Esistere

Quando Tommy mi disse che se ne sarebbe andato, stavo guidando. Eravamo in macchina, diretti verso ‘Da Arnaldo’ per l’aperitivo. ‘Da Arnaldo’ era un ristorantino poco fuori Milano, che il venerdì faceva quello che io e Tommy consideravamo il miglior aperitivo della zona. Ci andavamo già da un anno. Ogni venerdì. Non ne avevamo saltato uno. Dopo la prima volta, nella quale eravamo capitati lì per puro caso, avevamo deciso che quell’aperitivo sarebbe diventato il nostro momento. Che non saremmo mai mancati, che non avremmo permesso a nessuno di mettersi in mezzo e di rovinarcelo. Il venerdì sera non c’eravamo per nessuno. Né per le nostre famiglie, né per gli amici, né tantomeno per le nostre ragazze, Clelia e Gloria.

Era la seconda settimana di settembre. Uno dei momenti dell’anno che preferivo. Le persone erano da poco tornate dalle vacanze e l’abbronzatura sui loro volti ne era la prova. Durante il giorno le temperature erano ancora alte, tanto da permettere alla gente di indossare abbigliamenti estivi. La sera le temperature calavano e di conseguenza bisognava mettersi una felpa o un giubbottino. Mi piaceva da morire osservare il contrasto tra la pelle abbronzata e un capo pesante. Alla radio parlavano della crisi dell’Eurozona, di paesi in gravi difficoltà economiche, che rischiavano di fallire. Di andare in default, dicevano. La parola default, associata a un paese, mi sarebbe rimasta impressa per tanti anni. Non riuscivo a capire come uno stato potesse fallire.

Ero passato a prenderlo da una decina di minuti. Avevamo chiacchierato del più o del meno, prendendoci qualche secondo di silenzio. Poi, dal nulla, Tommy aveva lanciato la bomba.
“Me ne vado a Berlino. Ho ricevuto un’offerta di lavoro che non posso rifiutare. “
Si prese una pausa di qualche secondo.
“Parto a novembre”, concluse.
Un silenzio assordante si era impadronito della mia testa. Mi fischiavano le orecchie. La voce del dj alla radio suonava lontana e impossibile da decifrare. Tommy aveva ripreso a parlare, dopo una sosta di non so quanti minuti. Probabilmente si era aspettato una reazione da parte mia. Non ricevendola, aveva iniziato un altro discorso, passando a tutt’altro argomento. Aveva liquidato la faccenda di Berlino in pochi secondi, come se nulla fosse. Parlava, ma le sue parole mi raggiungevano in ritardo. Non riuscivo e non volevo comprenderle. Ero rimasto in silenzio, focalizzando le poche energie che mi erano rimaste nella guida. Anche se mi pareva di guidare esclusivamente per inerzia. Non avevo il pieno controllo di quello che stavo facendo.

Avevo parlato poco quella sera. Non ricordo cosa avevamo ordinato da bere. Tantomeno rammento cosa avevano portato da mangiare. Avevo spiaccicato qualche parola, con tono distaccato e assente. Avrei preferito tornarmene subito a casa e chiudermi in camera mia, invece di stare lì e recitare come se non fosse accaduto nulla. Mi sentivo ferito, umiliato, tradito.

Perché aveva deciso di partire?

Cosa c’era che non andava nella sua vita qui?

E perché aveva preso una decisione del genere senza prima parlarne con me?

La mia opinione non era più importante?

La ferita di quel tradimento mi sarebbe bruciata per un tempo eccessivamente lungo.

Il 3 novembre sarebbe arrivato troppo in fretta. Un giorno lui era il mio porto sicuro, il giorno dopo era a mille chilometri di distanza. Mi rinchiusi in un mutismo che durò mesi. Non avevo voglia di fare niente. Eseguire la più piccola delle azioni mi provocava fastidio e stanchezza. L’unica fonte di benessere era Gloria, ma mi mancava Tommy e non sapevo come colmare la sua assenza.

All’inizio tornava per ogni festività e qualche weekend. Durante il primo anno ci sentimmo spesso, poi le conversazioni iniziarono a diminuire. Qualcosa si era rotto, in me. In lui, invece, sembrava che nulla di trascendentale fosse accaduto. Parlava sempre del futuro. Di esperienze che avrebbe voluto fare, di progetti che aveva in mente, di paesi che avrebbe visitato. Io, invece, cercavo di portargli alla memoria i nostri trascorsi insieme. Io ero ancorato al passato. Il mio sguardo era rivolto all’indietro. Ma a lui di parlare del passato non piaceva e si stufava velocemente a ricordare le nostre esperienze. Per me, invece, era come una medicina. Il solo ricordo della felicità era sufficiente per farmi sentire meglio.

Una sera a cena, dopo mesi dalla sua partenza, papà aveva provato a svegliarmi.
“È solamente andato a vivere in un altro paese, mica è morto. Non c’è bisogno di reagire così. La vita va avanti.”
Avevo ignorato le sue parole, mantenendo la mia concentrazione sul cibo. Il suo modo di leggere la situazione mi sembrava così banale e superficiale. I classici consigli non richiesti da parte di una persona non coinvolta nella faccenda. Probabilmente si era aspettato una risposta, e non ricevendola, aveva rincarato la dose.
“Guarda che nella vita ci sono cose molto peggiori. Se per una cosa così reagisci in questo modo, per eventi più gravi cosa farai?”
L’avevo guardato fisso negli occhi. Avrei voluto sputargli in faccia, ma continuai a mangiare la cotoletta.
A quel punto aveva perso la pazienza e il suo tono di voce era aumentato.
“Ma tu cosa pensi, che la gente prenda le decisioni della propria vita pensando a te? Tu saresti rimasto qui per lui? Non avresti accettato un’esperienza del genere?”
Era riuscito a toccare il nervo scoperto. Tirai fuori tutto quello che avevo tenuto dentro per mesi.
“Si!
Io sarei rimasto qui per lui.
Io non me ne sarei mai andato via per un’offerta di lavoro!
Che cazzo di bisogno aveva di andare a Berlino, me lo spieghi?” urlai a squarciagola.

Schiumavo rabbia. Avrei voluto tirare un pugno a qualcosa o a qualcuno. Per qualche secondo avevo pensato di prendere un piatto e lanciarlo addosso al muro con tutta la forza che avevo. Sentivo il rumore del piatto andare in frantumi, accompagnato dal mio urlo assatanato e dal mio respiro affannoso. Non avevo avuto il coraggio di farlo. Come non ho avuto il coraggio di fare tante altre cose nella vita. L’assenza di coraggio mi avrebbe permesso di eccellere soltanto in una cosa, collezionare rimpianti.

“Non farlo mai. Non decidere mai della tua vita sulla base di un’altra persona. Le persone un giorno ci sono, il giorno dopo non ci sono più. Ognuno insegue i propri sogni. Ognuno di noi ha i propri interessi. E non possiamo fare altro che seguirli. Anche tu ce li hai, i tuoi sogni, i tuoi interessi. Soltanto che adesso hai la mente offuscata e non li vedi. Un giorno ti metterai a inseguirli e questo comporterà perdere affetti, persone, posti e tanto altro”, mi disse papà, prima di alzarsi da tavola. Non tornò mai più su quel discorso.

Trascorsi i giorni successivi a chiedermi quali fossero i miei sogni, i miei interessi. Io stavo bene dov’ero. Non avevo nessun desiderio di andare altrove. Gloria era l’amore della mia vita e sapevo già che l’avrei sposata. Ci saremmo comprati un appartamento a Milano, distanti abbastanza dai nostri genitori, ma non troppo. Mi trovavo a mio agio nella costante ripetizione delle abitudini che si erano create con le nostre famiglie. La settimana in montagna con i suoi e quella al mare con i miei. La vigilia da lei e il Natale da me. A Capodanno visitavamo sempre una città diversa dell’Italia. Stavo bene e non avevo bisogno di altro. Non mi interessava imparare le lingue straniere, fare esperienze di lavoro all’estero, farmi amicizie in tutto il mondo.

A Tommy invece sì. I suoi ritorni diminuirono. Ad aumentare, invece, era la sua felicità. Veniva sempre più di rado, ma ogni volta sembrava più felice. Aveva preso l’abitudine di portarsi uno o più amici, quando scendeva. Persone che non conoscevano l’italiano e con le quali bisognava conversare in inglese. Idioma che non masticavo e di conseguenza non riuscivo mai ad avere una conversazione che si potesse definire tale con i nuovi amici di Tommy. Nessuno di loro lo chiamava Tommy. Tutti Tommaso. E il modo in cui pronunciavano il suo nome, mi infastidiva profondamente. Nessuno riusciva a pronunciare bene la doppia emme. Pronunciavano il suo nome come se avesse una sola emme e due esse. Tomasso. A darmi ancora più fastidio era il suo atteggiamento nei confronti di tutto questo. Non diceva niente, non correggeva nessuno. Si divertiva e si godeva il sempre poco tempo che trascorreva in Italia con i suoi amici internazionali.

Il punto più alto del fastidio che provai nei suoi confronti si manifestò alla mia festa di compleanno per i 25 anni. Era venuto da solo e prima dell’inizio della festa, davanti a tutti, annunciò che sarebbe andato in Giappone. Aveva ottenuto una borsa di studio per un master in qualcosa. Non ricordo cosa, non mi interessava. La mia attenzione si era fermata al nome del paese, Giappone.
Ancora più lontano. E chissà se ci saremmo mai più rivisti. A darmi fastidio, più che il Giappone, o la decisione di avermelo detto in quell’occasione, era la sensazione di quanto quello che era stato il nostro rapporto, incidesse sempre meno nelle sue scelte di vita. Sembrava non accorgersi di tutto il tempo che stavamo perdendo, di quanto la distanza ci stava impedendo di goderci la nostra amicizia. Tutto ciò non sembrava toccarlo, probabilmente neanche ci pensava e questo mi stava distruggendo. Mi provocava dolore fisico e mentale. Avrei voluto dirgli e chiedergli tante cose, ma non ce l’avrei mai fatta. Più lui si allontanava e più io mi sentivo sprofondare e non sembrava potesse esserci qualcosa che mi avrebbe potuto salvare.

Mi disse una cosa, prima di volare a Tokyo.

“Hai paura. Sei rigido, teso come una corda. Lasciati andare, goditi la vita. E prova a uscire da questo buco. Fatti un’esperienza anche tu. Poi torni, mica sei obbligato a restare fuori per sempre.”

L’o feci. Uscii anch’io da quel buco. Per sei mesi. Sei mesi nei quali l’azienda per la quale lavoravo da quando mi ero laureato, mise a disposizione due posti per due volontari che avrebbero voluto fare un’esperienza a Parigi. Ci andai. Risposi subito alla mail. Mi candidai con urgenza, come se qualcuno mi stesse inseguendo.
Odiai Parigi. Odiai quei sei mesi. Non mi portai niente di bello a casa da quell’esperienza. Trascorsi quei mesi facendo il countdown. Ci impiegai poco ad accorgermi che non l’avevo fatto per me. L’avevo fatto per lui, per Tommy. Mi chiamò tante volte in quel periodo e la cosa mi rese felice. Iniziai a pensare che ci stessimo finalmente riavvicinando. Che forse quella cosa di andare a Parigi avrebbe funzionato. In realtà le cose non cambiarono. Non riuscii ad aumentare il mio condizionamento sulle sue scelte di vita. Io ero andato a Parigi per lui, per fargli vedere che stavo provando a diventare ciò che mi aveva consigliato. Era stato il mio ultimo, disperato, grido di dolore. Speravo che quella mia esperienza, per qualche stupido motivo, l’avrebbe convinto a tornare in Italia. Ripensandoci ora, mi rendo conto di quanto lontano fossi dalla realtà. Lui continuava la sua vita, indipendentemente da ciò che causava alla nostra amicizia. Io non ero più un fattore. Nessuno lo era per Tommy. Lui era immune, indipendente da tutto e tutti.

Mi tornarono alla mente le parole che papà mi aveva ripetuto fino allo sfinimento mentre mi aveva insegnato a guidare la macchina.

“Sei tu che devi guidare la macchina, non è lei che deve guidare te.”

Presi la patente senza il minimo intoppo, ma non capii mai il significato di ciò che voleva dire con quella frase. L’avrei capito soltanto guardando Tommy e cercando di comprendere il motivo che lo spingeva a stare così lontano da casa e a saltare da un paese all’altro.

Grazie a lui, compresi che nella vita esistono due tipi di persone. Quelli come Tommy, che esistono di luce propria, che la macchina la guidano, che azzannano la vita, che afferrano tutto ciò che vogliono. Quelli che non hanno paura. Quelli che entrano nella tua vita, la stravolgono, ti cambiano il modo di guardarla e di loro non ti dimenticherai mai. E poi ci sono quelli come me. Quelli che si fanno guidare dalla macchina, quelli che aspettano, che hanno paura, quelli che non esistono, dei quali non ti accorgi e se ti capita di incontrarli, la tua vita non ne risente. Procede e resta la stessa di prima che li incontrassi. Io ero rimasto lo stesso da quando Tommy se n’era andato, mentre lui era diventato tante cose. Lingue, culture, persone, abitudini. Il suo coraggio e la sua curiosità nell’intraprendere nuove esperienze, lo aveva fatto diventare una persona eccessivamente interessante. Era bello guardarlo stare al mondo. Esisteva in maniera differente dagli altri.

Nelle notti nelle quali non riuscivo a prendere sonno, mi mettevo a pensare e mi chiedevo quanto potesse valere una vita come la mia e quanto invece una come quella di Tommy. Sapevo che la differenza era abissale. Se solo avessi potuto fare un salto indietro di dieci anni, se solo avessi avuto coraggio. Invece di sprecare il mio tempo a cercare di comprendere la sua decisione, avrei dovuto seguirlo. Concludevo pensando a lui, nella speranza che il mio pensiero lo raggiungesse. Prima di chiudere gli occhi, l’immagine che la mia mente creava era sempre la medesima. Io e lui all’aperitivo, felici. Sapevo che sarebbe successo di nuovo. Che ci saremmo tornati, che avremmo ricominciato ad andarci ogni venerdì sera e tutto sarebbe tornato come prima. E mentre sognavo quel momento, mi ripetevo le parole che mi aveva scritto per farmi gli auguri del mio 30° compleanno.

Da quando me ne sono andato, sei la persona alla quale penso di più.

Gezim Qadraku

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