Strana generazione

Siamo la generazione dei solitari.
Come migliore amico abbiamo il nostro smartphone. Ci innamoriamo in chat, dimostriamo il nostro sentimento tramite un social network. Siamo la generazione alla quale non interessa sposarsi e fare figli.  Il nostro unico interesse è quello di avere un lavoro.
Stiamo vivendo in un mondo nel quale per fare figli ci vuole coraggio, non amore come per i nostri genitori. Sostituiremo i figli con cani e gatti. Siamo quelli che comprano un cane per aver un compagno di vita. Perché non siamo più capaci di mantenere rapporti con gli altri esseri umani. Quando ci troviamo insieme ai nostri conoscenti passiamo il tempo a leggere le notifiche che ci arrivano sul cellulare.
Non abbiamo più niente da dirci. Con i cani è semplice, non c’è bisogno di parlare.
Siamo la generazione che si fa controllare secondo per secondo e lo accetta come se fosse normale. Siamo la generazione che non paga più in contanti e non fa altro che strisciare le carte. Inconsapevoli che questo è un altro modo per tenerci sotto controllo e farci spendere di più.
Siamo quelli che si fanno schiacciare, siamo quelli che perderanno tutti i diritti per i quali la gente è morta nel passato. Siamo quelli che si fanno governare da persone che non abbiamo votato. Siamo quelli che si fanno andare bene tutto perché la nostra attenzione è stata catturata da cose inutili che però ci sembrano così importanti. Siamo quelli che senza Wi-Fi non vivono. Siamo quelli che vivono per sapere cosa succede agli altri. Siamo quelli senza ideali, senza palle, siamo quelli che si fanno corrompere con un assegno.
Siamo quelli che hanno studiato la storia ma che non hanno alcuna intenzione di impararci qualcosa. Siamo quelli che vogliono il successo, che hanno bisogno di fama, e facciamo di tutto per ottenerlo. Siamo quelli che si credono importanti pur non avendo fatto nulla nella loro vita. Siamo quelli che non faticano, che vogliono tutto senza dover muovere un dito. Siamo quelli che daranno il colpo letale al pianeta.
Siamo quelli che verranno ricordati per essersi ammazzati tra di loro per il colore della pelle. Siamo quelli che avrebbero dovuto vivere in un mondo perfetto, invece ci siamo ritrovati un mondo che sta cadendo a pezzi e questo non ce lo aspettavamo.
Noi però non abbiamo tempo e soprattutto voglia di curarlo.
Siamo quelli distratti, quelli con la testa verso il basso, quelli che si sono fatti catturare dalla tecnologia.
Ora vi lascio, mi è arrivata una notifica su Facebook.
Le cose importanti prima di tutto!

Gezim Qadraku.

Il Natale per un non credente

Non dovrei festeggiarlo il Natale, i miei genitori credono in una religione che non lo prevede come festa sacra. Nonostante questo però, non mi hanno mai distinto dagli altri; sono cresciuto in un paese, l’Italia, dove il Natale è sentito particolarmente e viene giustamente festeggiato come si deve. Ho sempre partecipato alle varie recite scolastiche, a casa mia c’è sempre stato l’albero di Natale, ho sempre ricevuto i regali per Natale. Forse non ha senso quello che i miei genitori hanno fatto, ma ho sempre avuto un bel rapporto con questa festa. Nonostante sin da piccolo io non abbia mai creduto a Babbo Natale.
Il primo motivo è che non avevamo un camino, quindi già quello fu un segnale abbastanza inequivocabile (dovrebbero inventarle meglio le favole). Secondo, sono sempre stato abbastanza realista sin da bambino, non ho guardato la maggior parte dei cartoni che avrei dovuto, perché sapevo che finivano bene. Cercavo sempre qualche film o qualche cartone in cui il protagonista perdesse o comunque la storia finisse in maniera negativa. Insomma non ho mai creduto alle favole.
Il periodo natalizio l’ho sempre adorato e tutt’ora lo adoro. Mi piace l’atmosfera che si crea, mi piace che le persone almeno una volta all’anno si fermino a riflettere e si rendano conto di quanto si comportino di merda. Mi sembra che per un momento tutti diventino più umani. Anche se bisognerebbe esserlo tutto l’anno, ma questo è un altro discorso. È bello il Natale, ma è bastardo. È una lente di ingrandimento, questa festa ha la capacità di ingrandire tutto. Se sei solo, ti sentirai ancora più solo. Se la tua vita sta andando di merda, durante questo periodo ti sembrerà ancora più schifosa. Hai tempo per riflettere e quando lo fai puoi ampliare il significato di tutto quello che ti sta attorno.
Ho sempre associato la parola felicità ad una scena, io e la mia famiglia in salotto davanti alla televisione a ridere e scherzare. Questo momento di felicità veniva elevato all’ennesima potenza durante questo periodo.
Per le feste natalizie io e mio fratello eravamo a casa da scuola e potevamo giocare tutto il giorno, papà non lavorava e mamma non faceva altro che cucinarci qualcosa di buono ogni giorno. Avevamo più tempo da passare insieme, la sera potevamo stare svegli fino a tardi tanto il giorno dopo nessuno doveva fare niente. Non sono più un bambino e non aspetto queste feste per giocare, ma l’arrivo del Natale significa più tempo da poter passare con i miei cari.
Ecco perché amo il Natale, mi rende felice e ogni anno mi ricorda quanto sono fortunato.

Gezim Qadraku

L’eroe dei due mondi

Nasce il 5 febbraio del 1984 a Ciudadela, periferia ovest di Buenos Aires. Cresce in uno dei posti più difficili al mondo, il Barrio Ejército de los Andes, meglio conosciuto come Fuerte Apache. Nome che venne dato al quartiere da un giornalista argentino ispiratosi al film “Fort Apache – The Bronx”.
Un posto caratterizzato da spazzatura, auto che vanno a fuoco,  baracche, strade rovinate, odori atroci, fogne a cielo aperto, vicoli bui e pericolosi nei quali girano droghe e armi. Chi nasce in un luogo del genere capisce ben presto di avere pochissime possibilità nella vita.
Questi ambienti potrebbero essere descritti utilizzando la struttura del film “Requiem for a Dream” nel quale il regista decise di dividere la pellicola in tre stagioni, escludendo la primavera. La quale è sinonimo di rinascita e di vittoria della vita. Lo stesso si può dire di questi quartieri, nei quali non c’è la prospettiva di un futuro migliore e la gente cerca una scorciatoia per provare a migliorare la propria vita. Queste scorciatoie però, molto spesso portano al baratro, alla morte.
E’ qui che Carlos prende la prima decisione improbabile della sua vita. Dice no alla droga e alla criminalità, si concentra su quell’oggetto sferico. Una scelta difficile, coraggiosa, ma questa è solo la prima delle tante. I primi anni di vita del ragazzo sono allucinanti. A soli tre mesi la madre decide di abbandonarlo, a dieci mesi gli cade sul viso un bollitore pieno di acqua bollente. Viene portato in ospedale avvolto in una coperta di nylon, la quale sciogliendosi peggiora la situazione portando le ustioni dal primo al secondo grado. Gli effetti di quell’incidente sono ancora ben visibili su volto, collo e petto di Carlitos.
Dopo essersi ripreso dalla disavventura, sono gli zii materni a prendersi cura di lui; intanto il bambino cresce e all’età di cinque anni il padre biologico, che non lo aveva mai riconosciuto, viene ucciso in una sparatoria. Una strada in salita la vita del ragazzo, ma con una pendenza di quelle impossibili. Carlos non è uno di quelli che ha paura, mette giù la testa e corre. Cosa che farà per tutta la vita.
La sua carriera calcistica incomincia negli All Boys, dove disputa gli anni delle giovanili. Il suo talento non passa inosservato e gli scout del Boca Juniors si accorgono subito di lui. Qui succede qualcosa di particolare, il Boca vuole il ragazzo, ma gli All Boys non sono disposti a cederlo. Allora la società degli Xeneizes studia un piano a tavolino. Chiede alla famiglia del ragazzo di cambiargli cognome. Si passa così da Carlos Martinez (cognome del padre) a Carlos Tévez(cognome della madre). L’impresa riesce, il sogno del ragazzo si realizza. Ora potrà giocare per i suoi colori, per la sua amata squadra. Dopo quattro anni passati nelle giovanili, debutta in prima squadra. Dal 2001 al 2004 è decisivo nel scrivere una delle pagine più importanti della storia del club. Con il Boca nel 2003 vince il campionato di Apertura, la Copa Libertadores (segnando in finale contro il Santos) e la Coppa Intercontinentale ai danni del Milan. L’anno successivo vince la Copa Sudamericana, in un anno vince tutto quello che si può vincere in Sud America. Sia nel 2003 che nel 2004 viene premiato con il pallone d’oro sudamericano.

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Proprio nel 2004 arriva un’altra scelta inattendibile, Tévez ha soli vent’anni, ma è già un calciatore affermato. Si pensa che la sua storia d’amore con la Bombonera sia destinata a durare per anni e invece…
il ragazzo decide di andare a giocare per il Corinthians, sì decide di andare a giocare in Brasile. Un argentino che prende una decisione del genere fa discutere entrambi i paesi per mesi interi. Come se non bastasse la scelta al quanto strana, a far parlare è anche il prezzo del cartellino, qualcosa come venti milioni di dollari, il trasferimento più importante per un club sudamericano. Un costo che obbliga il Timão a chiedere aiuto ad un gruppo finanziario esterno al mondo del pallone. Gli altri parlano e lui si concentra sul campo. Dopo un’accoglienza titubante da parte dei tifosi, Carlos riesce dopo poche partite a conquistare il cuore della gente. Non riesce a bissare però i trofei vinti con il Boca, ma anche qui diventa il calciatore del popolo. Vince per il terzo anno consecutivo il pallone d’oro sudamericano.
Il 2006 è l’anno di un’altra decisione poco probabile, l’argentino sbarca in Europa, precisamente a Londra per vestire la maglia del West Ham. Per quanto la Premier League possa essere considerata il miglior campionato d’Europa, per un argentino gli inglesi sono e resteranno sempre i nemici della guerra per le Malvinas. Inoltre la scelta di giocare per gli Hammers, non proprio una squadra di primo livello, è al quanto strana per un calciatore che a ventidue anni è una stella affermata.
L’inizio è complicato, Alan Pardew lo schiera come fascia sinistra e il suo rendimento ne risente. La squadra va male e Carlitos non riesce a dare il suo contributo. A metà stagione Pardew viene esonerato e al suo posto arriva Alan Curbishey, il quale dopo aver lasciato l’argentino per qualche partita in panchina, decide di utilizzarlo come seconda punta. Scelta che si rivela decisiva per il raggiungimento di una salvezza insperata. E’ proprio un suo gol, nell’ultima gara contro il Manchester United, a salvare la squadra. Sono proprio i red devils, ai quali Carlitos ha segnato il suo primo gol importante e decisivo in Premier, ad acquistarlo nell’estate del 2007. E’ Sir Alex Ferguson a volerlo fortemente e la scelta ripaga pianamente il tecnico scozzese. Quella stagione il Manchester si aggiudica la Premier e la Champions League, nella finale tutta inglese a Mosca contro il Chelsea. Carlos segna il primo rigore di quella serie infinita. Anche la stagione successiva inizia nel verso giusto, la vittoria della Community Shield e il mondiale per club. Pure a Manchester il rapporto con i tifosi è ottimo, ma con Ferguson le cose iniziano a peggiorare. L’argentino viene impiegato sempre meno, nonostante le sue prestazioni siano buone. In una partita di Carling Cup segna ben quattro reti, permettendo alla sua squadra di vincere per quattro a zero. L’allenatore definì la prestazione di Tévez allo stesso livello di quella dei suo compagni. Lascia l’Old Trafford salutato dall’ovazione dei tifosi e prende un’altra scelta discutibile.
Non si allontana di molto, solo di circa sette chilometri, la sua nova casa è l’Etihad Stadium. Dai red devils ai Citizens altra decisione forte, uno smacco nei confronti di Ferguson. Nel dicembre dello stesso anno sulla panchina del City si siede Roberto Mancini. Tra i due inizialmente c’è una forte intesa, l’allenatore italiano punta molto sull’argentino, dandogli anche la fascia di capitano e il ragazzo naturalmente non delude le attese. Ancora una volta riesce a conquistarsi l’amore dei tifosi, ma soprattutto dal tifoso più importante dei Citizens, Noel Gallagher (chitarrista degli Oasis) il quale dichiara: “Mia moglie pochi giorni fa mi ha chiesto per chi avrei votato alle prossime elezioni. Io gli ho risposto che non avrei mai buttato via il mio voto per nessuno e che avevo deciso di scrivere semplicemente ‘Tévez è Dio’ sulla scheda”.

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La luna di miele anche in questo caso non dura molto, la data della rottura è il settembre del 2011, il Manchester sta perdendo a Monaco di Baviera contro il Bayern per due a zero, al sessantacinquesimo minuto Mancini dice a Tévez di iniziare a scaldarsi, ma lui si rifiuta. È subito il caso Tévez. Aguero raccontò l’episodio: “Ero accanto a Carlitos nello spogliatoio. Mancini era incazzato e ha cominciato a gridare. A un certo punto, gli ha detto di tornarsene a casa in Argentina. Io credevo che ce l’avesse anche con me. Mi sono detto: “Anch’io? Va bene, così posso passare qualche giorno di vacanza con la famiglia…”. Il giorno dopo, Carlitos era a Buenos Aires. Non l’abbiamo più visto per i successivi quattro mesi”.
Mancini lo scarica immediatamente e pure i tifosi. Dopo quattro mesi passati in Argentina, nei quali il ragazzo rischia di smettere di giocare e nei quali gli viene affibbiata la fama da bad boy, ritorna in tempo per vincere la Premier, all’ultimo secondo dell’ultima partita contro i Queens Park Rangers, scavalcando proprio i rivali dello United. Veste la maglia azzurra per un anno ancora, nell’estate del 2013 si trasferisce a Torino, la Juventus ha finalmente trovato il top player di cui ha bisogno.
Anche in questo caso Tévez fa una scelta incredibile. Decide di prendersi il numero dieci. In questo caso non è un semplice numero, perché quella maglia era stata vestita per diciassette anni consecutivi da un certo Alessandro Del Piero, dopo un anno in cui nessuno aveva avuto il coraggio di prendersela, arriva Carlitos e come se niente fosse decide di mettersi quel numero sulle spalle. Fa quello che ha sempre fatto nella sua carriera, lascia parlare gli altri, lui abbassa la testa e corre. Nel calcio italiano il suo impatto è devastante, fa capire subito a tutti che l’aggettivo di bad boy è un’invenzione dei giornalisti. Si allena, si impegna, si sacrifica, mai una parola fuori posto, mai un comportamento fuori dagli schemi. Alle sue grandi doti di calciatore aggiunge la maturità acquisita in tutti questi anni e ne viene fuori un vero e proprio tornado che travolge la serie A. Incontenibile per le difese italiane, enorme la sua personalità, se paragonata ad un calcio, quello italiano, in cui ci si preoccupa molto a mantenere la propria posizione e a non prendersi rischi. Lui si prende i rischi, calcia, dribbla, inventa e tutto viene premiato. Due stagioni in bianconero e due campionati, diciannove gol nel primo anno e venti nel secondo. Vince anche la coppa Italia e la Supercoppa Italiana. Sfiora la Champions League nel maggio 2015. Nella finale persa contro il Barcellona, l’argentino avrebbe potuto mandare in un’altra direzione la partita. Dopo il pareggio di Morata, Tévez ha un’ottima opportunità per ribaltare il risultato, ma da un’ottima posizione, a pochi metri fuori dall’area, calcia alto. Ha segnato gol bellissimi con la maglia bianconera, ma quello che più mi è rimasto impresso è il gol alla Lazio nella prima stagione.

Un semplice tocco di esterno che lascia sul posto Cana, poi da fuori area la piazza di piatto all’angolino. Come per dire, “non mi stanco neanche di calciare forte, valla a prendere se ci riesci”. Si dice che Cana lo stia ancora cercando, qualcuno lo avvisi che Tévez è in Argentina adesso.
Nonostante l’ottima prima stagione con la Juventus, l’argentino non venne convocato per i mondiali in Brasile. Una decisione che ha fatto discutere, la quale però era prevedibile, dato che il ragazzo non veniva convocato dal 2011.
La sua carriera con la maglia dell’Argentina era iniziata più che bene, nel 2004 aveva vinto l’oro nelle olimpiadi di Atene, affermandosi come capocannoniere. Poi però non molto, i due mondiali del 2006 e del 2010 non sono di certo da ricordare e dal 2011 più niente. Molto può essere dovuto anche alla presenza di un certo Lionel Messi, che comunque in patria è meno amato di Carlitos. Il motivo è semplice, Tévez ha giocato in Argentina e ha vinto tutto, Messi avrà anche vinto tutto in Europa, ma in Argentina non ha fatto niente. Questo è quello che pensano gli argentini. Per i giovani il modello da seguire è Tévez, soprattutto per la caparbietà che ha avuto nel non mollare mai.
Carlos è ”el judador del pueblo”, in molti argentini sono convinti che la nazionale non abbia vinto il mondiale passato perché non c’era Tévez. Se ci fosse stato, sarebbe finita in maniera diversa.
Nonostante sia stato descritto come un ragazzo dal carattere difficile, in campo si è sempre comportato da professionista.  Corre, si impegna, lotta, combatte, non tira dietro la gamba, rincorre gli avversari, si mette sempre a disposizione della squadra. Un attaccante per il quale ogni allenatore farebbe carte false. A tutta questa dedizione bisogna aggiungere una tecnica sopraffina, da buon argentino non poteva essere altrimenti. Possiamo considerarlo una seconda punta, gli è sempre piaciuto partire da lontano, se c’è da saltare due o tre avversari di fila non si fa problemi. Molti dei suoi gol, sono arrivati partendo da sinistra per poi accentrarsi e scaricare tiri che in molti casi erano dei missili, ma non sdegnava anche a conclusioni precise. Da segnalare la sua capacità di calciare da fermo e dare alla palla una forza e una velocità incredibile, uno su tutti il gol al Borussia Dortmund in Champions League.

Con il proseguire degli anni si è ritagliato anche il ruolo da leader, alla Juventus lo ha incarnato alla perfezione. Fuori dal campo, in allenamento e in partita. A confermarlo anche le dichiarazioni di Alvaro Morata : “Quello che impressiona di Tévez il fatto che lui non avrebbe bisogno di correre così tanto, di metterci sempre quella cattiveria e quell’impegno, potrebbe anche non difendere come fa lui, eppure lo fa! Lui è un fenomeno che gioca con l’attitudine di un esordiente”.
Dopo due anni di bianconero ha salutato tutti ed è tornato dove il suo cuore gli ha sempre detto di andare, a casa sua, alla Bombonera. Accolto come si accoglie un eroe, è stato applaudito dalla sua gente e dall’inimitabile numero diéz,Diego Armando Maradona.
Gioca, segna e fa vincere subito il Boca. Gli Xeneizes vincono la Primera Division e pochi giorni dopo la Copa Argentina. A Febbraio saranno trentadue candeline per Carlos, avrebbe potuto continuare ancora a giocare in Europa, ma saranno gli argentini a goderselo dal vivo per i prossimi anni.

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Con tutti i soldi guadagnati durante la carriera avrebbe potuto cancellare quella cicatrice e migliorare il suo aspetto esteriore, invece ha deciso di mantenerla. Il messaggio che ha ripetuto ad ogni intervista è che secondo lui l’uomo è bello per quello che ha dentro e non per quello che è fuori.
La sua terra, la sua gente sono state le costanti della sua carriera. Ad ogni gol ha mostrato la maglia con le dediche verso il suo barrio. Perché Carlitos lo sa che non se fosse nato lì, se non fosse cresciuto rischiando la vita, se non avesse patito la povertà, non sarebbe mai diventato il calciatore che è.
“Sono cresciuto nel mio barrio e ho l’essenza del barrio. Nelle villas si vive con gli stessi codici, la stessa gente, la stessa sofferenza, la stessa allegria”.
Ha giocato in due continenti, in quattro stati, in sei squadre diverse, eppure non ha saputo fare altro che vincere. Si è sempre preso l’amore dei tifosi, ovunque sia andato, perché uno così non puoi fare altro che amarlo. Può anche sbagliare, ma si fa perdonare perché rincorre subito l’avversario. Sempre a testa bassa, sempre concentrato, il calcio gli ha dato tanto, ma lui non si è mai fermato un attimo a godersi i soldi e la fama. Ha continuato a correre e a vincere.
E’ riuscito a portare la primavera nel suo barrio, ha portato la speranza, ha dimostrato che anche se nasci a Fuerte Apache puoi diventare qualcuno. Ora tutti i ragazzini sognano di diventare come Carlos Tévez.
L’eroe dei due mondi, l’eroe vestito da calciatore.

Gezim Qadraku.

Ho visto due genitori sacrificarsi

Avevo l’esame di economia internazionale stamattina, non ho chiuso occhio tutta notte, è già la terza volta che lo provo. Il tragitto in treno fino a Milano è stato nauseante. Non lo prendo mai così presto, era pieno di gente, non c’era neanche lo spazio per muoversi, figurarsi per sedersi. Faceva così caldo che faticavo a respirare, per un momento mi è sembrato di svenire. Ho incominciato a sudare freddo, tremavo, mi sono lasciato cadere per terra, sono rimasto in quella posizione a fissare le scarpe delle persone tra l’indifferenza di tutti.
Dopo l’abituale ritardo del treno e le due fermate della metro sono riuscito ad arrivare in tempo in università. Il professore ha fatto l’appello, non ero tra quelli che sarebbero stati interrogati la mattina. Dovevo tornare dopo le 14.
Ho passato la mattina in biblioteca, verso mezzogiorno sono andato a sgranocchiare qualcosa da McDonald’s. Mi sono seduto in un tavolo per due, di fianco a me c’era una madre di origini sudamericane con il figlio piccolo, avrà avuto 4-5 anni. Lui stava mangiando il suo happy meal, quello che costa quattro euro e dentro c’è la sorpresina, la madre non aveva preso niente. Il bambino non stava zitto un secondo, continuava a parlare, i suoi argomenti spaziavano dalla sorpresa che aveva trovato, agli amichetti di classe, alle avventure all’asilo, ma la madre non lo calcolava minimamente.
Era distratta, aveva lo sguardo perso, le mani rovinate da chissà quale lavoro pesante. Era lì ferma immobile che fissava il vuoto, ho immaginato che si fosse concessa un attimo di riposo, un momento di vita, in quella che era la sua struggente quotidianità fatta di sacrifici e di fatica.
Non erano vestiti benissimo, il bambino aveva la roba del mercato, quei vestiti sbiaditi e abbelliti con delle pezze improponibili.
Ho pensato a che lavoro facesse lei, a quanti cessi lavava al giorno, a quanto veniva pagata, a quanto si sacrificava per poter portare il figlio a mangiare da McDonald’s per non fargli notare che erano poveri.
Non aveva la fede al dito, sicuro il padre del piccolo era scappato e aveva lasciato a lei il compito difficile.  Il bambino continuava a parlare, ogni tanto lei gli sorrideva e gli accarezzava il volto, chiedendogli se gli piaceva quello che stava mangiando, lui annuiva felice e gli occhi di lei si riempivano di orgoglio. Avrei voluto dirle qualcosa, darle una pacca sulla spalla, aiutarla in qualche modo, ma non sono riuscito a fare niente se non continuare a mangiare.
Cosa ne potevo sapere io dei suoi sacrifici? Io che mi stavo cagando addosso per uno stupido esame universitario. Lei invece che in quei momenti pensava a come mettere da parte i soldi per arrivare a fine mese, per poter riportare il figlio a mangiarsi un hamburger. Ho finito di mangiare e nel frattempo mi sono accorto che mi ero liberato dell’ansia che mi aveva attanagliato per tutta la notte. Sono uscito, la porta si è chiusa dietro di me, mi sono girato solo una volta, la scena non era cambiata. Il bambino parlava e la mamma era persa nelle sue paure.
Ho superato l’esame, ho mandato un messaggio sia a mamma che a papà. Quando sono tornato a casa entrambi erano lì, impazienti di festeggiare la bella notizia. Distrutti, ma felici, dopo l’ennesima giornata passata a spaccarsi la schiena per permettermi di studiare e non farmi mancare niente. Abbiamo mangiato e bevuto, ci siamo spostati in salotto per finire la serata. In tv non c’era niente di interessante, ho abbassato il volume e ho chiesto loro di raccontarmi i sacrifici che avevano fatto per me.
Si sono commossi entrambi, mamma ha girato la testa verso la finestra per non farsi notare, papà ha tirato fuori un sorriso per cercare di mascherare le lacrime. Nessuno dei due è riuscito ad aprire bocca, ho capito da quelle lacrime quanto poteva essere stato faticoso per loro crescermi e quanto si erano sacrificati.
Non sempre i figli si accorgono dei sacrifici dei propri genitori. Questa è una grande ingiustizia.

Gezim Qadraku.