traccia, così non ci rimase altra scelta che iniziare a mangiare la colla dei cartelloni pubblicitari e le ortiche. Questo è stato il mio pasto per alcuni mesi.
Sono sopravvissuta alla guerra e mi hanno portata qui. Avevo solo dodici anni e sono cresciuta in mezzo a persone che nel weekend andavano a mangiare caviale e Champagne. Io non sapevo manco cosa fosse il caviale.
Quindi avere tutto e poter scegliere, sono delle novità per me. Non riesco ad abituarmici. Non riesco a preferire una cosa rispetto ad un’altra, e non sarò mai in grado di lamentarmi.
Ogni situazione che vivo è migliore di quelle in cui sono cresciuta.
Non me ne frega proprio un cazzo del vino. Bianco,rosso o rosè, scegli quello che preferisci. Pure il vino è una novità. Sono cresciuta con l’idea che l’alcool fosse una cosa da ricchi, e io sono sempre stata povera”.

Il ragazzo dalla pelle nerazzurra

L’ho odiato.
Sì, mi vergogno a dirlo ma ho odiato Javier Zanetti.
Sono milanista e sin da bambino la squadra rivale per eccellenza è stata l’Inter, come è normale che sia. Loro, i nemici di sempre. Quelli della stessa città, quelli del derby, quelli contro cui non si può perdere.
Ne sono passati di anni, quante stracittadine, vittorie, sconfitte, sfottò. Ogni stagione qualche giocatore diverso, sia da una parte che dall’altra.
Una cosa non è mai cambiata in tutto questo tempo, lui, il numero 4 dei rivali, il loro capitano, Javier Zanetti.
L’ho odiato perché era l’unico del quale mi preoccupavo. Ne hanno avuti di calciatori forti, Ronaldo, Adriano, Ibrahimovic e tanti altri. Ma con gente del genere puoi sempre sperare che non siano in giornata. Con Zanetti no, Zanetti era sempre in giornata, Zanetti non sbagliava mai una partita.
Quando ero piccolo la battuta nei confronti degli interisti era sempre la stessa:
“non vincete mai”.
Ci fu un periodo in cui il Milan dominò nettamente nei derby, dal 0-6, alle vittorie in Champions. Lui era sempre lì, l’ultimo ad arrendersi, quello che riusciva sempre a mettere in difficoltà i miei idoli.
Passavano le stagioni e iniziavo a chiedermi perché non se andasse.

“Perché rimane?  Non vincono mai niente!”

Non capivo, non potevo ancora capire. Crescendo l’odio è svanito e ha lasciato spazio prima al rispetto, poi all’ammirazione. Il calcio è cambiato molto negli ultimi anni. Tanti soldi, cifre incredibili per i cartellini dei calciatori, si sta trasformando in business, la partita in sé sta diventando quasi superflua, le bandiere non esistono più. Le ultime rimaste a breve appenderanno le scarpe al chiodo. Sono ancora giovane, ma quando parlo di calcio mi capita spesso di parlarne al passato. Di ricordare com’era prima, che giocatori c’erano, le sfide memorabili, i capitani di una volta.
Lui è sempre nei discorsi. Lui, il nemico odiato.

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L’avversario più difficile che abbia mai incontrato è stato Javier Zanetti. Lo incontrai per la prima volta nel ’99, ai quarti di Champions. Lui terzino destro, io ala sinistra. M’impressionò per le sue qualità: rapido, potente, intelligente, esperto. Ci ho giocato contro altre due volte. È stato l’avversario più duro in assoluto. Un campione completo.
(Ryan Giggs)

Lui c’è sempre stato, ha difeso per 19 anni i colori della sua pelle. Eppure non aveva le caratteristiche per diventare una bandiera, nato in Argentina e arrivato a Milano che aveva ventidue anni. Sarebbe potuto essere uno dei tanti giocatori sudamericani che girano l’Europa. No, lui è stato l’eccezione. Lui si è ambientato subito, si è innamorato di quella maglia e l’ha difesa. Una coppa Uefa all’inizio, poi per molti anni niente. Sconfitte pesanti, delusioni dure da mandare giù e una squadra mai all’altezza.
Lui sempre lì, con la fascia al braccio a combattere.

“No, non se ne va. Resterà all’Inter a vita, ma perché lo fa?”

Poi poco a poco le cose sono iniziate a girare per il verso giusto, sono arrivati i campionati e poi la stagione che si meritava uno come lui. Il triplete, vinto alla Inter, soffrendo come solo loro sono capaci di fare. Avrebbe meritato di vincere tutto ogni stagione.
Non sono più riuscito ad odiarlo, sono cresciuto e ho capito quanto avrei dovuto imparare da uno così. Gli anni passavano e lui, nonostante l’età avanzasse, continuava ad essere il nemico che nei derby mollava solo dopo il fischio finale.
Impossibili da dimenticare le sue galoppate solitarie, con le quali attraversava tutto il campo, lasciando le briciole agli avversari. Ma Zanetti non è stato solo questo, sapeva fare tutto, ha giocato in quasi tutti i ruoli possibili. Difendeva, attaccava, contrastava, scartava, segnava. Probabilmente sarebbe riuscito a fare anche il portiere o la prima punta.
Zanetti si allenava fuori dall’aeroporto, mentre aspettava il volo dei suoi amici.
Zanetti si arrabbiava con la moglie, se nell’hotel in cui avrebbero passato le vacanze non c’era la palestra.
Zanetti si allenava anche il giorno del suo matrimonio.
No, non diventi Zanetti per caso.
Ormai era chiaro che avrebbe salutato tutti con addosso quella maglia, anche se il suo corpo decise di fargli un brutto scherzo a pochi metri dall’arrivo.
Zanetti infortunato. Assurdo, impossibile, lui? Con quel corpo?
Eppure sì, una domenica come tante, a Palermo si ruppe il tendine d’achille. Fine carriera a rischio dicevano in molti. No, non sarebbe finita con lui a terra dolorante, non poteva finire così e infatti non è andata così.
Si è rialzato, ha abbassato la testa e si è messo al lavoro.
Come ha sempre fatto, da quel 13 maggio del 1995, quando nessuno poteva lontanamente immaginare cosa avrebbe fatto quel ragazzo dalla faccia pulita.
Qualcuno invece ci mise poco a capirlo.

Primissimo allenamento, facciamo possesso palla. Lui non la perde mai, gli resta sempre incollata al piede. Quel giorno pensai che avrebbe fatto la storia dell’Inter.
(Giuseppe Bergomi)

Allenamento, sacrificio, correttezza e amore per la maglia. Sempre, in ogni partita, dalla più inutile alla più importante. Ogni tanto mi immaginavo i discorsi dei padri ai figli nelle case nerazzurre:.
“Guarda come si comporta il capitano figliolo, così si comporta un uomo”.
Non dev’essere stato difficile educare i figli per i padri interisti, ogni domenica Zanetti rendeva il loro lavoro più facile. Un esempio, dentro e fuori dal campo.

 

Spain Soccer Champions League Final
during the Champions League final soccer match between Bayern Munich and Inter Milan at the Santiago Bernabeu stadium in Madrid, Saturday May 22, 2010. (AP Photo/Antonio Calanni)

Ha sconfitto anche l’infortunio. E’ tornato come prima, la fascia al braccio e il 4 sulle spalle. Doveva realizzare il suo sogno, terminare la carriera con quei colori.
Diciannove anni dopo, quasi lo stesso giorno dell’arrivo, il mio odiato nemico ha giocato la sua ultima partita. Di tutto mi sarei immaginato tranne che di essere triste in quel momento. Finalmente lasciava, finalmente nei derby non ci sarebbe stato l’ostacolo insormontabile. Ero triste perché se ne andava un altro pezzo del calcio con il quale sono cresciuto. Un calcio fatto di valori, di capitani che hanno dato tutto per la loro maglia, di uomini che non si sono fatti comprare dai soldi.
Il mio odiato nemico è stato uno di questi. Sarei andato a San Siro a cercare di convincerlo quella sera.

“Capitano è proprio sicuro?”

Sì, a Zanetti bisogna dare del Lei. Solo ora ho capito perché non se ne voleva andare, perché è rimasto anche quando non vinceva niente, perché non ha mai tradito quella maglia. Si chiama amore, quello che questo uomo ha dimostrato ogni partita.
Per me rimarrà sempre il ragazzo dalla pelle nerazzurra, il ragazzo  che quando segnava esultava come un tifoso. Nella sua autobiografia ha spiegato cosa significa essere un tifoso nerazzurro:

Il tifoso interista è abituato a soffrire ma non molla mai, non abbandona mai la barca nel momento del bisogno. Il tifoso interista è un’innamorato cronico, un passionale, un sanguigno. Ha un carattere argentino.. È fedele, appassionato, nel bene e nel male. Ma è anche esigente, così come brillante, intelligente e ironico.

 

Gezim Qadraku.

Come stai?

Siamo rimasti in contatto, o meglio, io non ce l’ho fatta  a cancellare il suo numero. Ho trascorso i primi tempi a seguirla su Facebook, peggio di uno stalker. Poi sono passato alla fase, ti tengo tra gli amici, ma deseleziono l’opzione “segui”, almeno non vedo ogni cosa che fai.
Solitamente ci sentiamo per le feste, Natale, Pasqua e ai nostri compleanni. Io le mando gli auguri e lei risponde. Messaggi brevi, senza punteggiatura o faccine. Freddi, io perché cerco di nascondere quello che provo, mentre lei risponde solamente perché è gentile.
Passa il tempo e  mi chiedo perché continuo questa imbarazzante commedia, dove voglio arrivare comportandomi così?
Nulla me la riporterà indietro, anzi, non faccio altro che farle capire che io non riesco proprio a voltare pagina.
Sono a tavola, mamma e papà commentano il telegiornale, squilla il cellulare. Lo tiro fuori dalla tasca, è una chiamata. “Lei”, l’ho salvata così.
Una delle regole di casa è quella di non utilizzare il telefono mentre si mangia, me ne fotto. Mi alzo, esco dalla cucina e rispondo. Sento la voce di mia madre che prova a rimproverarmi. Ho quasi trent’anni, guarda te come sono conciato.
“Hei”
“Hei ciaoo, come stai? Ti disturbo?”

Sì che ti sta disturbando, è orario di cena dovrebbe saperlo.

“No no figurati, tutto bene grazie. Tu? Successo qualcosa?”

Ma perché ti preoccupi subito? Perché sei già pronto a correrle in aiuto? Perché?

“No no, tutto bene tranquillo”

Che cazzo vuoi allora?

“Che strano”
“Cosa?”
“La tua voce, non mi aspettavo una telefonata”

Ovvio che non te l’aspettavi idiota, sono passati sei anni e lei si è rifatta una vita, a differenza tua.

“Già, sono passati tanti anni”
“Sei”

Bravo, già che ci sei dille anche qual era la data del vostro anniversario.

Esatto”
“Allora che mi racconti?”
“Maa, niente di che. Solita vita, con Alessandro va tutto bene, il lavoro pure. Tu invece?”

Diglielo che tu vai di merda, diglielo che non fai altro che pensare a lei, diglielo che un giorno sì e uno no sei sul suo profilo, diglielo che in fondo ci speri ancora.

“La solita routine anche io. Lavoro, casa e qualche serata con i soliti amici”

Esatto, la stessa merda da quando vi siete lasciati. Un’altra donna manco per sbaglio.

“Dai non dirmi che non ti vedi con nessuna”

Sorride la stronza, lo sa che sei uno sfigato. Ora mi raccomando, faglielo capire che non vedi una vagina da anni.

“Emm, no. Ecco, cioè. Sì, cioè con una. Si ma niente di che”

Ottimo lavoro, non c’era miglior modo per farglielo capire.

“In realtà una cosa dovrei dirtela”

Tranquillo non farti prendere dal panico, non vuole tornare da te. Rilassati pure.

“Dimmi tutto”
“Io e Alessandro abbiamo scelto la data del nostro matrimonio. Il 19 luglio. Mancano solo due mesi lo so, ma ero indecisa se dirtelo o meno ecco. Perché in fondo mi farebbe piacere se tu venissi”

Mandala a fanculo, te lo sta offrendo su un piatto d’argento. Fallo, è arrivato il tuo momento. Fai l’uomo, mostrale chi sei. Non può comportarsi così, non può invitarti al suo matrimonio. Non si fa, non è corretto. Urlare addosso, dille tutto quello che ti passa per la testa. Non te ne pentirai, è arrivato il momento di metterci una pietra sopra. Fallo e basta. DAI.

“Ti ringrazio per l’invito, mi fa piacere davvero”

NO NO NO, NON COSI’, NON PUOI DARGLIELA VINTA ANCORA. DILLE CHE TI FA PIACERE MA CHE NON CI ANDRAI, DIGLIELO.

“Farò il possibile per esserci”
“Sei davvero gentile, dai allora fammi sapere. Ora ti saluto che devo andare, mi ha fatto piacere sentirti”
“Anche a me davvero, ci sentiamo. Ciao ciao”

Bravo coglione, bravo!

Torno in cucina, mamma mi guarda male. Non faccio in tempo a sedermi che inizia ad urlarmi contro.
“Da quando ci si alza da tavola? E’ Gianluca?”
“Dai Paola, avrà avuto i suoi buoni motivi”
“No, niente buoni motivi. Non abbiamo mai risposto ai cellulari a tavola”
“Se lo ha fatto…”
“Non doveva farlo. Almeno dicci chi era di così importante!!”
“Era Sara. A luglio si sposa con Alessandro. Mi ha invitato al matrimonio”
Il silenzio piomba sulla cucina, mamma non urla più, papà fissa il piatto.
“Scusate, ma non ho più fame”. 

Gezim Qadraku.

11/9

“Cosa stavi facendo l’11 settembre?”

Una domanda che tutti ci siamo sentiti rivolgere.
Ero in cucina, stavo guardando la melevisione su rai 3. I cartoni di quel programma erano un rituale che nessuno poteva permettersi di togliermi. Avevo 8 anni, mancavano pochi giorni all’inizio della scuola e mi stavo godendo gli ultimi giorni di libertà. Sarei dovuto essere in camera a fare i compiti,ma la scuola, per molti anni della mia vita, è sempre arrivata dopo tutto il resto.
All’improvviso quelli della televisione si permisero di farmi uno sgarbo che provocò in me una rabbia enorme. Il programma venne interrotto per dare spazio all’edizione straordinaria del Tg.
La prima immagine che vidi, fu quella della torre in fiamme. Istintivamente pensai ad un incidente, in quei secondi mi chiesi come il pilota fosse riuscito a centrare in pieno l’edificio.
Passarono pochi minuti, prima che le immagini riuscirono a farmi capire che c’era qualcosa che non andava. Vidi in diretta il secondo aereo e solo in quel momento rimasi con la bocca spalancata. Non potevano essere due incidenti, stava succedendo qualcosa. I giornalisti parlavano, ma nel mio cervello c’era un silenzio assordante e riuscivo a captare soltanto le immagini.
Mi alzai dalla sedia per andare da mia madre, lei aveva fatto lo stesso e ci incontrammo in corridoio. Non ricordo quali furono i discorsi in casa quei giorni, in quel periodo nella mia testa c’era soltanto un vuoto assurdo. Gli avvenimenti inspiegabili, le guerre, le morti le studiavo a scuola nei libri di storia, convinto che fossero irripetibili. Erano accadute nel passato e non ci sarebbero mai più stati eventi simili.
Mi sbagliavo, me ne sarei reso conto crescendo.
L’11/9 è l’inizio del cambiamento. Niente è più stato lo stesso. Il nemico mondiale è cambiato, prima era il comunista ora è l’uomo di colore che crede in Allah.
Gli atti di terrorismo sono diventati una costante della nostra esistenza. La colpa la diamo a prescindere al nemico. Non siamo più così sicuri a viaggiare, certi paesi sono diventati mete pericolose. Abbiamo accettato di essere controllati, perché abbiamo paura e siamo convinti che questo controllo sia sinonimo di sicurezza.

“meglio non vivere una super felicità, se ti controllano come un computer con facilità”

Canta Rancore, in una delle canzoni rap italiane più belle che io abbia mai ascoltato.
Il tema del controllo mi porta alla mente 1984 di Orwell.
Incredibile come lo scrittore britannico sia riuscito a descrivere il mondo di oggi. Un mondo dove si vive sotto l’occhio vigile delle telecamere e dove si è sempre in guerra. Tanto che la maggior parte delle persone ogni tanto fatica a capire chi sia il buono e chi sia il cattivo.
La base degli interventi militari da quindici anni a questa parte è sempre la stessa, la lotta al terrorismo. La ricerca di armi di distruzione di massa (mai trovate, vi consiglio il film green zone), la volontà di esportare la democrazia nei paesi dei nemici, tutto per un mondo migliore. A rimetterci sono stati i civili, gli innocenti, come sempre.  A partire dal crollo delle torri gemelle fino ad oggi, con la guerra infinita in Siria.
Sono passati quindici anni, faceva caldo, guardavo i cartoni e la televisione decise di cambiare per sempre la mia vita.

Gezim Qadraku.

Il Kosovo esiste!

5-9-2016, un altro pezzo di storia per il Kosovo.
La prima, storica, partita ufficiale per la nazionale di calcio kosovara.
Ho dovuto aspettare ventitré anni per poter guardare la mia nazionale.
Avrei voluto essere lì, in Finlandia, con addosso quella maglia. L’ho sognato sin da quando ho iniziato a tirare i calci al pallone. Tutti sognano di diventare professionisti, di giocare per la propria squadra del cuore e difendere i colori della propria nazione.
Per me è stato diverso. Prima di tutto io mi sono sempre sentito diverso, come ogni straniero che è cresciuto in un paese che non è il suo.
Sei quello diverso, a partire dal nome.
“Ah ma non sei italiano?”
“No, sono kosovaro.”
“E dov’è il Kosovo?”
“Nei Balcani, vicino ad Albania e Serbia”
“Ma sulle cartine non c’è, il Kosovo non esiste.”
“Senti lascia stare”
“Ma quindi cosa sei?”

Sempre così, sempre a dover spiegare, a convincere gli altri che noi esistiamo, anche se le cartine non lo dicono, anche se non abbiamo una nazionale, anche se non siamo nella lista degli stati della terra.
Un’infanzia a chiederti perché? Perché questo, perché questa diversità. Sei diverso in Italia, perché sei quello straniero, durante le vacanze torni finalmente in quella che reputi casa, ma sei diverso anche là. Perché ti chiamano l’italiano.
Passi gran parte del tuo tempo a chiederti realmente chi sei, cosa sei.
Ho sempre sognato questo giorno, la prima partita ufficiale del Kosovo, e ogni volta c’ero io. C’ero io in mezzo al campo con la maglia della mia nazionale. Ho vissuto in Italia per vent’anni, non ho mai chiesto la cittadinanza, anche se avrei potuto secondo la legge.
Non l’ho fatto, perché non mi sono mai sentito un italiano.

“Ma il tuo paese non esiste!”

La situazione paradossale non faceva altro che aumentare la mia convinzione. Arriverà il giorno mi dicevo. Il giorno è arrivato.
E’ stato un sogno, da stasera sarà il mio incubo. Avrei voluto essere in campo, avrei dovuto essere in campo, ma non ce l’ho fatta. Colpa mia, sarà il rammarico che mi porterò dietro per tutta la vita. Ora che potrò guardare le partite della mia nazionale in televisione sarà ancora più dura.
A maggio la FIFA  ha accolto il Kosovo come membro e da quel giorno è stato un continuo contare i giorni fino ad oggi.

“A settembre, il 5, contro la Finlandia”.

Che attesa, pensare che solo poche ore prima della partita alcuni giocatori hanno avuto il via libera dalla FIFA, perché precedentemente erano stati convocati da altre nazionali.
Una giornata a guardare l’orologio, a controllare se qualche rivista di calcio ha scritto un articolo su di noi.
Finalmente la cena, il segnale che manca poco.

“Pà, Hetemaj ha chiesto di non giocare”
“Grande. Bravo!”
“Ujkani ha ricevuto l’ok dalla FIFA”
“OTTIMO”.

Si parla sempre di calcio a tavola, stasera stranamente un po’ meno. Stasera si aspetta, stasera si guardano le lancette.
Questo pezzo nasce in quei momenti, ogni due maccheroni guardo l’orologio e penso a cosa potrei scrivere. Devo prepararmelo prima, sarò troppo su di giri dopo la partita.
Finisco di mangiare, corro in camera. Ci sono vari link che danno la partita in streaming.
Li apro tutti, nel caso uno si blocchi, mi sposto sugli altri. Trovo la telecronaca in kosovaro, MERAVIGLIOSO.
20:30, porto il pc in salotto. Mio padre parla con qualche parente in Kosovo. Io sono già teso, lascio il pc in sala e giro per casa senza motivo. Pensare che avrei voluto essere lì, non riesco a stare tranquillo in casa mia.
Entrano le squadre, la bandiera del Kosovo in campo.
Prima l’inno degli ospiti, il nostro. I ragazzi si abbracciano, difficile trattenere l’emozione.
Ti vibra tutto, la telecamera li inquadra uno ad uno, ti immagini tra di loro. A casa non vola una mosca.
“UH!!”
Butto fuori tutto con un respiro profondo.
Poi l’inno finlandese, loro non si abbracciano.
I capitani si scambiano i gagliardetti, strette di mano, monetina e via.
Si inizia.
Turku, 5 settembre 2016, il Kosovo nella storia.
Siamo emozionati, ho paura che possiamo fare qualche cavolata subito, ma no, i ragazzi sono concentrati.
Al settimo Berisha prova subito a colpire, la palla finisce alta. Prima emozione, già mi alzo in piedi.

“Calma, calma, è appena iniziata.”

Due minuti dopo Pacarada si inventa un sinistro da fuori area che si stampa sulla traversa.

“Ma come siamo partiti?”

Incomincio già a sognare un finale glorioso.
Al quarto d’ora ci addormentiamo in difesa, Ujkani compie il miracolo. Neanche il tempo di finire di fare i complimenti al nostro portiere, che sul calcio d’angolo seguente prendiamo gol.
Doccia fredda, dura da digerire.

“Continuiamo come abbiamo iniziato che va bene”.

Giochiamo bene, cerchiamo di tenere la palla e siamo anche ordinati. Ci guadagniamo qualche calcio d’angolo, che non riusciamo a sfruttare. Fine primo tempo, torniamo negli spogliatoi fiduciosi. Sotto uno a zero, ma meglio degli avversari.
Ripartiamo come avevamo lasciato, pressiamo un po’ di più e attacchiamo bene la profondità.
Al sessantesimo il colpo di scena, Berisha viene messo giù in area di rigore, l’arbitro indica il dischetto. Mi alzo in piedi, esulto, mi giro su me stesso. Papà urla. Il telecronista continua a ripetere:
“RIGORE. RIGORE. RIGORE.”
Il pubblico kosovaro esulta.

“Calma, calma. Bisogna segnarlo”.

Valon Berisha sul dischetto. Forte e alto sulla destra.
1 a 1.
GOL DEL KOSOVO.
Ci siamo, siamo vivi, pareggio meritato.
Presi dalla foga cerchiamo di farne un altro, continuiamo la pressione per una decina di minuti, poi inevitabilmente caliamo fisicamente. Inesorabile arriva il novantesimo. Tre minuti di recupero, rischiamo qualcosa, ma non succede niente.
Triplice fischio. Prima punto per il Kosovo.
Che inizio, quanta emozione, che orgoglio.
Immagino i bambini kosovari sparsi per l’Europa e nel mondo, penso alle loro risposte quando gli verrà chiesto:
“Di dove sei?”
“Del Kosovo”
Lo possiamo dire da otto anni ormai, da quando siamo diventati indipendenti.
Da stasera possiamo urlarlo ancora più forte.
Volevano controllarci, ma non ce l’hanno fatta.
Ci hanno uccisi, ma siamo risorti.
Non esistevamo, ora ci siamo.
Il Kosovo esiste.

Gezim Qadraku.

Essere o non essere?

Dura è?
Adesso che si sono permessi di fare della satira sulle vittime del terremoto,
non riuscite più  a stare dalla parte di Charlie Hebdo.
Quando scherzavano su Allah,Maometto e l’Islam andava bene.
Si può scherzare e fare ironia sugli altri, si può fare satira nei confronti di altre religioni, ma quando poi toccano te, allora non vale più.
Tutti Charlie eravate, nonostante non sapeste chi fosse sto “Charlie Hebdo”.

Rivista che fa satira sull’Islam? Grandi, fantastici, fanno bene“.

Come sentite le parole “attacco terroristico”, “islamisti”,  subito a puntare il dito contro i musulmani e prendere le difese di quelli che vi somigliano.
Tutti Charlie eravate, poi basta un’amichevole di calcio e vi mettete a fischiare l’inno francese.
Probabilmente, chi ieri ha fischiato la Marsigliese, non sapeva che Charlie Hebdo è una rivista francese. Va beh dettagli, l’importante era essere Charlie un anno fa.
Fu uno dei primi articoli che scrissi: “Je ne suis pas Charlie”, nel quale dicevo la mia sui fatti accaduti nel gennaio del 2015.
Qualcuno mi disse: “Stai nel tuo, non esagerare“.
Le stesse persone che ora, in enorme difficoltà, si staranno facendo la cruciale domanda:
“Essere o non essere Charlie oggi?”.
Il problema non è, se essere o meno una rivista satirica.
Il problema è che non sapete più chi siete.
Di certo non lo scoprirete, finché continuerete a correre per stare dalla parte che considerate essere della ragione.
La parte composta da persone con lo stesso colore della vostra pelle, che la pensano come voi, che credono in quello che credete voi.

Gezim Qadraku.