Quelle lettere dal Kosovo

Ogni volta che torno a trovare i miei genitori, a mamma piace tirare fuori vecchi album di famiglia. Le piace trascorrere le serate a commentare le foto e ricordare a me e a mio fratello che dovremmo farcene più spesso.

L’altra sera, mentre guardavamo la televisione, mi ha detto che ha ancora tutte le lettere che avevamo ricevuto dai nostri parenti durante i primi anni in Italia. È stato come ricevere una scossa elettrica.

Tirale fuori subito”, le ho detto.
Soltanto nel momento in cui ho concluso la frase, mi sono accorto del pasticcio nel quale mi ero cacciato.

Col passare degli anni ho preso coscienza della mia sensibilità e di una facile predisposizione alla commozione. Predisposizione che raggiunge il suo apice, quando si tratta del trascorso dei miei genitori in Italia.

È bastato leggere le prime frasi di un paio di lettere, per sentire il nodo alla gola. Così ho dato soltanto un’occhiata veloce a tutte, consapevole che se mi fossi messo a leggerle, sarei scoppiato in un pianto infinito. E volevo evitarlo, con tutti i membri della mia famiglia presenti. Se una parte della motivazione è una vergogna stupida, l’altra è dettata dal fatto che per godermi a pieno una cosa, ho bisogno di essere da solo. Così, nel caso dovessi emozionarmi, potrei piangere senza freni, senza il bisogno di dover dire che va tutto bene. Rovinerebbe il momento.

Così ho aspettato che tutti andassero a dormire per iniziare a leggere. Le lettere sono datate dal 1995 al 1998. La prima domanda che mi sono posto leggendole è stata come diavolo avessero fatto a inviarsele. Il giorno dopo mamma mi ha detto che non utilizzavano la posta, bensì aspettavano che qualcuno dei loro amici kosovari in Italia andasse in Kosovo e gliele davano da portare ai nostri parenti. E loro facevano la stessa cosa. Un processo che prevedeva un’attesa estenuante, infinita. Da una lettera all’altra potevano passare parecchi mesi. Come fai ad aspettare per un lasso di tempo così lungo soltanto per sapere che un tuo caro sta bene?

Tante cose, di quelle lettere, mi hanno colpito.

La prima è l’inizio di esse. Le prime righe sono sempre scritte in maniera molto cordiale.

“Io, …, saluto te mio fratello, tua moglie e tuo figlio. Ho deciso di scriverti questa lettera e facendolo prima di tutto spero che stiate tutti bene.”

All’introduzione segue sempre una valanga di sentimenti.
Amore, mancanza, dolore, speranza, nostalgia.
Nella nostra cultura non è prevista l’esposizione palese dei sentimenti. Qualsiasi cosa succeda, c’è sempre un certo contenimento alla base. Contenimento che viene rispettato in maniera impeccabile nel dolore e un po’ meno nella gioia. Mi sono sempre chiesto come facessero a vivere una vita così contenuta sentimentalmente. Una parte della risposta penso di averla trovata in quelle lettere. Era lì che si lasciavano andare. In quei fogli potevano farlo, lontano da occhi indiscreti. In quelle lettere ho visto la parte sentimentale che non avevo mai visto delle mie persone.

La situazione in Kosovo in quel periodo era abbastanza difficile. Quello che ripetono i miei genitori nei racconti è la parola “niente”. Non si muoveva niente. Era praticamente impossibile trovare lavoro. Non c’era alcuno sprazzo di cambiamento. La calma piatta. Una lotta giornaliera per sopravvivere. E così per ogni famiglia la persona che riusciva ad emigrare diventava l’ancora di salvezza. In questo caso mio padre.

Ho sempre pensato al dolore dei miei genitori nel dover lasciare tutto e iniziare una nuova vita. Soltanto leggendo quelle lettere mi sono reso conto di non aver mai pensato all’altra faccia della medaglia. A coloro che erano rimasti, che aspettavano notizie, che provavano a immaginarsi cosa potesse voler dire vivere in Italia.

E così ho scoperto tutto il dolore di mio zio paterno, di qualche anno più vecchio di mio padre. Delle sue lettere che iniziavano sempre giurando a mio padre che loro stavano bene e di non preoccuparsi. Che invece lui si preoccupava di come stesse mio padre, di quanto stesse faticando. C’è un punto nel quale gli dice:

“Lo so che stai tirando avanti con il petto”.

Un’espressione in lingua albanese per dire che stai dando tutto quello che hai, ogni forza fisica a tua disposizione.

E a mio nonno che in Sicilia ancora spreme la vite nell’orto.
Ed a mio padre hanno spremuto la vita dal corpo

Chiedi alla polvere – Marracash

In un altro passaggio gli ricorda di come i miei cugini non fanno altro che parlare di noi e di me, in particolare. Gli chiedono di quando tornerò a giocare con loro e di come ogni volta che lui nomini uno di noi, i loro occhi si spalancano, convinti che possiamo saltare fuori da un momento all’altro. Di come un giorno abbia chiesto a entrambi di leggere delle poesie ad alta voce e lui ha registrato una cassetta con le loro poesie. Gli dice anche di godersi alcune cassette di musica popolare che gli ha comprato un giorno al mercato, che sono delle nuove uscite e che è sicuro che gli piaceranno.

E allora mi viene impossibile trattenere la commozione pensando alla sensibilità e all’amore di mio zio che si reca al mercato e compra qualcosa che possa aiutare mio padre ad alleviare la nostalgia e il dolore. Il bene del fratello che arriva prima del suo. Mi esplode il cuore pensando ai miei cuginetti mentre leggono le poesie e mio zio che registra il tutto. Inconsapevoli del bene che avranno fatto a mio padre con quel gesto.

E poi ancora di quell’anno nel quale tutti si aspettavano che saremmo riusciti a tornare per capodanno, ma a quanto pare non riuscimmo. E lo zio che non riesce a trattenere il dolore. Utilizza un’espressione fortissima nella lingua albanese, difficilmente traducibile. Ci provo comunque.

Dice:

“Stiamo diventando ciechi a furia di non vedervi”

Poi conclude la lettera affranto.

“Eravamo convinti di potervi vedere quest’anno, ma non ce l’avete fatta a tornare. A quanto pare la vita non va mai come uno spera”.

Ci sono anche attimi di felicità in quelle lettere. Soprattutto in quelle dopo la nascita di mio fratello. Gli auguri e le felicitazioni. Tutti che chiedono a mamma e papà se il piccolino è tranquillo o irrequieto e nervoso come il sottoscritto. Per fortuna il fratellino è sempre stato uno tranquillo. Giuro, hanno scritto proprio “nervoso”, riferito a me. Avevo due anni l’ultima volte che mi avevano visto, già nervoso ero.

A rimanermi impresso di quelle lettere è quello strato di dolore che ha accompagnato la vita dei miei genitori, dei nostri famigliari e del nostro popolo in generale. Mi tornano in mente le parole che Oriana Fallaci dedicò a Pier Paolo Pasolini:

“La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente.”

Pensando ai miei genitori, ai miei famigliari e al mio popolo, mi verrebbe da dire che loro hanno sempre portato addosso il dolore onorandolo nella maniera più rispettabile possibile, mostrandosi sempre contenuti, impedendo a loro stessi di lasciarsi andare. E probabilmente la sofferenza è la condizione umana che più hanno compreso, quella nella quale, per assurdo, si sono sentiti più a loro agio. Mi è sempre sembrato che nella gioia e nella felicità fossero nudi, senza strumenti, impreparati su quale fosse il comportamento da mantenere e di come avrebbero dovuto vivere quei momenti.

E allora non posso fare altro che chiedermi se ne valesse la pena. Nonostante sia bello e toccante poter rivivere in parte quei momenti, osservando quanto di buono siamo riusciti a fare in tutti questi anni. Ma a che prezzo?
Mi domando cosa avrei fatto o detto loro, se avessi potuto, nel momento in cui decisero di lasciare la propria terra. Ora mi verrebbe da dire loro di non farlo. Di non lasciare la propria terra, di non andare così lontano dai propri cari. Mi chiedo perché abbiano considerato i nostri sogni più importanti dei loro. Ripenso alla felicità e all’orgoglio che hanno provato nel sostenerci e godersi insieme a noi i traguardi che siamo riusciti a raggiungere. Ripenso alle loro parole spese per ogni traguardo. A quelle specifiche frasi.

“I vostri traguardi ci fanno sentire meno la stanchezza.
I vostri traguardi ci dimostrano che ne è valsa la pena.”

Mi chiedo per quanto tempo ancora questa bugia che si raccontano possa tenerli in vita.
Avrei voglia di tornare indietro nel tempo e dire loro di restare, di combattere per provare a realizzare i loro, di sogni.

Mi porto con me l’umanità di quelle parole. Il dolore, l’amore e la profondità di certi passaggi. Amo scrivere e le lettere sono qualcosa che mi fanno tremare il cuore. L’idea che un momento, un sentimento, possa restare per sempre su un foglio di carta, mi fa impazzire. Dopo aver compreso la predisposizione alla commozione, negli anni ho capito che grazie a lacrime, silenzio e scrittura, avrei potuto superare qualsiasi momento difficile.

“Ne parlai quasi tacendo. Io sono un maestro nel parlare tacendo, ho parlato tacendo per tutta la mia vita e ho vissuto vere tragedie dentro me stesso.”

Fëdor Dostoevskij

Esisto perché scrivo”, mi ritrovo a ripetere a me stesso sempre più spesso. Non so come una persona viva le proprie emozioni, ma io ho la sensazione che quello che vivo e sento, sia troppo forte da esprimere a voce. Ho la percezione che il mio corpo potrebbe esplodere in mille pezzi, se dovessi esprimerlo a voce. Per questo mi viene più facile mettere tutto per iscritto, accompagnandolo con le lacrime. Tante, troppe probabilmente. Ma ormai ho capito che questo è l’unico modo che mi permette di vivere a pieno il momento. Indipendentemente che sia positivo o negativo.

L’emozione di trovarsi tra le mani lettere ricevute o scritte anni prima è un dono che auguro a tutti. Concludo consigliandovi di scrivere a mano, ogni tanto. Mi auguro che abbiate qualcuno a cui dedicare le vostre parole. Nel caso non ce l’aveste, scrivete a voi stessi. Un giorno quegli scritti vi ricapiteranno tra le mani e sarà fantastico fare un salto nel passato. Vi emozionerete, forse piangerete, magari vi tremerà il cuore ed è molto probabile che vi farete un paio di risate ripensando a ciò che eravate e potreste essere felici di quello che nel frattempo sarete diventati.

Gezim Qadraku