Quelle lettere dal Kosovo

Ogni volta che torno a trovare i miei genitori, a mamma piace tirare fuori vecchi album di famiglia. Le piace trascorrere le serate a commentare le foto e ricordare a me e a mio fratello che dovremmo farcene più spesso.

L’altra sera, mentre guardavamo la televisione, mi ha detto che ha ancora tutte le lettere che avevamo ricevuto dai nostri parenti durante i primi anni in Italia. È stato come ricevere una scossa elettrica.

Tirale fuori subito”, le ho detto.
Soltanto nel momento in cui ho concluso la frase, mi sono accorto del pasticcio nel quale mi ero cacciato.

Col passare degli anni ho preso coscienza della mia sensibilità e di una facile predisposizione alla commozione. Predisposizione che raggiunge il suo apice, quando si tratta del trascorso dei miei genitori in Italia.

È bastato leggere le prime frasi di un paio di lettere, per sentire il nodo alla gola. Così ho dato soltanto un’occhiata veloce a tutte, consapevole che se mi fossi messo a leggerle, sarei scoppiato in un pianto infinito. E volevo evitarlo, con tutti i membri della mia famiglia presenti. Se una parte della motivazione è una vergogna stupida, l’altra è dettata dal fatto che per godermi a pieno una cosa, ho bisogno di essere da solo. Così, nel caso dovessi emozionarmi, potrei piangere senza freni, senza il bisogno di dover dire che va tutto bene. Rovinerebbe il momento.

Così ho aspettato che tutti andassero a dormire per iniziare a leggere. Le lettere sono datate dal 1995 al 1998. La prima domanda che mi sono posto leggendole è stata come diavolo avessero fatto a inviarsele. Il giorno dopo mamma mi ha detto che non utilizzavano la posta, bensì aspettavano che qualcuno dei loro amici kosovari in Italia andasse in Kosovo e gliele davano da portare ai nostri parenti. E loro facevano la stessa cosa. Un processo che prevedeva un’attesa estenuante, infinita. Da una lettera all’altra potevano passare parecchi mesi. Come fai ad aspettare per un lasso di tempo così lungo soltanto per sapere che un tuo caro sta bene?

Tante cose, di quelle lettere, mi hanno colpito.

La prima è l’inizio di esse. Le prime righe sono sempre scritte in maniera molto cordiale.

“Io, …, saluto te mio fratello, tua moglie e tuo figlio. Ho deciso di scriverti questa lettera e facendolo prima di tutto spero che stiate tutti bene.”

All’introduzione segue sempre una valanga di sentimenti.
Amore, mancanza, dolore, speranza, nostalgia.
Nella nostra cultura non è prevista l’esposizione palese dei sentimenti. Qualsiasi cosa succeda, c’è sempre un certo contenimento alla base. Contenimento che viene rispettato in maniera impeccabile nel dolore e un po’ meno nella gioia. Mi sono sempre chiesto come facessero a vivere una vita così contenuta sentimentalmente. Una parte della risposta penso di averla trovata in quelle lettere. Era lì che si lasciavano andare. In quei fogli potevano farlo, lontano da occhi indiscreti. In quelle lettere ho visto la parte sentimentale che non avevo mai visto delle mie persone.

La situazione in Kosovo in quel periodo era abbastanza difficile. Quello che ripetono i miei genitori nei racconti è la parola “niente”. Non si muoveva niente. Era praticamente impossibile trovare lavoro. Non c’era alcuno sprazzo di cambiamento. La calma piatta. Una lotta giornaliera per sopravvivere. E così per ogni famiglia la persona che riusciva ad emigrare diventava l’ancora di salvezza. In questo caso mio padre.

Ho sempre pensato al dolore dei miei genitori nel dover lasciare tutto e iniziare una nuova vita. Soltanto leggendo quelle lettere mi sono reso conto di non aver mai pensato all’altra faccia della medaglia. A coloro che erano rimasti, che aspettavano notizie, che provavano a immaginarsi cosa potesse voler dire vivere in Italia.

E così ho scoperto tutto il dolore di mio zio paterno, di qualche anno più vecchio di mio padre. Delle sue lettere che iniziavano sempre giurando a mio padre che loro stavano bene e di non preoccuparsi. Che invece lui si preoccupava di come stesse mio padre, di quanto stesse faticando. C’è un punto nel quale gli dice:

“Lo so che stai tirando avanti con il petto”.

Un’espressione in lingua albanese per dire che stai dando tutto quello che hai, ogni forza fisica a tua disposizione.

E a mio nonno che in Sicilia ancora spreme la vite nell’orto.
Ed a mio padre hanno spremuto la vita dal corpo

Chiedi alla polvere – Marracash

In un altro passaggio gli ricorda di come i miei cugini non fanno altro che parlare di noi e di me, in particolare. Gli chiedono di quando tornerò a giocare con loro e di come ogni volta che lui nomini uno di noi, i loro occhi si spalancano, convinti che possiamo saltare fuori da un momento all’altro. Di come un giorno abbia chiesto a entrambi di leggere delle poesie ad alta voce e lui ha registrato una cassetta con le loro poesie. Gli dice anche di godersi alcune cassette di musica popolare che gli ha comprato un giorno al mercato, che sono delle nuove uscite e che è sicuro che gli piaceranno.

E allora mi viene impossibile trattenere la commozione pensando alla sensibilità e all’amore di mio zio che si reca al mercato e compra qualcosa che possa aiutare mio padre ad alleviare la nostalgia e il dolore. Il bene del fratello che arriva prima del suo. Mi esplode il cuore pensando ai miei cuginetti mentre leggono le poesie e mio zio che registra il tutto. Inconsapevoli del bene che avranno fatto a mio padre con quel gesto.

E poi ancora di quell’anno nel quale tutti si aspettavano che saremmo riusciti a tornare per capodanno, ma a quanto pare non riuscimmo. E lo zio che non riesce a trattenere il dolore. Utilizza un’espressione fortissima nella lingua albanese, difficilmente traducibile. Ci provo comunque.

Dice:

“Stiamo diventando ciechi a furia di non vedervi”

Poi conclude la lettera affranto.

“Eravamo convinti di potervi vedere quest’anno, ma non ce l’avete fatta a tornare. A quanto pare la vita non va mai come uno spera”.

Ci sono anche attimi di felicità in quelle lettere. Soprattutto in quelle dopo la nascita di mio fratello. Gli auguri e le felicitazioni. Tutti che chiedono a mamma e papà se il piccolino è tranquillo o irrequieto e nervoso come il sottoscritto. Per fortuna il fratellino è sempre stato uno tranquillo. Giuro, hanno scritto proprio “nervoso”, riferito a me. Avevo due anni l’ultima volte che mi avevano visto, già nervoso ero.

A rimanermi impresso di quelle lettere è quello strato di dolore che ha accompagnato la vita dei miei genitori, dei nostri famigliari e del nostro popolo in generale. Mi tornano in mente le parole che Oriana Fallaci dedicò a Pier Paolo Pasolini:

“La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente.”

Pensando ai miei genitori, ai miei famigliari e al mio popolo, mi verrebbe da dire che loro hanno sempre portato addosso il dolore onorandolo nella maniera più rispettabile possibile, mostrandosi sempre contenuti, impedendo a loro stessi di lasciarsi andare. E probabilmente la sofferenza è la condizione umana che più hanno compreso, quella nella quale, per assurdo, si sono sentiti più a loro agio. Mi è sempre sembrato che nella gioia e nella felicità fossero nudi, senza strumenti, impreparati su quale fosse il comportamento da mantenere e di come avrebbero dovuto vivere quei momenti.

E allora non posso fare altro che chiedermi se ne valesse la pena. Nonostante sia bello e toccante poter rivivere in parte quei momenti, osservando quanto di buono siamo riusciti a fare in tutti questi anni. Ma a che prezzo?
Mi domando cosa avrei fatto o detto loro, se avessi potuto, nel momento in cui decisero di lasciare la propria terra. Ora mi verrebbe da dire loro di non farlo. Di non lasciare la propria terra, di non andare così lontano dai propri cari. Mi chiedo perché abbiano considerato i nostri sogni più importanti dei loro. Ripenso alla felicità e all’orgoglio che hanno provato nel sostenerci e godersi insieme a noi i traguardi che siamo riusciti a raggiungere. Ripenso alle loro parole spese per ogni traguardo. A quelle specifiche frasi.

“I vostri traguardi ci fanno sentire meno la stanchezza.
I vostri traguardi ci dimostrano che ne è valsa la pena.”

Mi chiedo per quanto tempo ancora questa bugia che si raccontano possa tenerli in vita.
Avrei voglia di tornare indietro nel tempo e dire loro di restare, di combattere per provare a realizzare i loro, di sogni.

Mi porto con me l’umanità di quelle parole. Il dolore, l’amore e la profondità di certi passaggi. Amo scrivere e le lettere sono qualcosa che mi fanno tremare il cuore. L’idea che un momento, un sentimento, possa restare per sempre su un foglio di carta, mi fa impazzire. Dopo aver compreso la predisposizione alla commozione, negli anni ho capito che grazie a lacrime, silenzio e scrittura, avrei potuto superare qualsiasi momento difficile.

“Ne parlai quasi tacendo. Io sono un maestro nel parlare tacendo, ho parlato tacendo per tutta la mia vita e ho vissuto vere tragedie dentro me stesso.”

Fëdor Dostoevskij

Esisto perché scrivo”, mi ritrovo a ripetere a me stesso sempre più spesso. Non so come una persona viva le proprie emozioni, ma io ho la sensazione che quello che vivo e sento, sia troppo forte da esprimere a voce. Ho la percezione che il mio corpo potrebbe esplodere in mille pezzi, se dovessi esprimerlo a voce. Per questo mi viene più facile mettere tutto per iscritto, accompagnandolo con le lacrime. Tante, troppe probabilmente. Ma ormai ho capito che questo è l’unico modo che mi permette di vivere a pieno il momento. Indipendentemente che sia positivo o negativo.

L’emozione di trovarsi tra le mani lettere ricevute o scritte anni prima è un dono che auguro a tutti. Concludo consigliandovi di scrivere a mano, ogni tanto. Mi auguro che abbiate qualcuno a cui dedicare le vostre parole. Nel caso non ce l’aveste, scrivete a voi stessi. Un giorno quegli scritti vi ricapiteranno tra le mani e sarà fantastico fare un salto nel passato. Vi emozionerete, forse piangerete, magari vi tremerà il cuore ed è molto probabile che vi farete un paio di risate ripensando a ciò che eravate e potreste essere felici di quello che nel frattempo sarete diventati.

Gezim Qadraku

Esistere

Quando Tommy mi disse che se ne sarebbe andato, stavo guidando. Eravamo in macchina, diretti verso ‘Da Arnaldo’ per l’aperitivo. ‘Da Arnaldo’ era un ristorantino poco fuori Milano, che il venerdì faceva quello che io e Tommy consideravamo il miglior aperitivo della zona. Ci andavamo già da un anno. Ogni venerdì. Non ne avevamo saltato uno. Dopo la prima volta, nella quale eravamo capitati lì per puro caso, avevamo deciso che quell’aperitivo sarebbe diventato il nostro momento. Che non saremmo mai mancati, che non avremmo permesso a nessuno di mettersi in mezzo e di rovinarcelo. Il venerdì sera non c’eravamo per nessuno. Né per le nostre famiglie, né per gli amici, né tantomeno per le nostre ragazze, Clelia e Gloria.

Era la seconda settimana di settembre. Uno dei momenti dell’anno che preferivo. Le persone erano da poco tornate dalle vacanze e l’abbronzatura sui loro volti ne era la prova. Durante il giorno le temperature erano ancora alte, tanto da permettere alla gente di indossare abbigliamenti estivi. La sera le temperature calavano e di conseguenza bisognava mettersi una felpa o un giubbottino. Mi piaceva da morire osservare il contrasto tra la pelle abbronzata e un capo pesante. Alla radio parlavano della crisi dell’Eurozona, di paesi in gravi difficoltà economiche, che rischiavano di fallire. Di andare in default, dicevano. La parola default, associata a un paese, mi sarebbe rimasta impressa per tanti anni. Non riuscivo a capire come uno stato potesse fallire.

Ero passato a prenderlo da una decina di minuti. Avevamo chiacchierato del più o del meno, prendendoci qualche secondo di silenzio. Poi, dal nulla, Tommy aveva lanciato la bomba.
“Me ne vado a Berlino. Ho ricevuto un’offerta di lavoro che non posso rifiutare. “
Si prese una pausa di qualche secondo.
“Parto a novembre”, concluse.
Un silenzio assordante si era impadronito della mia testa. Mi fischiavano le orecchie. La voce del dj alla radio suonava lontana e impossibile da decifrare. Tommy aveva ripreso a parlare, dopo una sosta di non so quanti minuti. Probabilmente si era aspettato una reazione da parte mia. Non ricevendola, aveva iniziato un altro discorso, passando a tutt’altro argomento. Aveva liquidato la faccenda di Berlino in pochi secondi, come se nulla fosse. Parlava, ma le sue parole mi raggiungevano in ritardo. Non riuscivo e non volevo comprenderle. Ero rimasto in silenzio, focalizzando le poche energie che mi erano rimaste nella guida. Anche se mi pareva di guidare esclusivamente per inerzia. Non avevo il pieno controllo di quello che stavo facendo.

Avevo parlato poco quella sera. Non ricordo cosa avevamo ordinato da bere. Tantomeno rammento cosa avevano portato da mangiare. Avevo spiaccicato qualche parola, con tono distaccato e assente. Avrei preferito tornarmene subito a casa e chiudermi in camera mia, invece di stare lì e recitare come se non fosse accaduto nulla. Mi sentivo ferito, umiliato, tradito.

Perché aveva deciso di partire?

Cosa c’era che non andava nella sua vita qui?

E perché aveva preso una decisione del genere senza prima parlarne con me?

La mia opinione non era più importante?

La ferita di quel tradimento mi sarebbe bruciata per un tempo eccessivamente lungo.

Il 3 novembre sarebbe arrivato troppo in fretta. Un giorno lui era il mio porto sicuro, il giorno dopo era a mille chilometri di distanza. Mi rinchiusi in un mutismo che durò mesi. Non avevo voglia di fare niente. Eseguire la più piccola delle azioni mi provocava fastidio e stanchezza. L’unica fonte di benessere era Gloria, ma mi mancava Tommy e non sapevo come colmare la sua assenza.

All’inizio tornava per ogni festività e qualche weekend. Durante il primo anno ci sentimmo spesso, poi le conversazioni iniziarono a diminuire. Qualcosa si era rotto, in me. In lui, invece, sembrava che nulla di trascendentale fosse accaduto. Parlava sempre del futuro. Di esperienze che avrebbe voluto fare, di progetti che aveva in mente, di paesi che avrebbe visitato. Io, invece, cercavo di portargli alla memoria i nostri trascorsi insieme. Io ero ancorato al passato. Il mio sguardo era rivolto all’indietro. Ma a lui di parlare del passato non piaceva e si stufava velocemente a ricordare le nostre esperienze. Per me, invece, era come una medicina. Il solo ricordo della felicità era sufficiente per farmi sentire meglio.

Una sera a cena, dopo mesi dalla sua partenza, papà aveva provato a svegliarmi.
“È solamente andato a vivere in un altro paese, mica è morto. Non c’è bisogno di reagire così. La vita va avanti.”
Avevo ignorato le sue parole, mantenendo la mia concentrazione sul cibo. Il suo modo di leggere la situazione mi sembrava così banale e superficiale. I classici consigli non richiesti da parte di una persona non coinvolta nella faccenda. Probabilmente si era aspettato una risposta, e non ricevendola, aveva rincarato la dose.
“Guarda che nella vita ci sono cose molto peggiori. Se per una cosa così reagisci in questo modo, per eventi più gravi cosa farai?”
L’avevo guardato fisso negli occhi. Avrei voluto sputargli in faccia, ma continuai a mangiare la cotoletta.
A quel punto aveva perso la pazienza e il suo tono di voce era aumentato.
“Ma tu cosa pensi, che la gente prenda le decisioni della propria vita pensando a te? Tu saresti rimasto qui per lui? Non avresti accettato un’esperienza del genere?”
Era riuscito a toccare il nervo scoperto. Tirai fuori tutto quello che avevo tenuto dentro per mesi.
“Si!
Io sarei rimasto qui per lui.
Io non me ne sarei mai andato via per un’offerta di lavoro!
Che cazzo di bisogno aveva di andare a Berlino, me lo spieghi?” urlai a squarciagola.

Schiumavo rabbia. Avrei voluto tirare un pugno a qualcosa o a qualcuno. Per qualche secondo avevo pensato di prendere un piatto e lanciarlo addosso al muro con tutta la forza che avevo. Sentivo il rumore del piatto andare in frantumi, accompagnato dal mio urlo assatanato e dal mio respiro affannoso. Non avevo avuto il coraggio di farlo. Come non ho avuto il coraggio di fare tante altre cose nella vita. L’assenza di coraggio mi avrebbe permesso di eccellere soltanto in una cosa, collezionare rimpianti.

“Non farlo mai. Non decidere mai della tua vita sulla base di un’altra persona. Le persone un giorno ci sono, il giorno dopo non ci sono più. Ognuno insegue i propri sogni. Ognuno di noi ha i propri interessi. E non possiamo fare altro che seguirli. Anche tu ce li hai, i tuoi sogni, i tuoi interessi. Soltanto che adesso hai la mente offuscata e non li vedi. Un giorno ti metterai a inseguirli e questo comporterà perdere affetti, persone, posti e tanto altro”, mi disse papà, prima di alzarsi da tavola. Non tornò mai più su quel discorso.

Trascorsi i giorni successivi a chiedermi quali fossero i miei sogni, i miei interessi. Io stavo bene dov’ero. Non avevo nessun desiderio di andare altrove. Gloria era l’amore della mia vita e sapevo già che l’avrei sposata. Ci saremmo comprati un appartamento a Milano, distanti abbastanza dai nostri genitori, ma non troppo. Mi trovavo a mio agio nella costante ripetizione delle abitudini che si erano create con le nostre famiglie. La settimana in montagna con i suoi e quella al mare con i miei. La vigilia da lei e il Natale da me. A Capodanno visitavamo sempre una città diversa dell’Italia. Stavo bene e non avevo bisogno di altro. Non mi interessava imparare le lingue straniere, fare esperienze di lavoro all’estero, farmi amicizie in tutto il mondo.

A Tommy invece sì. I suoi ritorni diminuirono. Ad aumentare, invece, era la sua felicità. Veniva sempre più di rado, ma ogni volta sembrava più felice. Aveva preso l’abitudine di portarsi uno o più amici, quando scendeva. Persone che non conoscevano l’italiano e con le quali bisognava conversare in inglese. Idioma che non masticavo e di conseguenza non riuscivo mai ad avere una conversazione che si potesse definire tale con i nuovi amici di Tommy. Nessuno di loro lo chiamava Tommy. Tutti Tommaso. E il modo in cui pronunciavano il suo nome, mi infastidiva profondamente. Nessuno riusciva a pronunciare bene la doppia emme. Pronunciavano il suo nome come se avesse una sola emme e due esse. Tomasso. A darmi ancora più fastidio era il suo atteggiamento nei confronti di tutto questo. Non diceva niente, non correggeva nessuno. Si divertiva e si godeva il sempre poco tempo che trascorreva in Italia con i suoi amici internazionali.

Il punto più alto del fastidio che provai nei suoi confronti si manifestò alla mia festa di compleanno per i 25 anni. Era venuto da solo e prima dell’inizio della festa, davanti a tutti, annunciò che sarebbe andato in Giappone. Aveva ottenuto una borsa di studio per un master in qualcosa. Non ricordo cosa, non mi interessava. La mia attenzione si era fermata al nome del paese, Giappone.
Ancora più lontano. E chissà se ci saremmo mai più rivisti. A darmi fastidio, più che il Giappone, o la decisione di avermelo detto in quell’occasione, era la sensazione di quanto quello che era stato il nostro rapporto, incidesse sempre meno nelle sue scelte di vita. Sembrava non accorgersi di tutto il tempo che stavamo perdendo, di quanto la distanza ci stava impedendo di goderci la nostra amicizia. Tutto ciò non sembrava toccarlo, probabilmente neanche ci pensava e questo mi stava distruggendo. Mi provocava dolore fisico e mentale. Avrei voluto dirgli e chiedergli tante cose, ma non ce l’avrei mai fatta. Più lui si allontanava e più io mi sentivo sprofondare e non sembrava potesse esserci qualcosa che mi avrebbe potuto salvare.

Mi disse una cosa, prima di volare a Tokyo.

“Hai paura. Sei rigido, teso come una corda. Lasciati andare, goditi la vita. E prova a uscire da questo buco. Fatti un’esperienza anche tu. Poi torni, mica sei obbligato a restare fuori per sempre.”

L’o feci. Uscii anch’io da quel buco. Per sei mesi. Sei mesi nei quali l’azienda per la quale lavoravo da quando mi ero laureato, mise a disposizione due posti per due volontari che avrebbero voluto fare un’esperienza a Parigi. Ci andai. Risposi subito alla mail. Mi candidai con urgenza, come se qualcuno mi stesse inseguendo.
Odiai Parigi. Odiai quei sei mesi. Non mi portai niente di bello a casa da quell’esperienza. Trascorsi quei mesi facendo il countdown. Ci impiegai poco ad accorgermi che non l’avevo fatto per me. L’avevo fatto per lui, per Tommy. Mi chiamò tante volte in quel periodo e la cosa mi rese felice. Iniziai a pensare che ci stessimo finalmente riavvicinando. Che forse quella cosa di andare a Parigi avrebbe funzionato. In realtà le cose non cambiarono. Non riuscii ad aumentare il mio condizionamento sulle sue scelte di vita. Io ero andato a Parigi per lui, per fargli vedere che stavo provando a diventare ciò che mi aveva consigliato. Era stato il mio ultimo, disperato, grido di dolore. Speravo che quella mia esperienza, per qualche stupido motivo, l’avrebbe convinto a tornare in Italia. Ripensandoci ora, mi rendo conto di quanto lontano fossi dalla realtà. Lui continuava la sua vita, indipendentemente da ciò che causava alla nostra amicizia. Io non ero più un fattore. Nessuno lo era per Tommy. Lui era immune, indipendente da tutto e tutti.

Mi tornarono alla mente le parole che papà mi aveva ripetuto fino allo sfinimento mentre mi aveva insegnato a guidare la macchina.

“Sei tu che devi guidare la macchina, non è lei che deve guidare te.”

Presi la patente senza il minimo intoppo, ma non capii mai il significato di ciò che voleva dire con quella frase. L’avrei capito soltanto guardando Tommy e cercando di comprendere il motivo che lo spingeva a stare così lontano da casa e a saltare da un paese all’altro.

Grazie a lui, compresi che nella vita esistono due tipi di persone. Quelli come Tommy, che esistono di luce propria, che la macchina la guidano, che azzannano la vita, che afferrano tutto ciò che vogliono. Quelli che non hanno paura. Quelli che entrano nella tua vita, la stravolgono, ti cambiano il modo di guardarla e di loro non ti dimenticherai mai. E poi ci sono quelli come me. Quelli che si fanno guidare dalla macchina, quelli che aspettano, che hanno paura, quelli che non esistono, dei quali non ti accorgi e se ti capita di incontrarli, la tua vita non ne risente. Procede e resta la stessa di prima che li incontrassi. Io ero rimasto lo stesso da quando Tommy se n’era andato, mentre lui era diventato tante cose. Lingue, culture, persone, abitudini. Il suo coraggio e la sua curiosità nell’intraprendere nuove esperienze, lo aveva fatto diventare una persona eccessivamente interessante. Era bello guardarlo stare al mondo. Esisteva in maniera differente dagli altri.

Nelle notti nelle quali non riuscivo a prendere sonno, mi mettevo a pensare e mi chiedevo quanto potesse valere una vita come la mia e quanto invece una come quella di Tommy. Sapevo che la differenza era abissale. Se solo avessi potuto fare un salto indietro di dieci anni, se solo avessi avuto coraggio. Invece di sprecare il mio tempo a cercare di comprendere la sua decisione, avrei dovuto seguirlo. Concludevo pensando a lui, nella speranza che il mio pensiero lo raggiungesse. Prima di chiudere gli occhi, l’immagine che la mia mente creava era sempre la medesima. Io e lui all’aperitivo, felici. Sapevo che sarebbe successo di nuovo. Che ci saremmo tornati, che avremmo ricominciato ad andarci ogni venerdì sera e tutto sarebbe tornato come prima. E mentre sognavo quel momento, mi ripetevo le parole che mi aveva scritto per farmi gli auguri del mio 30° compleanno.

Da quando me ne sono andato, sei la persona alla quale penso di più.

Gezim Qadraku

Ce ne andiamo in Italia (parte finale)

Fa freddo, sento il vento intrufolarsi tra la sciarpa e il colletto del cappotto e in un millesimo di secondo raggiungere tutto il corpo. L’aria gelida mi provoca un brivido alla schiena. È tardi, sono almeno dieci minuti che ti aspetto. Decido di chiamarti, anche se questo implica dover tirare fuori la mano dalla tasca del cappotto per prendere il cellulare, che è in borsa. Il gesto mi costa l’esposizione dell’arto all’aria fredda. Questo non fa altro che aumentare il mio nervoso. Cerco tra le ultime chiamate, il tuo nome è il primo della lista. Ti chiamo. Il telefono continua a squillare a vuoto. Al quinto squillo finalmente rispondi.
Arrivo”, dici subito e metti giù. Capisco che stavi dormendo. Quindi ti ci vorranno un paio di minuti per prepararti, sommati al quarto d’ora per arrivare qui. Tempo che dovrò passare seduta, al freddo, su una panchina di fronte al parcheggio dell’azienda per la quale lavoro. Se solo avessi la patente, se solo fossi stata in grado di diventare una donna indipendente, in tutti questi anni in Italia.
Tisha kan e hajrit”, non avrei dovuto aspettarti la sera, al freddo, sudata, dopo aver passato cinque ore a pulire gli uffici e i bagni dell’azienda. Ma no, in Italia l’unico traguardo che sono riuscita a raggiungere è stato diventare una donna delle pulizie. Non ho fatto altro che pulire. Prima le case degli amici dei nostri figli, poi quelle di persone ancora più benestanti, dove ho compreso il significato del verbo “vivere” e poi il salto di qualità, l’ultimo step. Un contratto vero, niente più soldi in nero lasciati in una busta sopra il tavolo della cucina. Ora pago anche i contributi per la pensione. Un contratto di lavoro legale, dopo 25 anni trascorsi in Italia.
Dicono che non è mai troppo tardi. Dicono anche che i soldi non fanno la felicità. Dovrebbero provare cosa vuol dire vivere senza di essi e trascorrere la vita a spaccarsi la schiena per guadagnarne giusto abbastanza da poter sopravvivere. Ripenso a quali erano i miei sogni quando arrivammo qui. Pensavo addirittura di completare gli esami che mi erano rimasti e di laurearmi. Che ingenua. Ma come pensavo di riuscire a fare tanto?

Ricontrollo il cellulare e sono passati soltanto cinque minuti. Ho freddo, ho fame e sono esausta. Voglio soltanto farmi una doccia bollente e andare a dormire. La mente mi riporta indietro ai primi giorni in Italia, non riesco ad allontanarmi da quei ricordi. Ripenso alla felicità per la possibilità di poter avere una nostra intimità. Alla gioia incontenibile nel sapere che i nostri figli avrebbero studiato qui e sarebbero diventati qualcuno. Mi domando perché una persona si costruisca così tante aspettative basandosi esclusivamente sulla propria immaginazione. Mi chiedo perché, dopo Blerim, abbiamo deciso di avere altri due figli. Non pensavamo a quanti soldi ci sarebbero serviti per crescerli? A quante cose ci avrebbero chiesto durante la loro crescita?
Non pensavamo a niente, eravamo come sotto gli effetti di qualche sostanza stupefacente. Eravamo fatti di speranza. Non consideravamo la realtà delle cose. Essere stranieri, non sapere la lingua e non conoscere nessuno. La nostra quotidianità sarebbe stata condizionata da tutto questo e l’avremmo pagato a caro prezzo. La speranza ci aveva resi ciechi. Il tuo stipendio bastava a malapena, poi io iniziai a pulire e con quegli spiccioli riuscivo a pagare almeno la spesa. Così potevamo mettere da parte qualche soldo per goderci le estati in Kosovo. L’unico posto dove potevamo permetterci di andare. L’unico posto dove volevamo andare. Dove per anni abbiamo portato avanti questa narrativa della vita agiata e delle possibilità immense che un paese come l’Italia ci dava. Facevamo i peggiori lavori, tornavamo a casa distrutti e la nostra quotidianità era cadenzata dal conteggio dei mesi che mancavano all’estate, al momento del ritorno. Avremmo dovuto raccontare la verità. Avremmo dovuto essere fieri di noi stessi, di quello che stavamo facendo. Avevamo deciso di buttare via la nostra vita, di spaccarci la schiena, di pulire la merda degli italiani, di fare i lavori che a loro non andava di fare, solo ed esclusivamente per dare ai nostri figli un futuro migliore. Ma tutto questo non lo raccontavamo a nessuno, lo nascondevamo, come una persona cerca di coprire e nascondere un difetto fisico agli occhi degli altri. Ci vergognavamo di noi stessi, ma non avremmo dovuto. Saremmo dovuti andare in giro con un cartello sopra la testa, con scritto a caratteri cubitali “sto pulendo la merda per dare ai miei figli un futuro migliore”.

C’era da andarne fieri e camminare a testa alta. In Kosovo ci dicevano tutti che eravamo salvi, che stavamo facendo la bella vita.
Jeni pshtu, u knaqt nat Itali.”
Dovevamo far vedere di aver fatto i soldi e così li davamo via per aiutare gli altri. O meglio, tu li davi ai tuoi fratelli. Costruivi a loro case, mentre noi, ogni estate, dovevamo andare a dormire da loro. Venticinque anni in Italia e siamo riusciti, a fatica, a comprarci un misero appartamento in Kosovo. Hai dovuto chiedere i soldi in prestito ai tuoi fratelli e poi hai dovuto darli indietro. Tu, invece, a loro li avevi regalati. Non sei mai cambiato in tutti questi anni ed è finita come immaginavo. È finita che dopo i tuoi fratelli, anche i tuoi figli ti hanno messo i piedi in testa. Albina si è sposata con un italiano. Tu le hai detto che non l’avresti mai più fatta entrare in casa e lei non è più tornata. Le ultime parole che ti ha rivolto sono un incubo che mi perseguita ogni giorno.


Se il vostro unico obiettivo era che ci sposassimo con un albanese, potevate tranquillamente rimanere in Kosovo. Non c’era bisogno di venire in Italia. Una vita a romperci i coglioni che l’avete fatto per darci un futuro migliore e poi l’unica cosa che veramente vi interessa è la nazionalità del nostro partner. Dovevate rimanere in Kosovo, saremmo stati tutti più felici.

Dopo Albina, è stato Blerim a uscire di casa. È andato a studiare a Roma, ha cercato di allontanarsi il più possibile da noi e ce l’ha fatta. Valon, invece, vive ancora qui, ma a fatica lo vediamo. Torna a casa tardi dal lavoro e il weekend lo passa sempre dai suoi amici. Almeno così dice, ma sono sicura che ha una ragazza, molto probabilmente italiana.

Sento il rumore di una macchina, sei tu. Mi alzo con molta fatica. Come mi metto in posizione eretta, sento un tremolio ancora più forte alle gambe e fitte nella zona lombare. Sono da buttare via ormai, il mio fisico non serve più a nulla. Apro la portiera, mi siedo e allaccio la cintura. Stai ascoltando un cd di musica folklore a un volume medio alto e sono già infastidita.
A je lodh?” Mi domandi con un tono freddo, distaccato e disinteressato.
Jo, jo“, ti rispondo, guardando fuori dal finestrino alla mia destra, cercando di aumentare il più possibile la distanza fra noi. Mentre percorri in maniera rozza e a una velocità troppo elevata la strada verso casa, parte una canzone cantata con le ciftelijat. Il tono di voce dei cantanti è altissimo, il baccano che riescono a creare è inspiegabile e ho la sensazione che la testa mi possa esplodere da un momento all’altro. Non ti dico niente, non ho le forze per litigare. Vorrei che abbassassi il volume, vorrei che ci arrivassi da solo, che ti ricordassi quante volte ti ho detto che non mi piacciono queste canzoni e che il volume alto mi dà fastidio. Ma non ci arrivi, non ci sei mai arrivato a niente, da solo. Bisogna sempre ricordartele, ripetertele le cose. E io non ne ho più né la voglia, né la forza. Chiudo gli occhi e cerco di isolarmi, ma il tentativo risulta impossibile.

Dopo un tempo infinito arriviamo finalmente a casa. Apro il portone, saliamo in ascensore e trascorriamo i quattro piani di salita in religioso silenzio. Tu guardi il cellulare, mentre io fisso me stessa allo specchio. Ho cinquantadue anni, ne dimostro almeno dieci in più. Arriviamo al nostro piano, ti anticipo all’uscita dall’ascensore. Apro la porta e mi dirigo verso la cucina, per controllare se hai mangiato. Vedo tutto in ordine e la cosa mi fa impazzire di rabbia.
Non hai mangiato?” Ti chiedo urlando.
Raggiungi la cucina con tutta la calma del mondo. Mentre mantieni il tuo sguardo sul cellulare, mi dici di preparare due uova, che le mangi con un po’ di formaggio. Poi ti siedi a tavola, come se fosse la cosa più normale del mondo. Non ti sforzi neanche di prendere un fazzoletto o le posate. Ti metti comodo e aspetti che io ti serva, come hai fatto in tutti questi anni, come ho accettato di fare io dal giorno in cui ho accettato di diventare tua moglie. Fisso il forno e cerco di mantenere la calma, anche se l’unica cosa che vorrei fare è girarmi e tirarti qualcosa addosso. Ora devo anche prepararti la cena, perché non sei in grado di fare nulla in questa benedetta casa.

Prendo la padella, apro la bottiglia di olio e ne verso una quantità eccessiva, con tutto il nervoso che ho addosso. Poi rompo subito le uova e le butto in padella, senza aspettare che l’olio sia caldo. Resto in quella posizione, a fissare la padella, mentre tu accendi la televisione e non ti accorgi di nulla. Vorrei urlartelo, che questa è l’ultima volta, che dalle mie mani non mangerai più nulla, ma tengo il rospo dentro. Non devo rovinare il piano, se voglio che funzioni. Nel frattempo l’olio si è scaldato e le uova iniziano a cuocersi. Le guardo con impazienza, sperando di accelerare il processo. Dopo pochi minuti le tolgo dalla padella, anche se non sono esattamente pronte, ma tanto non te ne accorgerai. Ci butto sopra del sale con un movimento disinteressato, non curante di dove il sale finirà e le metto su un piatto troppo piccolo. Te lo porgo e mi muovo verso la direzione opposta, prima che tu l’abbia afferrato per bene. Per un secondo ho paura che possa cadere, ma non succede.

Percorro il corridoio per andare in camera da letto a prendere il pigiama. Incontro le foto di quella che è stata la nostra famiglia. Una foto, la più grande, attira la mia attenzione. Noi sul divano, pochi mesi dopo la nascita di Valon. Tu che tieni in braccio il piccolino, Albina seduta sulle mie ginocchia con addosso quello che era il suo vestito preferito, bianco con le rose rosse e Blerim, tutto fiero con la maglia dell’Inter, in mezzo a noi. Ridiamo, siamo felici. Mi sembra passata un’eternità. Quando abbiamo smesso di essere felici? Quando abbiamo capito che non avevamo più alcuna speranza di realizzare i nostri sogni? Quando abbiamo smesso di lottare? Un’aura di delusione e tristezza si impossessa della mia mente. Raggiungo la camera da letto, prendo il pigiama da sotto il cuscino e faccio il percorso inverso per raggiungere il bagno. Cammino più rapidamente, portando il mio sguardo verso il bianco scolorito delle mura per evitare di imbattermi in altre foto del nostro passato pieno di sogni e speranze. Entro in bagno e chiudo la porta con un gesto frettoloso. Mi spoglio, mi catapulto in doccia e finalmente provo la prima sensazione di benessere della giornata. L’acqua calda sulla mia tempia è paradisiaca. Resto così per un paio di minuti, prima che la mente mi riporti al piano di domani. Me ne andrò. Ti lascerò le carte per il divorzio da firmare sul tavolo della cucina. Non so come reagirai, non so che effetto ti farà questa notizia. Probabilmente andrai a cercarmi in Kosovo, ma non mi troverai. Neanche io so quale sarà la mia destinazione. Ho prenotato un taxi per domani mattina alle 10, quando tu sarai al lavoro. Gli chiederò di portarmi in aeroporto. Lì comprerò un biglietto per il primo volo disponibile. Non mi troverai mai più.

Prendo lo shampoo, lo verso sulla mano destra e poi inizio a spalmarlo sui capelli. Parto dalla fronte e vado verso la nuca. Così, in ripetizione, per un sacco di volte. Poi faccio andare di nuovo l’acqua, chiudo gli occhi e lascio che il getto tolga lo shampoo dalla testa, senza che io debba utilizzare le mani, che nel frattempo ho stretto una all’altra. La schiuma mi copre il viso e si mischia alle lacrime. Stringo le dita sempre più forte e il pianto diventa ancora più potente. Sento i battiti del cuore aumentare a dismisura, sul mio volto non percepisco più la schiuma, ma soltanto le lacrime. Non ho la forza per restare in piedi e così, appoggiandomi al muro – in maniera lenta e passiva – mi lascio scivolare giù. Continuo a piangere e a tenere le mani strette. Ora l’acqua mi colpisce all’altezza delle spalle. Mantengo gli occhi chiusi e mi domando come abbiamo fatto ad arrivare fino a questo punto. Volevamo vivere due vite, una in Italia e una in Kosovo. Abbiamo finito per non essere in grado di viverne neanche una. Abbiamo perso i nostri figli, il nostro matrimonio e anche il nostro paese. Siamo rimasti così ancorati all’idea che avevamo di esso, che ancora oggi continuiamo a cercarlo, ma il paese che abbiamo lasciato non esiste più. È cambiato tutto e sono cambiate anche le persone. L’estate scorsa hai passato tutto il viaggio di ritorno a lamentarti perché nessuno ti aveva invitato per una cena come si deve, perché i tuoi fratelli erano venuti a trovarci soltanto una volta, mentre i tuoi nipoti neanche una. Sono rimasta in silenzio tutto il tempo, mi sono resa conto che la tua mente e il tuo cuore sono ancora fermi a 25 anni fa.

Lascio che l’acqua continui a cadere sul mio corpo, non ho il coraggio di aprire gli occhi. Per un momento spero che, aprendoli, ogni cosa possa ritornare a quando eravamo felici e ci scattavamo le foto tutti insieme. A quando eravamo fatti di speranza. Ma sono cosciente che ora devo pensare alla mia, di felicità. I ragazzi sono indipendenti ormai e io non voglio continuare a essere la tua serva. Forse potrò essere felice da sola, in un altro paese. Forse sarà la volta buona. Proverò a fare come aveva scritto Pirandello. Me ne andrò, scapperò e proverò a vivere una vita nuova, una vita soltanto mia, a vivere per davvero. Se non altro, dell’Italia mi rimarranno i libri. Quelli che i nostri figli iniziarono a leggere e a portare in casa sin da piccoli. Provarono a indicarci la via, ma a noi interessava solo che diventassero come noi. Che si sposassero con qualcuno come noi. Così non avremmo dovuto vergognarci agli occhi dei nostri parenti. Ci hanno provato, a farceli leggere. Con me ci sono riusciti, ovviamente. Affamata come sono sempre stata di letteratura. Scoprire quella italiana è stato l’ossigeno che mi ha permesso di respirare in tutti questi anni. A te, invece, quei libri hanno sempre dato fastidio. Probabilmente Albina aveva ragione, saremmo dovuti restare in Kosovo, se il nostro obiettivo era soltanto quello di creare delle nostre fotocopie. Ma quello non era l’intento iniziale. Avevamo deciso di venire qui per essere felici, per creare una famiglia, qualcosa di soltanto nostro, qualcosa di diverso da quello che ci lasciavamo indietro, qualcosa che ci avrebbero invidiato tutti. Quelle persone dalle quali non vedevamo l’ora di allontanarci, per le quali poi abbiamo speso le estati sempre nello stesso posto e per le quali abbiamo dimenticato quali erano le nostre intenzioni. Il loro possibile giudizio ha condizionato la nostra vita e soltanto ora, dopo 25 anni, ci siamo accorti che a loro, di noi, non è mai fregato nulla. Ci sono stati vicini finché avevamo soldi da regalare. Quando li abbiamo finiti, si sono dimenticati di noi. Non siamo riusciti a fare niente in tutti questi anni. Abbiamo distrutto tutto quello che potevamo, abbiamo perso ogni cosa possibile, abbiamo fallito. Forse, ripensandoci, alla fine siamo stati il miglior esempio per i nostri figli. L’esempio da non seguire. Guardate quello che abbiamo fatto noi e fate il contrario.

Gezim Qadraku

Ce ne andiamo in Italia (2° parte)

Fa caldo. Il mese di luglio ha portato con sé temperature alte e afa con la forza di un tornado. Blerim e Valon sono a casa. Blerim, fino a una settimana fa, passava le giornate in oratorio. Poi, a causa del problema alla centralina della macchina e di quanto ci costa ripararlo, non è più potuto andare. Mancano i soldi. E ora che entrambi devono trascorrere un’intera giornata estiva in casa, sembrano due animali selvaggi costretti in gabbia. Si ringhiano addosso a vicenda, si azzuffano costantemente. Come vado a dividerli, riprendono a litigare qualche minuto dopo. Dopo un po’ ci rinuncio e lascio che uno dei due sfinisca l’altro. Anche se a volte mi sembra abbiano una quantità infinita di energia e di voglia di darsi fastidio a vicenda. Valon si lamenta sempre che Blerim non lo lascia giocare alla PlayStation. Ogni volta viene a piangere da me e mi chiede di comprargli un joystick. Costa 50 euro quel maledetto coso.

L’unico momento della giornata nel quale riescono a respirare è dopo le 16, quando finalmente riesco a portarli al parco. Devo lavorare durante la giornata. Devo pulire le case della gente benestante ogni giorno. Dalle 9 alle 11:30 e poi dalle 14:00 alle 16:00. Oggi è giovedì, devo andare dai Brambilla. Mi porto sempre dietro i bambini, amano quella casa. E poi il signor Luciano mi ha detto che possono tranquillamente giocare alla PlayStation. Lui ha due joystick, così non devono litigare e posso giocare insieme.

L’orologio segna già le 13:35. Finisco di fare le stoviglie in fretta e furia. Mentre sono in cucina urlo ai bambini di prepararsi. Blerim mi risponde a tono, “SIAMO GIA’ PRONTI NOI“. Mi asciugo velocemente le mani e con la stessa frequenza di movimenti vado in camera a cambiarmi. Sono in ritardo sulla tabella di marcia. A quest’ora dovremmo già essere in strada. La casa dei Brambilla dista una mezz’oretta dalla nostra. Mi vesto più veloce che posso, torno in cucina a controllare se ho lasciato qualche fornello acceso, prendo la borsa e vado in camera a chiamare i bambini.

Stanno guardando i Simpson.
Andiamo bambini!
Mamma, ma non è ancora finita la puntata“, mi dice Blerim, mentre non stacca gli occhi dalla televisione.
BLERIM, SHPEJT“, gli urlo. (BLERIM, VELOCE)
Capisce che deve spegnere immediatamente la televisione. Valon è già in corridoio, capisce sempre senza bisogno di ripetergli nulla. Scendiamo in strada e il caldo sembra duplicarsi. Su quel tratto di via Piave non c’è un filo d’ombra. Camminiamo per una decina di minuti sotto il sole cocente. Tengo per la mano Valon, mentre Blerim cammina davanti a noi. Procediamo in religioso silenzio, come per non sprecare le forze che il caldo torrido cerca di succhiarci a ogni passo che facciamo. Il paesino sembra in letargo. Non si sente anima viva in giro. Il momento più caldo della giornata e infatti la cosa più sensata è stare in casa e non uscire. Ma io devo pulire le case degli italiani e non ho la patente. Ma anche se ce l’avessi, anche se sapessi guidare, comunque non potremmo permetterci una macchina. Me lo ripeto ogni volta che ci penso. Che tanto sarebbe inutile. Che va bene così.

Arriviamo all’appartamento del signor Luciano alle 14:05. Sono in ritardo, ma meno di quanto pensassi. In un’ora e cinquantacinque minuti devo fare cucina, salotto e bagno. Alle 16 devo levare il culo da questo posto. Non posso restare di più. Uno tra il signor Luciano e la signora Claudia potrebbero tornare a casa e l’ultima cosa che vorrebbero trovare è me che pulisco. I bambini vanno subito in sala e si mettono a giocare. Io mi dirigo in cucina, dove ci sono ancora i resti della cena di ieri sera. Non si stancano di fare nulla quei due. Me li immagino che finiscono di mangiare e si alzano per andare in sala, a godersi qualche film, mentre si amano e si godono questa vita da sogno. Si sono sposati da poco, hanno entrambi più di quarant’anni. Lui fa l’assicuratore, lei è una professoressa universitaria. Lavorano entrambi a Milano, trascorrono la gran parte della giornata lì. Hanno comprato casa fuori da Milano perché preferiscono un piccolo paesino tranquillo. Non hanno figli e mi danno l’idea che mai li avranno. Tutti questi soldi, questa ricchezza, chissà a chi la lasceranno. Che spreco una vita senza figli, mi ripeto ogni volta che entro in questa casa. Manca il pezzo più importante di una famiglia, eppure loro mi sembrano felici così. Sul tavolo della cucina ci sono briciole di pane, una fetta di bresaola e una bottiglia di vino rosso. Manco il vino in frigorifero si preoccupano di mettere. Sul fogliettino che mi lasciano sempre sul tavolo, c’è la solita indicazione: “come al solito“.

Guardo l’orologio, sono le 14:10. Non ho ancora iniziato e sono già stanca. Fa troppo caldo in questo periodo e più vado avanti, più ho la sensazione che non riuscirò a continuare a pulire così tante case. Dovrò lasciarne qualcuna, ma i soldi ci servono. Non sono mai abbastanza. Chiudo gli occhi, stringo i pugni, prendo un bel respiro profondo e cerco di farmi forza. Da quando ho messo piede in cucina, ho la sensazione che la stanza profumi di bresaola. Quella fetta, rimasta lì da ieri sera, ha riempito la stanza del suo aroma. La osservo per un tempo infinito. La quantità di secondi che i miei occhi rimangono su di lei è direttamente proporzionale all’aumento del desiderio di mangiarla. Non dovrei, continuo a ripetermi. Ma figurati se si accorgono di qualcosa, mi dico poi. Alla fine la prendo e con un gesto veloce, causato dal timore che qualcuno mi possa vedere, la caccio in bocca. Mastico bramosamente. Se qualcuno mi osservasse, penserebbe che non mangio da giorni. Sembro un lupo che è appena riuscito a uccidere la sua preda, e dopo la fatica dell’inseguimento riesce finalmente a dargli il primo morso. È maledettamente buona. Mentre la mastico, e in fondo al cuore spero che per qualche strano motivo la fetta possa riprodursi tra i miei denti e durare per sempre, mi rendo conto della scarsa qualità del cibo che noi possiamo permetterci ogni giorno. Mando giù l’ultimo pezzo della fetta e mi sembra di essere rinata. Sento i bambini ridere di gusto, percepisco che si stanno divertendo e questo mi dà la forza per iniziare a pulire.

Prendo la bottiglia di vino e la metto in frigo. Con lo straccio tiro via le briciole. Prendo il ritmo e continuo così, per un’ora e cinquanta minuti. Senza mai prendermi una pausa, neanche per andare in bagno. Abbiamo bisogno di soldi, mi ripeto. E poi tra meno di un mesetto andiamo in Kosovo. I bambini fremono dalla voglia. Non fanno altro che chiedere quanti giorni mancano. Anche tu mi sembri più felice in questo periodo dell’anno. Sei impaziente di vedere i tuoi genitori e io non vedo l’ora di vedere mamma. Mi manca. Ogni volta che arriva l’estate, mi rendo conto di quanto sia un anno senza vedere un genitore. Un tempo troppo lungo, estenuante. Non dovrebbe essere legale una cosa del genere. Durante l’ultima telefonata mamma mi ha detto una cosa che mi ha fatto sorridere.
Se solo ci fosse una telecamerina piccola in questi cellulari, se solo potessimo vederci quando parliamo.

Spegnete che dobbiamo andare, bambini.
No mamma, dobbiamo finire l’ultima partita“, ribatte Blerim, mentre Valon ha già staccato le mani dal joystick.
BLERIM, TE LUTEM“, mi costringe ad alzare la voce. (BLERIM, TI PREGO)
Però ci porti al parco.
Certo che vi porto. Dai, andiamo.
Il parco della scuola elementare di Blerim dista soltanto una decina di minuti dalla casa dei Brambilla. I bambini camminano davanti a me, si tengono per mano e continuano a ridere. Mi commuove vederli così vicini. A un certo punto si fermano e si voltano in sincrono verso di me. Mi guardano sorridendo e mi fanno segno con la mano di avvicinarmi veloce.
Hajde mam“, mi dice Blerim, mentre continua a tenere per mano Valon. (Vieni mamma)
Mi avvicino a loro sorridendo, mi abbasso sulle ginocchia perché mi sembra che sia Valon a voler parlare per entrambi.
Dai, chiediglielo“, lo incoraggia Blerim.
Mamma, quando andremo a vivere anche noi in una casa come quella del signor Luciano?


È come se una siringa mi trafiggesse il cuore. Entrasse da una parte e uscisse dall’altra. Sento le ginocchia cedermi e appoggio le mani sulle loro spalle per non cadere. Non è la richiesta a farmi male, ma il sorriso e la speranza che vedo nei loro occhi. Pensano davvero che una cosa del genere sia possibile. Nella loro ingenuità sono convinti che un giorno potremmo davvero permetterci un appartamento del genere. Infilo la mia testa in mezzo alle loro, stringo le loro spalle e li muovo verso di me. Lo faccio per nascondere il volto e le lacrime che mi bagnano il viso. Cerco di capire quando aprire la bocca e parlare, senza che si accorgano che sto singhiozzando. Continuo ad aspettare, cosciente che non è ancora il momento giusto.
Quando mamma?” Domanda ancora Valon.
Presto rrushi i jem, presto“, riesco a dirgli, stoppando per un paio di secondi le lacrime e sentendomi la madre peggiore sulla faccia della terra. Restiamo in quella posizione ancora per qualche minuto, mentre smetto di piangere e continuo ad accarezzare le loro schiene e loro mi stringono forte. Poi mi alzo e il dolore fisico si aggiunge a quello emotivo. Sento le fitte alla schiena, i muscoli dei polpacci che si induriscono e un peso che si appoggia sulle spalle e prova a schiacciarmi sotto terra.

Arriviamo al parco, i bambini corrono verso le altalene. Io vedo Luana seduta sulla panchina dietro alle altalene e la raggiungo. Non se la sta passando bene ultimamente. Mi racconta di come i litigi con il marito sono aumentati, di come lui torna a casa tardi la sera. Molte volte è ubriaco. Non me lo ha detto, ma sono convinta che le metta anche le mani addosso.
Ciao Luana“, la saluto e mi accorgo subito di una luce diversa nei suoi occhi.
Ciao tesoro, come stai?” Mi domanda. Non ho ancora capito perché mi chiama così e non per nome, ma non mi va di chiederglielo, mi vergogno. Sarà un’abitudine delle donne italiane, chiamarsi così tra donne.
Bene, grazie. Un pochino stanca. Oggi tanto lavoro. Tu stai bene?” Le rispondo in maniera meccanica. Scandisco ancora le parole con un certo timore. Dopo una giornata così, ho la sensazione che i vocaboli italiani – i quali cerco di imparare quotidianamente ascoltando la televisione e i bambini mentre parlano tra di loro – svaniscano dalla memoria, si dissolvano in aria, evaporino. Allora mi tocca cercarli, rincorrerli, catturarli, riportarli a me e provare a dar loro un senso, mettendoli nell’ordine giusto.
Io meglio guarda. Devo darti una notizia.
Che bello. Dimmi!
Ho deciso di divorziare da mio marito. Penso sia la cosa migliore per me. Non ce la faccio più ad andare avanti così…
La mia attenzione rimane ancorata a quella frase. Luana continua a parlare, muove il suo corpo verso di me e presumo mi racconti tutto quello che è successo. Io però non la seguo più, non ci riesco. Il mio cervello è rimasto a quella frase iniziale, a quel verbo. Divorziare. La vista mi si annebbia, l’attenzione svanisce del tutto, l’unica cosa che riesco a captare è il sollievo degli occhi di Luana.

“Ma come hai divorziato?
Come fai a pensare che sia la decisione migliore per te?
Perché l’hai fatto?” vorrei chiederle, ma continuo a cercare i suoi occhi, quantomeno per dimostrarle che la sto ascoltando. Lei procede ininterrottamente. In maniera molto lenta riesco a riportare l’attenzione su quello che mi dice. Mi rendo conto di essere rimasta in silenzio per troppo tempo. Non voglio immaginare che razza di espressione ho. Così la interrompo bruscamente, la guardo dritto negli occhi e le dico che la capisco. Che non dev’essere stato facile. Lei continua il suo racconto, ma con la coda dell’occhio mi accorgo che Valon è caduto e mi avvio immediatamente verso di lui. So già che non si è fatto niente, perché mentre mi muovo nella sua direzione, lui si è già alzato e non sta neanche piangendo. Utilizzo questo alibi per staccarmi da Luana. Non ho più voglia di sentirla parlare oggi. Raggiungo Valon, gli controllo la ferita al ginocchio, dalla quale gli esce un po’ di sangue. Prendo una salvietta bagnata dalla tasca e pulisco la terra che si è attaccata alla pelle.
Tranquilla mamma, non mi fa male“, mi dice, mentre cerca di staccarsi il più velocemente da me e tornare a giocare con i suoi amichetti. Lo lascio andare senza dirgli niente.

Tutto bene. Un pochino sangue“, dico a Luana, non appena torno da lei. Continua a raccontarmi della sua decisione, mi ripete tutti gli avvenimenti che l’hanno portata a prendere quella scelta. Io sono ancora persa nei miei pensieri, nei dubbi che il suo divorzio sta mettendo nel mio matrimonio. E se un giorno divorziassimo anche noi? Mi domando, mentre cerco di guardarla negli occhi per mostrarle una parvenza del mio interesse. Un brivido di paura mi scuote la schiena. No, noi non le facciamo queste cose. Noi non siamo così, non siamo come loro. Mi ripeto convinta e orgogliosa. Noi mica roviniamo la famiglia in questo modo. E poi che motivo avremmo per divorziare, noi? Cerco con lo sguardo i bambini, stanno giocando a nascondino. Blerim sta contando, mentre Valon è nascosto sotto lo scivolo con un suo amichetto.

Il tempo trascorre più veloce del previsto e fortunatamente è già ora di andare a casa. Saluto Luana e i suoi figli, Luca e Ada. Ci avviamo verso casa e tengo sia Valon che Blerim per mano. Quei dubbi non hanno ancora abbandonato la testa, quel maledetto verbo – divorziare – continua a girare nel mio cranio, esattamente come una zanzara. Mi provoca il medesimo fastidio, mentre cerco di cacciarlo via e dopo qualche secondo ne sento ancora il ronzio. Stringo le mani dei bambini. Valon ricambia la stretta, come se stesse aspettando solo questo. Blerim, invece, si sgancia e aumenta il passo.

Arriviamo a casa. Dico ai bambini di lavarsi, di fare veloce che tra poco arrivi tu e inizio a preparare la cena. Per i bambini faccio la pasta, mentre a te riscaldo il gullash che ho fatto per pranzo. So che lo preferisci riscaldato, per questo lo faccio sempre quando sei al lavoro, così è perfetto per cena. Così avevo sentito dire a tua mamma, la prima volta che ti avevo visto mangiarlo a casa dei tuoi. Eri tornato dalla solita giornata infinita al pazar. Eri uscito la mattina presto per vendere delle pesche, ma il caldo atroce ne aveva mandate a male la metà e dell’altra metà ne avevi vendute pochissime. Eri tornato a casa a mani vuote, asciutto, stanco, distrutto. Non capivo come tua madre potesse pensare di riscaldarti un piatto che aveva preparato per pranzo. Ma mi accorsi della felicità nei tuoi occhi, quando ti sedetti a tavola e tua madre ti venne incontro con in mano il piatto di Gullash riscaldato.
Qe djali i jem, qysh t’pelqen tyje“, ti disse. (Ecco figlio mio, come piace a te)


Scaldo il Gullash utilizzando la fiamma più bassa possibile, eccitata, nella speranza di riuscire a provocare in te la stessa felicità che riusciva tua madre. Sento che i bambini hanno finito e pochi minuti dopo suona il citofono. Corro subito ad aprire il portone del palazzo. Subito dopo apro la porta di casa e ascolto i tuoi passi pesanti approcciarsi ai tre piani di scale. Cerco di percepire la tua stanchezza calcolando quanto ci metti a salire. Sei più lento del solito, ho un sussulto di timore. E se ti è successo qualcosa? Magari ti sei fatto male al lavoro? I battiti del cuore aumentano di intensità. Ci metti un’eternità ad arrivare alla porta di casa. Alzi lo sguardo dal cellulare, mi guardi per qualche secondo, la tua espressione non cambia.
Grua“, mi saluti. (Moglie)
A je lodh Afrim?“, ti chiedo, preoccupata che ti sia successo qualcosa. (Sei stanco Afrim?)
Jo, jo. Nuk pat shum pun sot”, mi dici mentre entri in casa. (No, no. Non c’era tanto lavoro oggi) “A je mir?“, ti domando per avere la certezza che tu stia veramente bene. (Stai bene?)
Mi guardi storto e non mi rispondi, non capendo perché io te l’abbia chiesto. Allora ti dico che vado a prenderti i vestiti e di farti la doccia che la cena è quasi pronta.

Corro in camera a prenderti i vestiti e te li porto immediatamente in bagno. Sei in piedi e continui a guardare il cellulare.
Qe teshat“, ti dico e te li appendo dietro alla porta. (Ecco i vestiti)
Sento i bambini ridere in camera, nel frattempo l’acqua in pentola bolle e butto la pasta. Suona di nuovo il citofono, è Albina. Sale le scale in un batter d’occhio. Capisco subito che la sua prima lezione d’inglese dev’essere andata bene. L’unica della classe a essere stata scelta per questo corso extrascolastico. Le maestre mi hanno detto che ha un talento per le lingue. Il mio fiore, la mia rosa preferita. L’aspetto con la porta aperta, vestita di tutto l’orgoglio che una madre può avere. Mi corre in contro con un sorriso infinito.
Hajde qika e jem“, non faccio in tempo a dirle che mi sta già raccontando tutto. (Vieni figlia mia) Continua a parlare a una velocità e a un tono spropositati. Io cerco di toglierle lo zaino dalle spalle, ma è un’impresa, perché continua a dirmi di aspettare e fermarmi un secondo, che deve raccontarmi un altro dettaglio della sua giornata.


Finisci la doccia e vieni in cucina.
Buka osht gati“, ti dico, anche se non me l’hai chiesto, timorosa che tu possa pensare che devi aspettare a lungo. (La cena, è pronta)
Ti siedi e inizi a cambiare i canali della televisione. Ti sento sbuffare mentre faccio scaldare il sugo per la pasta dei bambini.
Questi bambini non sanno neanche chiedere al proprio padre se è stanco“, sputi fuori dalla bocca, con tutta la freddezza di cui sei capace, fissandomi mentre lavoro il sugo.
Sento il tuo sguardo addosso, anche se ti volto le spalle. Lascio il sugo e mi avvio verso i bambini. Albina è con i ragazzi, e insieme a Valon guardano Blerim che gioca alla PlayStation.
“Papà è arrivato, l’avete sentito? Venite veloci a chiedergli se è stanco. VELOCI”.
Valon e Albina escono immediatamente dalla camera.
“Ma anche tu lavori mamma, lui non ti chiede mai se sei stanca”, mi dice Blerim, mentre continua a fissare il televisore. Faccio finta di non averlo sentito, anche sei vorrei abbracciarlo forte.
“Vieni Blerim, che la cena è pronta”.

I bambini si siedono a tavola. Albina è ancora elettrizzata per la sua prima lezione d’inglese. Tu guardi il telegiornale con un atteggiamento disinteressato. Hai il telefono di fianco alle posate e sembra che stai aspettando un messaggio o una chiamata. Aspetto che chiedi ad Albina com’è andata la sua giornata, anche lei sembra aspettare soltanto quello, ma tu non dici niente. Forse ti sei dimenticato, mi dico, cercando di trovarti una scusa. Verso il Gullash nel piatto e te lo porgo. “Gullash, qysh t’pelqen tyje“, ti dico, aspettando una reazione. (Gullash, come piace a te)
L’unica cosa che fai è alzare le braccia dal tavolo, così che io possa appoggiare il piatto. Inizi a mangiare senza aspettare che io abbia servito i bambini, senza aspettare che mi sia seduta anch’io. La voce del conduttore del telegiornale, insieme al rumore delle posate, fanno da sottofondo a questa cena silenziosa. Vedo nei volti dei bambini ancora il sorriso, tu mangi il Gullash e ho la sensazione che ti stia piacendo. Tutto questo mi rincuora. Mi dico che è soltanto una giornata un po’ così, che non devo dare troppa importanza a certe cose. Che sono soltanto più stanca del solito e per fortuna si avvicinano le vacanze. Torneremo in Kosovo e ti vedrò sorridere per davvero. Quel sorriso pieno di vita e gioia che mi ha fatto innamorare di te, quel sorriso che non vedo da tanto tempo. E chissà, forse i bambini hanno ragione a crederci. Forse ce la faremo anche noi ad avere una casa come quella del signor Luciano, a vivere una vita come quella degli italiani. Forse non è ancora troppo tardi.

Gezim Qadraku

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Ce ne andiamo in Italia (1° parte)

È da poco finito il telegiornale. La guerra è l’unica costante della mezz’ora di news. Ora tutta l’attenzione è sulla Bosnia, soprattutto dopo la dichiarazione d’indipendenza. Le cose si stanno mettendo veramente male e le immagini che mostrano alla TV mi mettono paura. Qualcuno dice che è soltanto questione di mesi e la guerra scoppierà anche in Kosovo. Altri invece continuano la propria vita come se nulla stesse accadendo. Mi siedo sulla sedia di fianco alla porta, dopo aver servito il tè a tuo padre, a te, ai tuoi fratelli e alle loro mogli. Tua madre entra in salotto e si dirige verso il camino per cambiare la legna. La guardi e le chiedi di sedersi, che devi dire due parole.
Po du mi fol dy fjalë.”

Vorrai dire qualcosa sulla guerra, penso, mentre resto al mio posto in silenzio e cerco di non incrociare lo sguardo di nessuno. Ti fisso e provo a tirare fuori i tuoi pensieri, prima che tu li trasformi in parole e le dica a tutti. Tua madre si siede, con un gesto che fa trasparire insicurezza. Sembra che il solo fatto che tu voglia dire qualcosa ad alta voce la preoccupi abbastanza da farla muovere in maniera totalmente diversa dal solito. Lenta e affannosa, a differenza della velocità e della rapidità dei suoi movimenti quotidiani. Quando lei si siede, tu attacchi con il discorso. Incroci le mani, appoggi i gomiti sulle cosce, ti muovi in avanti, cerchi gli occhi di tutti e dopo esserti schiarito la voce, lanci la bomba.
Ho deciso di portarli in Italia con me. Partirò con mia moglie e il bambino.

Sento un’esplosione tremenda all’altezza dello sterno. Una vampata di calore si impossessa del mio corpo e si concentra in testa. Mantengo gli occhi su di te, senza più badare se qualcuno se ne accorga. Ti cerco, cerco le tue pupille, ma tu guardi verso i tuoi genitori. Come sarebbe a dire che andiamo in Italia? Mica eri tornato per restare? E perché non l’hai detto a me prima di annunciarlo alla tua famiglia? Cosa diavolo è questa storia?
Sento le gambe tremare, le gocce di sudore scivolare veloci dal collo verso il fondo della schiena e il pensiero va immediatamente ai miei genitori. Alla pessime condizioni fisiche di mamma. Alla fatica di papà nel trovare lavoro dopo essere stato licenziato come autista degli autobus perché albanese e la sua decisione di smettere di fumare, perché non se lo può più permettere. A mio fratello Fadil, al suo lavoro precario e a sua moglie, così giovane e impreparata alla vita di famiglia, che non riesce a essere di alcun aiuto a mamma. Penso a loro e a come diavolo glielo dirò che me ne vado in Italia. No, che tu hai deciso che andremo in Italia. Senza chiedermelo, senza voler sapere cosa ne pensassi, se fossi d’accordo o meno.

Un silenzio strano e fastidioso ricopre la stanza, la tensione è presente nei volti di tutti e io mi sento crollare, impotente, senza alcuna forza di reagire, nel buco che si è aperto sotto i miei piedi. Non me lo aspettavo questo da te. Mi hai ferita. E io che ti pensavo diverso. Io che mi sono innamorata di te perché mi sembravi così distante dagli altri ragazzi kosovari. Eri così timido, premuroso ed educato, che pensavo ti avessero adottato, che venissi da un’altra cultura. Quel tuo rispetto verso qualsiasi donna e quel tuo corteggiamento così sensibile e rispettoso, mi hanno fatto letteralmente perdere la testa per te. E ora? Hai deciso il nostro futuro senza dirmi niente? L’hai fatto per ripicca? Perché mi ritieni colpevole per il fatto che nostro figlio non ti abbia riconosciuto quando sei tornato dall’Italia dopo 14 mesi. Come pensavi che ti avrebbe potuto riconoscere se non ti aveva mai visto? Te ne sei andato che lui aveva pochi giorni e quando sei tornato, l’unica cosa che sapeva di te era la fotografia nella quale tu lo abbracci in giardino, qualche giorno dopo la sua nascita. Cosa potevo fare io? Oltre a dargli quella foto da baciare prima di metterlo a letto e ripetergli che papà sarebbe tornato molto presto. Pensi che mi sia sentita bene quando lui si rifiutava di abbracciarti? Quando continuava a stare in braccio a tuo fratello Muharrem? Quando veniva a sussurrarmi all’orecchio che quell’uomo, riferito a te, avrebbe dovuto dormire sotto il letto e non di fianco a me? Non pensi che mi sentivo morire dentro, in quei momenti?

Finalmente tuo padre decide di distruggere il silenzio. Lo fa dando la benedizione alla tua decisione.
Perhajr i koft.
Resta seduto, ti guarda negli occhi e non aggiunge altro. Manda giù un sorso di tè e quasi lo finisce a goccia. La stanza ritorna nel silenzio e nessuno dei tuo fratelli prende la parola. Allora tu, mente cerchi di trovare una sicurezza che non hai, mentre il sudore delle ascelle trasforma in quella parte del corpo il colore della tua camicia in nero, da viola che era, provi a spiegare il motivo di quella scelta. Anche se nessuno te l’ha chiesto. Un’insicurezza, la tua, che non ha fatto altro che amplificarsi da quando mi hai presa come sposa. Ripenso alla tua paura e alla tua goffaggine durante le nostre prime notti a letto. Mesi senza alcun risultato, che iniziarono a far storcere il naso a qualcuno. Già le sentivo le parole di tua madre e delle mie cognate. Quasi sperassero che non fossi in grado di darti neanche un figlio. E poi, finalmente, dopo un anno e mezzo di angoscia e timore, sono rimasta incinta. Un maschio, grazie a Dio. Solo questo mi ha permesso di essere considerata come un essere umano meritevole di qualche attenzione.

Rimango focalizzata sulle tue paure. Il terrore nel confrontarti con i tuoi famigliari. L’incapacità di contrastare le parole di tuo padre, di non chiedere ai tuoi fratelli di seguirti a lavorare mentre ti spacchi in quattro per tutta la famiglia. Per la prima volta mi chiedo che padre sarai. Chissà come ti comporterai con il nostro piccolo. Forse avrai paura anche di lui. Forse ti farai mettere i piedi in testa anche da tuo figlio. Smetto di ascoltarti e penso a te, ai tuoi fratelli, a tuo padre, alla vostra famiglia. Me l’avevi detto che eravate poveri, che non avevate niente, che avevate da poco sistemato la casa e che avevate ancora un sacco di debiti, presi per potervi permettere di organizzare i matrimoni di tutti i fratelli. Ti osservo, mentre impaurito cerchi di dire le parole migliori che i tuoi fratelli e tuo padre si aspettino da te, ma non ti rendi conto che loro hanno smesso di preoccuparsi di te da chissà quanto tempo ormai. L’ho capito subito che in questa casa tu eri l’unico che provava a fare qualcosa. Mi avevi detto che eravate poveri, ma non che foste dei lazzaroni. Non che la terra non avevate voglia di lavorarla e che trovavate le scuse più impensabili per non farlo. Non siete in grado neanche di essere gente di campagna come si deve. Siamo tutti dei “katundar“, ma mio padre e i suoi fratelli, con organizzazione e sacrifici, hanno costruito quattro case. Voi, invece? Eppure siete così tanti maschi e tutti in buona salute che ognuno di voi dovrebbe vivere nella propria di casa. Invece eccoci qui, stipati in questa casa provvisoria, ancora non terminata, con a disposizione una sola stanza per ciascuna coppia.

Me ne sono accorta subito, la prima notte, in che razza di guaio mi ero cacciata. Ma ho accettato di restare. Sono rimasta perché ti amo, indipendentemente dalla vostra povertà e dalla vostra incapacità di darvi da fare. E ora tu mi fai questo? Così, senza il minimo rispetto, davanti a tutti? Perché dovrei seguirti in Italia e non tornare dai miei genitori? Inizio a pensare che quelle tue caratteristiche che tanto mi piacevano, siano soltanto il frutto del tuo carattere debole. E io che pensavo potessi essere un uomo albanese diverso. Uno di quelli che non ha bisogno di rimproverare la propria donna di fronte agli ospiti, come fanno tutti.
Grua fai questo, fai quello. Scusate, ma la mia Grua è lenta. Grua porta la caraffa d’acqua. Grua l’insalata è senza sale.” E noi donne, vostri oggetti, in silenzio a seguire ciò che ci dite di fare. Vi considerate degli uomini, vi definite “burra“, camminate con il petto in fuori, fumate le sigarette come foste degli imprenditori di successo, alzate la voce contro di noi in presenza degli ospiti per sentirvi grandi, per sentirvi qualcosa, ma senza di noi, le vostre mogli, i vostri oggetti, non sareste niente. Io, stupida, che mi aspettavo che tu potessi essere veramente diverso. E invece, guardati ora, prendere una decisione del genere, decidere anche per me e per il nostro piccolo senza neanche consultarmi. Neanche provare a pensare che le cose in un matrimonio si debbano decidere in due.

Finisci di parlare e non so neanche cosa hai detto. Il rumore di un cucchiaino che sbatte sul bordo del bicchiere di tè, riporta la mia mente alla realtà. È tuo padre che ha finito il tè e ci tiene a farmelo notare. Mi guarda fisso negli occhi, rimette il cucchiaio all’interno del bicchierino e il suo viso si veste di insofferenza, perché ha dovuto farmelo notare e io, da brava sposa quale dovrei essere, me ne sarei dovuta accorgere da sola. Il suo comportamento è la ciliegina sulla torta. Il mio corpo brucia di rabbia. Mi alzo il più velocemente possibile e cerco di fornirgli una faccia abbastanza dispiaciuta. Mi affretto a prendere il bicchierino e a dirigermi in cucina per riempirglielo di tè, e mentre mi lascio la sala alle spalle prego di non vedere mai più tuo padre, i tuoi fratelli e questa maledetta casa. Di non dover servire il tè a nessuno. E in quel momento, mentre mi rifugio in cucina, mi accorgo che è proprio quello che accadrà. Ora che tu hai deciso di portarmi in Italia senza dirmelo, saremo solo noi tre. Non ci saranno più né i tuoi genitori, né tanto meno i tuoi fratelli. È come se in un secondo saltassi dall’inferno al paradiso. Il mio corpo torna alla temperatura normale, come se mi fossi lasciata cadere di spalle su un letto soffice coperto di neve. Riesco a sentire il fumo uscire dalla pelle e abbandonare il mio corpo.

Il modo in cui l’hai annunciato non mi ha permesso di considerare il fatto più importante. Ovvero che non vivremo più qui, in questa casa di lazzaroni e gente senza rispetto. Io, con tre anni passati all’università di Prishtina a studiare letteratura, con la media dei voti più alta della classe, io che leggo Kadare e Frasheri, finita per amore a sentirmi dire da tua madre come si deve pulire un giardino e a diventare la schiava di tuo padre. Al secondo giorno di matrimonio mi sono tornate in mente le parole di papà. Fu l’unico a dirmi che avrei dovuto finire gli ultimi tre esami prima di sposarmi, che una volta sposa non li avrei mai dati e non avrei mai conseguito la laurea. Non li detti ascolto. Ti volevo così tanto che misi l’Università in secondo piano. E pochi giorni prima che diventassi tua, che diventassi vostra, lo sentii parlare con mamma in cucina. Le disse che io non sarei stata bene nella casa di nessuno, che io sono troppo indipendente per essere la donna di qualcuno, che io sono diversa dalle mie sorelle. Le capii soltanto una volta arrivata da voi quelle parole, quando mi svegliai e mi accorsi che il mio futuro sarebbe consistito nel servire gli abitanti di questa casa e stare in silenzio. Avevo deciso di studiare per evitare tutto questo e poi ci sono finita dentro lo stesso.

Ritorno in sala felice, pronta a servire tutti i tè che tuo padre e i tuoi fratelli vorranno bere. Ha tutto un altro effetto ora. Ora che sono cosciente che saranno gli ultimi. Andremo in Italia e saremo lontano da tutto questo. Potremo avere la nostra vita. Amarci per davvero, senza doverci nascondere. Avere la nostra intimità. Potrò crescere il bambino senza sentire ogni volta i commenti di chiunque. Chissà che bel posto dev’essere l’Italia. Forse le donne sono più rispettate, forse le persone si possono amare per davvero. Di sicuro ci sono scuole migliori e non ci sarà la guerra. Nostro figlio potrà studiare e chissà cosa diventerà. Un medico, magari un avvocato o forse un professore, chi lo sa. Magari anch’io potrò ricominciare a studiare, magari terminerò gli ultimi esami che mi sono rimasti e mi laureerò in Italia. Sarebbe fantastico.

Servo il tè a tuo padre e lo guardo fisso negli occhi.
Goditeli questi, perché sono gli ultimi dalle mani della nuora che non ti meriti“, vorrei dirgli, ma non posso. Qui dentro sono un oggetto e continuo a comportarmi come tale. Torno a sedermi sulla sedia vicino alla porta. Ora sì che mi sento bene. Cerco i tuoi occhi e finalmente li trovo. Mi accorgo che anche tu stai meglio, ora. Forse non me l’hai detto perché sapevi che ti avrei risposto di no. Hai fatto bene, dannazione. Hai fatto bene a non dirmelo, hai fatto bene a decidere tu per noi. Quanto ti amo. E non vedo l’ora di amarti ancora di più quando saremo là. Andremo in Italia e saremo felici. Felici per davvero.

Gezim Qadraku

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Dove ho visto il razzismo

Venerdì sera ho parlato al telefono con mia madre e lei a un certo punto ha iniziato a commentare quello che sta succedendo negli Stati Uniti.
Ha detto che è rimasta scioccata, che non è riuscita a guardare il video, che non pensava che gli USA fossero un paese del genere.
L’ho fermata subito e le ho detto di non commettere l’errore di pensare che solo là, dall’altra parte dell’oceano, il razzismo sia ancora un problema. Per farla arrivare dritta al punto ho voluto spiegarle come il razzismo sia presente anche tra la nostra gente, gli albanesi del Kosovo.

In primis contro noi stessi. Perché noi siamo tutti albanesi quando c’è la guerra, quando gli albanesi del Kosovo sono scappati in Albania e hanno trovato rifugio.
Siamo tutti albanesi quando la nazionale di calcio si qualifica all’Europeo.
Siamo tutti albanesi quando c’è da difendere le minoranze albanesi in Macedonia, Grecia, Montenegro o Serbia.
Siamo tutti albanesi quando un/a cantante di nazionalità albanese diventa famoso/a, c’è da andarne orgogliosi e cerchiamo di farlo notare in tutti i modi possibili che sia albanese. “Perché abbiamo anche cose buone.”

Eppure sin da piccolo ho sentito famigliari e amici distinguere la nostra gente in base a dove abitassero in Kosovo. Questo esercizio trovava il suo apice nei matrimoni.
Il primo commento verso la sposa riguardava la sua provenienza.
È cresciuta in una città? Se sì, quale e dove? Nord, Sud, Ovest o Est.
Oppure arriva da un villagio? Mmm, ancora peggio. Molte volte detto da persone che a loro volta erano cresciute e ancora vivevano in un villaggio. Giusto per fare il primo esempio che mi è venuto in mente.
Un fattore in questo contesto era la distanza che separava la città o il villaggio con quello della sposa. Vicini? Ok. Lontani? No, perché allora lei e la sua famiglia sono “diversi”.
Ma come, mica siamo tutti albanesi?
Ecco, siamo albanesi quando ci fa comodo, poi quando il figlio si sposa è bene che la moglie abiti nelle vicinanze. In tutto questo provate a immaginare cosa può pensare l’albanese medio di tutti coloro che non sono albanesi. Ecco, buona fortuna.
Per non parlare di cosa potranno dire di me che critico la mia gente. Va beh, questa è un’altra storia.

Questo discorso sul razzismo della nostra ha avuto un effetto su mia madre. È rimasta in silenzio per un po’. Presumo non avesse mai pensato a questa cosa.

Ora continuo con voi. Ho visto il razzismo in Kosovo, ma l’ho visto anche in Italia, dove ho vissuto per vent’anni.
In Italia è stato a tratti comico, perché ho scoperto come le credenze sulle quali un razzista costruisce i suoi ideali possano essere smontate con una facilità irrisoria e non abbiamo alcuna coerenza.
Vi spiego. Ho avuto amici che col passare degli anni ho scoperto essere razzisti. Nel momento in cui l’ho scoperto ho chiesto a loro perché con me non lo fossero stati, perché non mi avessero mai insultato, perché non mi avessero mai chiesto di tornare al mio paese. Nel loro caso non si trattava di un razzismo soltanto contro persone dal colore della pelle differente, era un razzismo (lo è ancora) contro qualsiasi straniero vivesse in Italia. Insomma, i famosi immigrati che porterebbero via il lavoro ai figli di papà.
Dopo aver fatto notare a questi miei amici che io facevo parte di quel gruppo di persone che loro avevano e tutt’ora insultano, la risposta ricevuta ogni volta è stata la medesima.

 

“No ma tu sei diverso.”

 

No, non sono e non ero diverso. Mi è andata bene perché non ho mai avuto l’accento da straniero o da albanese. Non calcavo la elle o la erre. Se mi sentite parlare e non mi conoscete penserete che io sia di Milano.
Mi è andata bene perché giocavo a calcio ed ero bravo, quindi ero utile alla società.
Mi è andata bene perché mi vestito più o meno come i miei amici. Se c’era da avere le Adidas avevo le Adidas, se c’era da avere le Nike avevo le Nike. Insomma, ero parte del gruppo ed era impossibile capire che non fossi italiano. Sembravo uno di loro, ma non lo ero.
Quindi non meritavo gli insulti razzisti solo perché il mio accento e i miei vestiti erano conformi a quelli del gruppo dei miei amici italiani?

A quanto pare è proprio così. Il mio caso trova conferma nella storia di questo ragazzo di colore, che dopo essere stato malmenato da ragazzi bianchi perché nero, fa di tutto per diventare bianco e viene accettato dal gruppo che lo aveva malmenato.
Lui si integra, loro però continuano ad avere un atteggiamento razzista contro i neri, ma non contro di lui, perché lui nel frattempo – secondo loro – è diventato diverso da quelli neri. Per diverso si intende che veste come i suoi amici bianchi, ascolta la loro musica e parla come loro, ma è pur sempre nero. Quindi il fattore che ha fatto sì che loro lo menassero è ancora presente, ma ora loro lo considerano diverso, lo considerano come uno del gruppo. È un cortocircuito e mostra la stupidità di questo fenomeno.

Ecco il link del documentario:

https://www.internazionale.it/video/2019/02/20/black-sheep-razzismo-oscar

Questo per dire che non dobbiamo commettere l’errore di puntare il dito contro gli Stati Uniti e pensare che sia un problema esclusivamente loro. No, il razzismo c’è ovunque. Leggendo e studiando ho scoperto di odi tra etnie, popoli, Stati, regioni e religioni che non mi sarei mai immaginato. Perché non è solo una questione di bianco e nero. È un fenomeno che si attacca alla minima differenza fisica, culturale o religiosa e finisce per diventare violenza. Perché si inizia ammanettando una persona per aver commesso un reato, poi dato che è nero si finisce per ucciderlo. È un attimo.

Ho visto ebrei razzisti contro i musulmani. Ho letto di europei razzisti contro gli asiatici. Ho letto di neri razzisti contro i bianchi. Ho visto albanesi razzisti contro gli albanesi. Ho visto italiani del nord essere razzisti contro gli italiani del sud.

Quindi pare che siamo tutti razzisti. Scomodo, vero?

Ero razzista anch’io, avevo dei preconcetti pure io da piccolo. Non sono cresciuto in un ambiente dove la cultura, lo studio e la ricerca stavano al primo posto, anzi. Se non avessi avuto il privilegio di studiare sarei ancora razzista. Sì, proprio io che sono cresciuto in un paese straniero.

Ho letto, ho studiato, mi sono interessato a culture e popoli diversi. Questo mi ha permesso di conoscere l’altro, per quanto sia possibile farlo senza visitare un posto, ma è comunque un buon primo passo leggere degli altri, delle usanze, delle credenze di un altro popolo.
Ciò che mi ha aiutato più di tutto è il fatto di conoscere almeno una persona di ogni continente. Questa è stata la scintilla, parlare con persone di ogni parte del mondo e rendermi conto che non ci sia nessuna differenza tra noi, che tutti quei pregiudizi e quelle convinzioni ci sono state inculcate da fattori come l’educazione in famiglia, la preferenza politica di nostro padre, le amicizie, il periodo storico nel quale stiamo vivendo, ecc…

Quindi, il razzismo c’è ovunque.
Si risolverà? Io non credo. Purtroppo sono realista e non mi piace sognare troppo, soprattutto se si parla di un problema come questo radicato nell’essere umano da tanto, troppo tempo.

Se c’è qualcosa che mi sento di consigliarvi è di dare un peso minore alle foto che postate su Instagram e a concentrarvi di più sulla vita reale. Pubblicare una foto con lo sfondo nero non vi dà nulla. È un esercizio troppo facile che non cambia la vostra mentalità. Dopo i primi like che ricevete vi sentite appagati e non colpevoli, vi siete già dimenticati della storia. Trascorrere una serata a parlare con una persona di un altro continente può cambiarvi la vita. Ok, magari la vita no, ma di sicuro modificherà radicalmente l’idea che avete delle persone che ritenete diverse da voi.

Vi auguro di poter avere, come me, almeno un amico per ogni continente.

Gezim Qadraku

 

Non chiedere aiuto

Ho sei anni e sono in prima elementare.
È primavera, quasi estate ormai.
Dopo scuola mamma mi porta al parco a giocare con i miei compagni.
Sono felice, c’è il sole e le giornate mi sembrano tutte belle. Tra un po’ anche la scuola sarà finita, finalmente.
Al parco ci divertiamo sulle altalene, corriamo dietro al pallone e poi concludiamo giocando a nascondino. A una certa ora però dobbiamo tutti andare a casa, le mamme sono inflessibili.

A casa c’è papà, è da poco tornato dal lavoro. Si è fatto la doccia, profuma di buono. È stanco, ma io non lo noto. Sono un bambino, non posso accorgermene. Mamma mi dice sempre di chiedergli se è stanco. Lui mi risponde sempre di no, che non è stanco e mi accarezza la fronte sorridendo. Non capisco perché devo chiederglielo se poi lui mi dice di no. Lo capirò più tardi, quando sarò grande, quando proverò a lavorare anch’io e mi sentirò stanco non appena varcherò la porta di casa. Mi accorgerò quanto avere qualcuno che si preoccupa se sei stanco o meno, che quella semplice domanda, sia in grado di scacciare via tutta la stanchezza.

Mi faccio la doccia e poi vado a sedermi sul divano, di fianco a papà. Ha un libro in mano e la sua faccia ha un’espressione confusa. Sta studiando per la patente. Il libro mi piace, ha un sacco di immagini colorate che attirano la mia attenzione. Papà mi chiede aiuto. Mi domanda cosa vuol dire la parola “carreggiata“. È la prima volta che sento quella parola. Ho sei anni, sto frequentando la prima elementare, il mio vocabolario è ridotto. Quella parola mi sembra difficilissima. Non riesco ad aiutare papà e mi dispiace. Allora lui va a chiederlo alla nostra vicina di casa. Lei le dice che una carreggiata è una strada, però lui non sembra soddisfatto della spiegazione.

Io cerco di capire a cosa voglia dire quella parola e nel frattempo mi chiedo perché papà non lo sappia, perché mi ha chiesto aiuto? Perché è dovuto andare a chiederlo alla vicina? E mamma? Perché neanche mamma sa cosa vuol dire carreggiata?
Ho sei anni, sto frequentando la prima elementare e quella parola mi mostra che mamma e papà non sanno bene la lingua del posto dove stiamo vivendo. Avrei dovuto capirlo prima, penso. A casa parliamo una lingua diversa da quella che le persone usano in televisione. Mamma e papà utilizzano l’italiano solo quando siamo fuori. Perché io invece riesco a usarle tutte e due? Forse ho i superpoteri.

Passerò quel periodo della mia infanzia a pensare che sono un supereroe, che io so parlare sia la lingua dei miei genitori che quella delle maestre, dei miei compagni e delle persone in televisione.
Papà prenderà la patente al primo colpo. Non verrà bocciato né alla teoria né alla pratica.
Crescendo mi accorgerò che per certe cose non potrò chiedere aiuto a mamma e papà. Ci sono cose della vita in Italia per le quali loro non possono aiutarmi. Dovrei chiedere aiuto ai miei compagni di classe o alle mie maestre, ma mi vergognerò di farlo perché non vorrò mostrarmi diverso o inferiore. Allora finirò per non chiedere mai aiuto, per qualsiasi ostacolo io dovrò superare. Linguistico, fisico o psicologico.

Saranno gli altri a chiedermi aiuto, a fidarsi del mio supporto, delle mie conoscenze. Io no, mai.
Mi piace dire che sono un tipo che preferisce ascoltare, che mi mette a disagio chiedere aiuto a qualcuno.
In realtà non ho idea di come funzioni, di cosa bisogna fare e se ne valga la pena davvero.
Non ho ancora imparato a farlo, a chiedere aiuto.

Gezim Qadraku

Quelle estati in Kosovo

Tornare in Kosovo ogni estate significava poter finalmente respirare aria di libertà. Dopo nove mesi di orari inflessibili, scuola, compiti, verifiche e interrogazioni, mi aspettava sempre almeno un mese di puro divertimento. Passavo la maggior parte del tempo nel villaggio in campagna dov’è nato e cresciuto mio padre. Lì, insieme a mio cugino e altri ragazzi, sono sicuro di aver toccato l’apice della felicità.

Eravamo un gruppo di sei, sette bambini. Io ero il più giovane. Trascorrevamo i pomeriggi a giocare negli infiniti prati di campagna. Loro portavano le mucche al pascolo e uno aveva sempre con sé il pallone. Si andava così a sfidare gli altri bambini del villaggio. Io giocavo a calcio in Italia, mi allenavo due volte a settimana e facevo tutto secondo le regole. Ma lì, in mezzo a loro, sembravo un pesce fuor d’acqua. Mi pareva di fare un altro gioco. Loro erano più bravi, più veloci, più forti. Crescendo mi sono sempre chiesto dove sarebbero potuti arrivare, se qualcuno avesse dato loro una possibilità.

Che belli quei pomeriggi. Non si giocava soltanto a calcio, si andava anche a rubare le pannocchie per poi mangiarle insieme. Ci suddividevamo i compiti. Tre andavano a rubarle. Due erano gli addetti ad entrare nel campo, mentre uno stava fuori a controllare che non arrivasse qualcuno. Gli altri tre o quattro stavano alla base, che non era altro che l’ombra di una quercia. Lì sotto preparavamo la legna e il fuoco. Le mangiavamo alla griglia e a guardare le nostre facce pareva che ci avessero aperto le porte di un ristorante stellato. Non erano solo pannocchie quelle. Era l’organizzazione di un furto, l’ansia dell’attesa, l’adrenalina di coloro che dovevano mettere in atto il piano e poi la felicità di potercele gustare assieme.

Stavo bene in mezzo a loro, anche se ero totalmente diverso. Io avevo tutto: scarpe originali, vestiti belli, puliti e stirati. Una vita semplice in Italia e la possibilità di poter pensare a un futuro roseo. Loro non avevano nulla, ma io mica lo sapevo. Quanto piangevo ogni volta che bisognava tornare in Italia. Volevo restare con loro e avrei dato tutto quello che avevo pur di poter rimanere in Kosovo.
Loro non mi hanno mai detto niente, ma chissà quanto mi invidiavano. E io stupido che avrei barattato la mia vita agiata per il loro nulla.

Tutto mi piaceva di loro. Anche quando ci si sporcava giocando avevo la sensazione che il loro sporco fosse più bello del mio, più originale. Anche il fango o la polvere stava bene su di loro. Quante volte ripenso a quegli istanti ascoltando le meravigliose note de “Il ragazzo della via Gluck“. Mi emoziono ogni volta.

A quei momenti è legato anche il ricordo del cibo più buono che io abbia mai mangiato. No, non mi sto riferendo al mais alla griglia.
Quando uscivamo a giocare le nostre madri sapevano che avremmo fatto tardi e che a una certa ora avremmo avuto una fame da lupi. Allora mamma mi preparava sempre un panino con del pomodoro tagliato a fette e una generosa quantità di sale. Un panino semplice, anzi, piuttosto scarno se ci penso.
Era la fine del mondo, credetemi. Quando il succo del pomodoro bagnava il pane e in quel pezzo c’era del sale, prendeva vita un miscuglio che mi faceva letteralmente volare.
Dio che felicità.

Mamma però mi sgridava quando esageravo nell’uscire a giocare con gli altri. Usava un’espressione intraducibile in italiano, Sokak. La parola fa riferimento alle stradine strette che separano le case in un villaggio o in una città. Ma è il modo con cui viene utilizzata e tutto il significato che le viene dato a creare un mondo a sé stante. Mamma mi diceva sempre di non stare n’sokak tutto il giorno. Era come, per provare a dirla in italiano, una sorta di richiamo a non passare tutta la giornata a spasso per il paese a perdere tempo.

Voleva che studiassi, che facessi i compiti, ma a me interessava soltanto giocare a pallone con i miei amici. Loro mi proteggevano da quel mondo fatto di regole non scritte, orgoglio e tanto coraggio. Qualcosa di distante anni luce dal concetto di gioco e divertimento che c’era in Italia, quando trascorrevo il post scuola al parco con i miei compagni di classe. Loro indossavano tutti indumenti vecchi, brutti, sporchi e io li volevo. Sognavo di essere come loro, ma invece avevo tutta roba molto più bella. Me ne vergognavo.

Un giorno capii dove compravano quelle cose brutte che a me tanto piacevano. Vidi anche che costavano veramente poco e iniziai a comprendere qualcosa della loro realtà. Mi trovavo al mercato con i miei genitori, che in albanese chiamamo pazar, da bazar. Dovreste passarci una giornata in questo posto, capireste tanto del nostro popolo. I modi di fare dei venditori, la gentilezza e la disponibilità nel farti credito per una,due o tre settimane. L’atmosfera che si respira, gli odori, i suoni e i profumi. Provare a chiedere di avere un peperone e ricevere tutta la cassa che ne conterrà almeno una trentina.

“Ma no, tutti sono troppi. Me ne serve solo uno.”
“Ma signora, non vorrà mica comprare un solo peperone? Su dai, un euro e si prenda tutto.”

E non puoi mica rifiutare. Ed è bello così.

Ora capita, quando ritorno, sempre meno purtroppo, di incontrare di nuovo quei ragazzi. Sono cresciuti, sono diventati uomini. Hanno messo su famiglia, una casa e le loro vite hanno preso una via accettabile. Ma è come se nulla fosse cambiato quando mi vedono. Ci si incontra nei posti più impensabili, anche se per me ogni volta è come se qualcuno ci catapultasse sui prati della nostra amata campagna. Parliamo, discutiamo del presente e di come le cose siano cambiate. Sono ancora più gentili di prima e io mi sento a disagio ogni volta. Mi domando perché ho meritato una vita così fortunata e loro no.

Incontro Amir e mi torna in mente com’era la sua realtà da bambino. Abitava a una cinquantina di metri da mio cugino. A separarci c’era solo una collinetta che la gente usava per buttarci la spazzatura. Dietro all’immondizia c’era Amir e la sua famiglia. Un pomeriggio andammo da lui, non ricordo il motivo. Non avevano una casa, vivevano in una baracca. Il tetto era scoperto e il posto era minuscolo. Non ricordo quanti membri fossero in totale, anche perché ogni giorno scoprivo un fratello o una sorella nuova. Dovreste vederlo adesso Amir e la sua villa a due piani costruita con chissà quanti sacrifici. Mi ci porta dentro orgoglioso e mi fa conoscere sua moglie Jetmira, che è in dolce attesa.

È un maschio“, mi dice emozionato. Nel salotto ci sono un sacco di fotografie. La più grande è quella del padre, andato via troppo presto. Ci sono anch’io in una.  Siamo noi del gruppo, tutti insieme di fronte alla casa di mio cugino. Trattengo a stento la commozione. Non me l’aspettavo quella foto. È una valanga di emozioni difficile da gestire.

Beviamo il caffè, mangiamo qualche dolce e loro le provano tutte a trattenermi per cena. Dico ad Amir che sono già ospite da un’altra parte. È l’unico motivo che lo fa desistere. Saluto Jetmira con una stretta di mano e abbraccio forte Amir. Lascio il loro nido e mi dirigo verso mio cugino che mi aspetta per cena.

Durante il tragitto penso alla vita che ho condotto in Italia e quella dei miei amici italiani. A volte mi chiedo cosa ne è stata della nostra infanzia, se non abbiamo fatto altro che lamentarci di ciò che ci mancava. Il gioco della Play-Station, la scarpa di marca, il motorino, ecc…

Sono cresciuto in mezzo a persone che stavano bene economicamente, che potevano permettersi tutto ciò che serve a un essere umano per vivere bene, ma mi rendo conto che non mi hanno dato nulla. Mi hanno insegnato a scegliere i ristoranti, come si devono mangiare determinati piatti e come ci si deve vestire in certe occasioni. 

I poveri invece mi hanno dato tanto. Con loro mi sento sempre a mio agio, anche se io povero non lo sono mai stato. Loro hanno sofferto, hanno qualcosa da raccontarti, ci trovi la vita nei loro occhi. E se il destino non è stato troppo crudele e hanno ancora la forza di ridere; beh, in quei sorrisi capirai perché la vita sia la cosa migliore che possa esserti capitata. I poveri mi hanno insegnato e mostrato il significato della parola felicità. 

Arrivo al cancello e prima di entrare do un’occhiata intorno. Sono cambiate tante cose. Le case sono tutte più belle ora, i colori delle mura sono vivaci, la strada è stata asfaltata, nel fiume scorre una quantità d’acqua accettabile e non c’è più nessun segno della guerra. Nonostante tutte queste differenze, la mia mente ricrea le immagini di quei giorni d’estate. Vedo me stesso da piccolo che corre fuori dal cortile per incontrare i ragazzi del gruppo. Riassaporo il gusto di quei panini e risento le nostre voci felici mentre inseguiamo il pallone. Mi tornano in mente le parole del finale del film Stand by me.

Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?

Entro nel cortile e vedo mio cugino sul balcone che sorride nel vedermi. Mi dice che la cena è pronta. In cuor mio spero ci sia del pane, dei pomodori e del sale.

Gezim Qadraku

 

Permesso di soggiorno

Questo è uno di quei momenti della mia vita di cui ricordo ogni particolare. Le sensazioni, gli odori, i vestiti che indossavo, la musica che ascoltavo e ciò che mi frullava per la testa. Esattamente come per il mio approccio alla scuola elementare, quando a cinque anni dovetti affrontare lo shock di essere l’unico bambino in classe a non avere l’astuccio.

Sono seduto sul pavimento della questura di Milano di via Fatebenefratelli che aspetto il mio turno. No, non ho commesso nessun reato. Me ne andrò da questo paese tra qualche anno con la fedina penale completamente pulita. Non mi trovo qui perchè mi ci hanno portato i Carabinieri, ci sono venuto di mia spontanea volontà. Il mio permesso di soggiorno scade a breve e devo rinnovarlo. Devo rinnovarlo per poter risiedere in Italia, per poter studiare, per poter continuare a giocare a calcio, per poter vivere e fare le stesse cose che fanno i miei amici.

Sono seduto, stanco, esausto, mentalmente sfinito. Mi sono svegliato alle 5 questa mattina e alle 6 ero qua fuori. La coda era già bella lunga e dopo un’ora ero avanzato solo di uno o due metri. Sapendo cosa mi aspettava, ho deciso di commettere qualcosa di inaccettabile, qualcosa di cui ora mi dovrei vergognare, ma non provo nessun rimorso a essere sincero. Ho superato la coda, mi sono fatto scudo del mio aspetto di ragazzo dalla pelle bianca, dei miei pantaloni blu ai quali ho abbinato una camicia azzurra e del faccino innocente per sembrare un italiano. A guardarmi, chiunque avrà pensato che dovevo essere un qualsiasi studente italiano. Ho afferrato in fretta e senza farmi notare il bigliettino con il numero 181 e mi sono intrufolato dentro. Erano le 7 e qualche minuto, ho pensato che dopo pranzo sarei uscito da qua. Ero troppo ottimista. 

Sono le 16:30 e ho appena scritto alla ragazza con la quale mi sto sentendo che sono ancora qua, che il nostro appuntamento deve essere rimandato a domani. Sto ancora aspettando il mio turno e dal momento in cui sono entrato non sto facendo altro che scrutare le persone che mi stanno attorno. C’è puzza, puzza di sudore, di cibi, di sfinitezza. C’è puzza di qualsiasi cosa. Ci sono bambini che piangono, altri che giocano per ingannare il tempo, mamme che allattano, altre che cercano di far addormentare i propri bambini. Padri che perdono la pazienza e altri che non danno alcun cenno di nervosismo. C’è tutto il mondo in questo ufficio immigrazione. America latina, Africa, Europa dell’est, Medio Oriente e Asia. Ci siamo tutti, non manca davvero nessuno.

Sullo schermo è apparso il numero 150, si avvicina il mio turno. Una trentina di numeri e sarà finito questo inferno. Non mi resta altro da fare che pensare a tutto il tempo che ho trascorso qua dentro sin da quando sono in Italia. È la prima volta che ci vengo da solo, è la prima volta da maggiorenne. Prima era un inferno che condividevo con i miei genitori. Andare in questura significava perdere un giorno di scuola. Significava andare a Milano e quindi prendere il treno e la metro. Erano tutte cose che mi piacevano e mi sento un idiota, se ripenso a quanto venire in questura a rinnovare il permesso di soggiorno fosse un giorno bello per me.

Mi è sempre piaciuta Milano. I treni, la metro, la folla di gente, i negozi, il tipo di vita che si respira qui. Ho sempre desiderato viverci. Non lo so ancora in quel momento, ma dopo qualche anno avrò la possibilità di studiare a Milano e finalmente mi toglierò tutto quel desiderio di godermi questa città in ogni angolo.

C’è una famiglia che attira la mia attenzione. Devono essere indiani o pakistani. La famiglia è composta da cinque membri: padre, madre e tre bambine. La figura paterna ha appena ricevuto quello che penso sia il rinnovo del permesso di soggiorno per sé e tutti gli altri. Accenna una corsetta liberatrice verso le sue donne. Le loro facce, i sorrisi e gli abbracci che si danno sono la miglior rappresentazione della felicità che potrei dare in questo momento, se qualcuno me lo chiedesse.

Li guardo e invece di empatizzare la loro gioia ed essere felice, provo una forte compassione. Mi fanno pena, come mi fa pena me stesso. Vorrei alzarmi, raggiungerli e dire a loro di andarsene. Di lasciare questo paese e tornare a vivere nel loro. Io sono così stanco di tutto questo che ci tornerei nel mio, anche subito. A piedi, se fosse necessario. È stata una vita trascorsa così: a rinnovare il permesso di soggiorno. In base alle leggi che i governi si divertono a cambiare ogni volta, la giostra cambia giro. A volte i rinnovi durano più a lungo, altre volte di meno. Dicono che dopo determinati anni hai diritto alla cittadinanza, ma c’è gente che la aspetta da così tanto che si è dimenticata della data di quando l’ha richiesta.

Nessuno ti ha obbligato a venire, potrebbe giustamente dire qualcuno. Mi verrebbe da dare ragione a un’affermazione feroce del genere in questo momento. Tornerei indietro e farei di tutto per fermare mio padre. Gli direi di restare, di non convincere mia madre a seguirlo. Proverei a convincerli a stare in un posto dove anche se vuoi lavorare il lavoro non c’è. In un posto dove arriverà la guerra e chissà se sarai fortunato o no da sopravvivere. Perché dopo aver ascoltato i racconti di guerra penso che sia tutta questione di fortuna. Ma queste attese, questa burocrazia, questo continuo riflettore che ti ricorda che non sei come quelli del posto mi ha stancato. E ora, mentre allungo le gambe e cerco di rilassare i muscoli, quasi me ne fotto di tutte le cose che un paese sviluppato ti mette a disposizione. Vorrei chiudere gli occhi e catapultarmi là dove sono nato.

Come se non bastasse, cresci in un ambiente dove costantemente ti senti ripetere che siamo tutti uguali, che siamo tutti sulla stessa barca. Cazzate. Io per poter andare a scuola, per giocare al parco con i miei amici e potermi registrare alla squadra di calcio del mio paese avevo bisogno di un permesso di soggiorno. No, non siamo tutti uguali. Non lo saremo mai. È la triste e cruda verità. Ma va bene così.
Mentre seguo con gli occhi quella famiglia uscire dalla questura mi dico che non voglio neanche essere uguale agli altri. Che non me ne frega più niente in realtà. Perché arrivi a un certo punto che tutto questo ti toglie la forza e lo accetti passivamente. Vieni qui, ti metti in fila e aspetti il tuo numero. Ricevi il tuo permesso rinnovato e te ne torni a casa.

È passata un’ora e finalmente è il mio turno. Il ragazzo allo sportello avrà qualche anno in più di me. Gli do tutto quello che mi chiede e dopo una decina di minuti mi fa firmare un foglio sul quale c’è una tessera di colore arancione. Il mio nuovo permesso di soggiorno. È valido dal 2009 fino al 2014. Siamo nel 2010, un anno è già trascorso.
Cinque anni, mai avuto un permesso di soggiorno così lungo. Prima di andarmene mi ricorda che il prossimo sarà indeterminato. Si aspetta che la notizia mi faccia piacere, che io sorrida e reagisca in chissà quale maniera. Lo ringrazio e me ne vado.
“Non me ne frega un cazzo”, gli vorrei dire. Ma non è colpa sua, lui non c’entra niente. Non è colpa di nessuno in realtà, vorrei poter trovare un colpevole a tutto questo. A chi fa sì che certi popoli debbano lasciare i propri luoghi e passare una vita in posti come le questure a rinnovare permessi di soggiorno. 

Non posso fare altro che uscire da questo posto. Ci sono entrato dieci ore fa. Era buio, lo è di nuovo. Scrivo a mamma che ho finito, che mi fermo a mangiare qualcosa perché sono distrutto. C’è un McDonald’s a pochi passi dalla questura e mi ci catapulto dentro. Ordino un menù grande e cerco di godermelo con tutta la calma del mondo. Dopo un paio di patatine e il primo sorso di Coca Cola sento il cellulare vibrare. È il mio migliore amico.

“Calcetto tra un’oretta?”
“Non ce la faccio, sono a Milano”
“Che ci fai a Milano a quest’ora?”
“Ero in questura. Ho appena finito.”
“In questura? Che cazzo hai combinato?”
“Niente tranquillo. Dovevo rinnovare il permesso di soggiorno.”

Do il primo morso all’hamburger e sorrido. I miei amici italiani conoscono la questura come il posto dove vieni portato se hai commesso qualche reato. Non lo sanno che c’è un ufficio immigrazione, una sala dove gli stranieri trascorrono la propria vita a rinnovare il permesso di soggiorno. L’hamburger è buono, do un altro morso più grande. Penso che tra quattro anni sarò ancora qui, un’altra volta.
Sarà l’ultima, ma non lo so ancora.

Gezim Qadraku

 

L’immagine in evidenza è stata scattata da Claudio Furlan.

 

Pezzi di puzzle

È un venerdì di metà dicembre e le temperature sono più alte del previsto. Dovrebbe fare molto più freddo in questo periodo dell’anno. Io vorrei tanto vedere un po’ di neve e invece niente, solo una nebbia inutile e fastidiosa. C’è qualcosa che non va, ma sembra che nessuno se ne preoccupi, tanto meno io in realtà.
Ci sto pensando solo perché mi sono appena tolto la felpa e sotto ho una di quelle magliette estive leggerissime. Mi vestirei così a settembre, normalmente, non a dicembre. Sono un tipo freddoloso, al minimo abbassamento delle temperature corro subito a coprirmi. Invece eccomi qui, con un classico abbigliamento autunnale e ora rimango addirittura in maglietta a maniche corte.

Mi sono alzato tardi oggi, ho trascorso la giornata a fare ricerca per la presentazione del corso di relazioni internazionali. È tra una settimana e non ho la più pallida idea di come organizzarla. Il tema sono i rapporti tra Stati Uniti e Cina, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla guerra dei dazi. Ne parlano tutti così incessantemente che ho la sensazione di ripetere cose già fritte e rifritte.

È stato il professore ad assegnarci i temi, altrimenti avrei optato per altro, qualcosa di cui nessuno è interessato. Sono rimasto davanti al pc per non più di due ore, giusto il tempo di trovare un paio di pubblicazioni abbastanza affidabili sulle quali basare il mio lavoro.
Per pranzo ho preparato una pasta al pesto, accompagnata da una bistecca senza contorno, buttata su un piatto troppo grande, sul quale sembrava ancora più piccola di quello che era.
Poi ho preparato il caffè e mangiato un Ferrero rocher. Non mangio mai dolci, cerco di lasciare il cibo poco salutare per il weekend, ma mentre mi scottavo le labbra assaggiando il caffè, mi sono accorto che il pranzo non era stato abbastanza. Avevo ancora fame e l’unico modo per riempire il buco, in questi casi, è divorare qualcosa di dolce.

Ho lavato le stoviglie e poi le ho asciugate, il tutto mentre Spotify riproduceva musica tranquilla, come dal nome della playlist. Ho portato fuori la spazzatura e perso un po’ di tempo su YouTube, prima che arrivasse il momento di prepararmi per andare in Università. Mi sono messo il primo paio di jeans che ho trovato,  una maglietta nera che ho abbinato alla felpa verde scuro. Si è ristretta un po’ dopo vari lavaggi e ora mi calza a pennello, le maniche arrivano giuste ai polsi e sento che sto incominciando a riempirla all’altezza delle spalle. Non avevo molta voglia di venire a lezione oggi, sarà per il fatto che è nel tardo pomeriggio. Inizia alle 16 e finisce alle 17:30. Quel periodo della giornata che in università trascorreresti molto più volentieri a berti un caffè con un amico, parlando di discorsi futili, lamentandoti della mole di studio, per poi passare a commentare l’ultimo episodio della serie del momento di Netflix. Il tutto accompagnato dal senso di colpa che ti travolge in questi casi, mentre ti accorgi che stai buttando il tuo tempo e la sensazione è che tu stia facendo lo stesso con la tua vita.

Invece sono qui che mi levo la felpa per il caldo, mentre faccio finta di seguire la presentazione di quattro compagni. Stanno parlando della storia dell’Iran e non mi sembra che abbiano colto in pieno il significato di quegli eventi. Li ascolto solo di sfuggita, so già tutto e lo so piuttosto bene. Ma non è merito mio, sono solo stato fortunato ad avere un padre che per lavoro doveva muoversi da un continente all’altro e io e mia madre non avevamo altra scelta che seguirlo. Teheran è una di quelle città che non dimenticherò mai. Ho finito per tornarci una volta, per i fatti miei, senza mamma e papà. Penso siano gli occhi di quel popolo a essermi rimasti impressi, come se mi avessero rapito, in un certo senso. L’unica città nella quale ho provato il desiderio di rimanere, come se mi fossi sentito a casa, nonostante io non abbia idea di cosa significhi sentirsi a casa.

Guardo le slide dove appaiono le facce di Mossadeq, dello Shah e di Khomeini. Poi muovo lo sguardo verso di lei, la ragazza mora con gli occhi verdi che ha appena finito di esporre la sua parte. Si è spostata verso sinistra, di fianco alla cattedra, per lasciare la scena al suo compagno. Un ragazzo minuto con una voce così dolce e insicura che se non fosse per una barba non curata e senza senso, non gli si potrebbe dare neanche la maggiore età. Continuo a fissarla, quasi impotente e fregandomene che lei o qualcun altro se ne possa accorgere. Cerca gli occhi del suo ragazzo, seduto un paio di sedie davanti a me, e li trova. Lui le fa un cenno con la testa, non riesco a vedere il suo volto, solo la sua nuca che si muove in avanti e indietro lentamente, in maniera quasi impercettibile. Emana sicurezza quel movimento, ma anche il suo modo di fare e pure il suo abbigliamento. Ha addosso la felpa dell’università e un paio di pantaloni di colore oliva semi eleganti. Non è di certo l’abbinamento che avrei fatto io, ma su di lui sta bene. Quella felpa su di me starebbe bene solo in casa, per dormire. Forse. 

Si cercano e si trovano in maniera così facile e naturale che viene da commuoversi osservandoli. Lei sorride e si copre le mani allungando le maniglie del maglioncino color crema che le sta divinamente. È quasi imbarazzata, impaurita che qualcuno si stia accorgendo delle loro effusioni in lontananza. Fatica a nascondere la felicità per aver esposto bene, in maniera chiara e sicura, senza mai permettere all’ansia che le si era dipinta in volto di avere la meglio. È soddisfatta, leggo nella sua espressione una certa fierezza.
Il corso è iniziato da due mesi e con lei ho avuto solo un brevissimo scambio di battute. Non sono riuscito ad andare oltre. Quando mi ha rivolto la parola mi è sembrato di perdere tutte le difese immunitarie. È incredibile in che condizione riesca a metterti una persona che ti interessa, quanto potere siamo in grado di darle. Le ho risposto, non ricordo come e poi sono rimasto in silenzio, impaurito e preoccupato.
Li guardo e provo un misto di invidia e gioia. Li invidio perché sono entrambi del posto, ho scoperto che hanno studiato assieme e sono nati qui. Ci faccio sempre caso a questi dettagli, non per un motivo in particolare, ma per il semplice fatto che quando cresci come sono cresciuto io, sballottato da un paese all’altro, finisci per non vedere nessuno che ti assomiglia.

Chi c’è, là fuori, che è cresciuto come me?
Che non ha mai vissuto nello stesso paese per più di tre anni di fila?
Che ha frequentato più di dieci scuole diverse?
Nessuno, vero?

Continuo nell’esercizio di guardarli, fissarli, provare a entrare nelle loro teste, nelle loro vite. Mi piacerebbe essere così, essere nato in un posto ed esserci cresciuto. Avere un forte senso di appartenenza verso un paese o una città. Insomma, avere delle radici. Che poi ce le ho anch’io le mie radici, ma parlano lingue diverse e si muovono per tutti i continenti. Da Gerusalemme a Teheran, per poi andare a Tokyo, fare una sterzata a Mosca e saltare a New York. Poi l’Europa, prima Roma, poi Madrid e ora Berlino. Andando in giro per il mondo l’inglese è stata la lingua che ho imparato per prima e ho sempre frequentato le scuole in inglese, anche se a mamma piaceva molto farmi seguire dei corsi intensivi sulla lingua del posto. So un po’ di persiano, arabo, spagnolo e italiano, mentre con il giapponese sono proprio bravo. Con quei suoni e quei caratteri è stato amore a prima vista. Con il russo odio totale.


Ricordo che quando eravamo in Asia, il periodo dai 10 ai 15 anni, chiedevo a mamma perché tutti mi fissassero e perché non c’era nessuno chi mi assomigliasse esteticamente. Mi facevano un po’ ridere gli occhi a mandorla dei bambini giapponesi e cinesi. Un giorno le chiesi che cosa ci facevamo lì, perché dovevamo stare in un posto così strano. Mamma non utilizzò, come sempre faceva, la scusa del lavoro di papà.
Quella volta mi raccontò di un giornalista italiano che si chiamava Tiziano Terzani, il quale aveva trascorso gran parte della sua vita in Asia. Aveva raccontato le guerre che si erano svolte in quel periodo storico e si era portato sempre la famiglia con sè. Mi raccontò che i suoi figli avevano frequentato la scuola in cinese ed erano in grado di parlare perfettamente la lingua. Fu come ascoltare una favola e in quel momento pensai di aver trovato una sorta di supereroe, qualcuno da imitare o comunque qualcuno da considerare come noi, persone strane senza casa che abitano ovunque nel mondo.

Anche papà col passare del tempo si è accorto di questo mio malumore, questo mio problema d’identità. Sono sicuro che erano a conoscenza del rischio che avrebbe rappresentato crescere un figlio sapendo che avrebbero trascorso la loro vita girando il mondo. Ma non erano due sprovveduti, avevano entrambi le basi per gestire una situazione del genere.
Quando era lui a parlarmi della mia situazione, diceva che la mia esistenza così diversa e particolare, mi avrebbe portato a diventare qualcosa di unico, qualcosa che tutti avrebbero invidiato. Guardavamo le partite di NBA insieme e mi faceva sempre l’esempio di Kobe Bryant. Mi diceva che il fatto di essere cresciuto in Italia e aver imparato a giocare in un paese dove si insegnava quello sport dando tantissimo valore ai principi tecnici, gli aveva permesso di diventare ciò che era.
Concludeva sempre alla stessa maniera, papà: “immagina se fosse cresciuto negli states, sarebbe stato un altro giocatore straordinario come gli altri“.
Papà, ma allora Micheal Jordan?“, ribattevo io, quando ne avevo voglia.
E lui, puntuale e ripetitivo, mai domo, rispondeva sempre: “Jordan, Alì, Maradona e Federer non sono esseri umani. Loro fanno parte di un’altra categoria. Non commettere l’errore di paragonarli agli altri“.
Era un appassionato bulimico di qualsiasi sport, guardava gli eventi con una passione vorace. Il gesto tecnico, misto alla tensione emotiva e fisica, lo trasportava su un’altra dimensione. Perdeva qualsiasi pudore e contegno. A volte era più bello ammirare da vicino le sue reazioni a un canestro o a un rovescio, piuttosto che l’atto stesso eseguito dall’atleta, per quanto poteva essere stato magnifico.

Era lo sport che gli aveva fatto incontrare mamma. A Parigi, durante il Roland-Garros. Lei faceva la giornalista, lui invece era a caccia di clienti ed emozioni dal vivo. Trovò l’emozione più grande della sua vita, trovò l’amore.
“Tua madre mi ha reso umano“, diceva sempre quando parlava del loro incontro.
Amava gli articoli di mamma. Penso che lei l’abbia conquistato prima con le sue parole che con l’aspetto fisico.
Tua madre ti racconta una partita che hai visto e ti fa credere di esserti perso ogni secondo. Lei vede di più, vede meglio, va a fondo in ogni cosa. Da una partita di tennis è in grado di tirare fuori un compendio sulla vita e su come affrontare gli ostacoli.

Mamma invece seguiva solo il tennis. Con quello sport era un rapporto di amore e odio. Come con un qualcosa che ti fa del male, che ti tira via gran parte dell’ossigeno di cui hai bisogno per vivere, ma senza di esso sei a conoscenza di non poter andare avanti.
È uno sport individuale“, diceva, sottolineando ancora di più il fatto di non prendere in considerazione tutti gli altri sport individuali, i quali riteneva di relativa importanza.
Sei solo, nudo e hai tutti gli occhi puntati addosso, con il tuo avversario che vede dove colpire per ucciderti. Devi essere forte, non hai altre possibilità.
Iniziai ad amare anch’io i suoi pezzi. Ci trovavo tutto quello che avrebbe voluto dirmi da figura materna, ma che non riusciva o non voleva. Mi sembrava quasi imbarazzata, a tratti. Lo era diventata sempre di più mentre crescevo, come se le parole fossero diventate inutili nel nostro rapporto, bastavano gli sguardi.
Non le ho mai chiesto di mandarmi i suoi pezzi, andavo a cercarmeli mentre si svolgevano i grandi tornei. Diceva che se avessi voluto fare l’artista, qualsiasi fossero state le mie opere, non avrei mai dovuto inviarle a qualcuno e chiederne il parere.
La gente ti dice che sai fare qualcosa per compassione, se glielo chiedi. Non è un giudizio attendibile. Lascia che siano loro a trovare le tue opere. Solo di quei commenti ti potrai fidare.

Il frastuono rumoroso di un fulmine improvviso mi riporta alla realtà. Sono a Berlino, e in una grigia giornata di dicembre, mentre quattro compagni parlano di Iran e medio oriente, guardo una coppia di ragazzi tedeschi e mi sembra di vedere due pezzi di puzzle che si incastrano. La sensazione di piacere che mi danno mentre si amano, lascia il posto a un sentimento misto tra timore e scoraggiamento. Vorrei essere come loro, vorrei essere come quel ragazzo, essere in grado di conquistare e amare una ragazza del genere.
Il mio sguardo scende in basso verso le mie scarpe e mi accorgo che ho una scarpa slacciata. Quella stringa che tocca per terra mi fa sentire così sbagliato e fuori posto. Non ha senso, lo so. Come non ha senso giudicare una relazione amorosa in base alla nazionalità dei due protagonisti, ma non lo faccio apposta, è più forte di me.
Sono tanti i fattori che ti condizionano nella tua crescita. I genitori, gli amici, le persone che incontri, chi ti ama, chi ti ferisce, e ciò che per te è normalità. Per me normale è stato crescere e sentirmi la pecora nera del posto.
Ripenso a tutti quei viaggi con mamma e papà, a tutte le persone che ho avuto la fortuna di incontrare in questo arco di tempo che è stata la mia esistenza e mi accorgo di come tutti, in qualche modo, fossero dei pezzi di puzzle che si trovavano nel posto giusto ed era solo questione di tempo affinché incontrassero la parte nella quale incastrarsi. Noi invece ci distinguivamo sempre per qualcosa, che fosse il colore della pelle o la lingua. Mi ci sono abituato, in qualche modo, a non avere nulla a che fare con chi mi circonda. Però a volte sono stanco, molto stanco. Come oggi per esempio.

Mi tocco l’orologio, ci passo il pollice sopra come per pulirlo, ma in realtà non faccio altro che inumidirlo. Mi lascio letteralmente andare sullo schienale della sedia, infilo le mani nelle tasche della felpa e continuo ad ascoltare i miei compagni. Sono già arrivati all’accordo nucleare siglato dall’amministrazione Obama, hanno finito. Eravamo solo a Khomeini, mi dico, mentre cerco di capire quanto tempo ho trascorso vagabondando senza meta nei miei pensieri.
Si fermano, hanno terminato. Il silenzio copre l’aula ed è la voce profonda del professore a risvegliarci dai nostri pensieri. Si congratula con il gruppo, aggiunge un paio di considerazioni sull’accordo nucleare e sugli avvenimenti odierni.
Poi ci racconta una curiosità, chiede a tutti gli studenti internazionali se sanno come si dice “scacchi” in tedesco. Nessuno risponde.
Poi lui, con un sorriso inebriato, ci dice: “Shach”. E tutti noi capiamo il riferimento che vuole fare con l’Iran e la figura dello Shah.
Riprende in fretta le vesti di professore accademico e chiede se qualcuno di noi ha domande. Nessuno ha niente da chiedere. Il professore mette la parola fine alla lezione, ci augura un buon weekend e il rumore delle sedie che si muovono copre la stanza.

Butto il quaderno in cartella, indosso il giubbotto con un movimento veloce e sistemo le cuffie altrettanto in fretta. Esco senza cercare lo sguardo di nessuno, non ho alcuna voglia di parlare in questo momento. Dopo un paio di passi rapidi nel corridoio principale dell’università, rallento l’andatura e continuo a pensare a quei due. Quei due pezzi di puzzle così belli e naturali. Mi verrebbe voglia d’andare e abbracciarli, dire a loro di mettere su famiglia e fare un sacco di figli. Un sorriso forzato accompagna questo pensiero, mentre mi accorgo che ho le cuffie infilate nelle orecchie, ma non ho voglia di ascoltare nessuna canzone.

Arrivo all’uscita e il primo impatto con l’ambiente esterno è più freddo del previsto. Abbasso la testa e nascondo la bocca sotto il bavero del giubbotto. Tremo un paio di secondi, prima che il corpo si abitui alla temperatura esterna. È già buio e penso che non prenderò la metro per tornare a casa. Ho voglia di camminare e continuare a pensare. Passo davanti a un negozio di alimentari africano così colorato che mi viene da chiedermi come sia possibile che esistano alimenti dai colori così intensi e vivaci.
La vetrata mi permette di guardarmi. Mi fermo per un paio di secondi, facendo finta di dare un’occhiata all’interno, in realtà cerco solo i miei occhi e osservo il riflesso della mia immagine. Mi accorgo che è da un po’ di tempo che non mi guardavo allo specchio. Ciò che vedo continua a non convincermi del tutto, mi sembra di essere diventato il pezzo di un puzzle che non ha alcuna caratteristica per incastrarsi da un’altra parte. C’è un contrasto enorme tra i colori degli alimenti e il grigio opaco che vedo su di me. Questo fatto mi urta, mi colpisce all’interno e per un attimo non vedo più niente riflesso sul vetro.

Sento tutto il mio peso scivolare verso le gambe. Non ho più alcuna forza in corpo, soltanto rassegnazione. Vorrei essere arrabbiato, vorrei piangere, ma non ne ho neanche la forza per farlo. Smetto di guardarmi e continuo a camminare, con la vista che si annebbia sempre di più. Dovrei fermarmi, dovrei bere un bicchiere d’acqua e sedermi, ho la sensazione di poter cadere da un momento all’altro, ma continuo imperterrito. Sento un paio di gocce di pioggia bagnarmi i capelli. Diventano sempre più fitte col passare dei secondi. Ho l’ombrello in cartella, ma non lo prendo. Mi lascio bagnare dall’acqua con un atteggiamento passivo e disinteressato alla vita. Voglio tornare a casa fradicio, farmi una doccia bollente infinita, andare a dormire e stare a letto per tutto il weekend.
Arrivo a un semaforo, è rosso, mi fermo. Dall’altra parte della strada scorgo una ragazza, il suo cappellino di lana di un arancione troppo acceso mi colpisce. Sembra carina, ma non riesco a captare i suoi lineamenti. In un batter d’occhio arriva un sacco di gente, sia dalla mia parte che dalla sua. Mi sembra che il suo corpo minuto sparisca in mezzo agli altri, riesco a fatica a scorgere il suo cappellino ora. Scatta il verde e attraversiamo la strada. Riesco nel miracolo di non vederla e lei di sparire tra folla. Forse non sono concentrato abbastanza.

Arrivo dall’altra parte della strada e dopo pochi passi sono di nuovo solo. Mi chiedo dove siano finite tutte quelle persone che hanno appena attraversato le strisce pedonali con me. Ma la mia mente torna ancora a quell’idea, quel concetto dei pezzi di puzzle, quel più che incontra il meno, lo yin che bacia lo yang, la luce e l’ombra.
D’improvviso la memoria fa un salto carpiato fino al meraviglioso documentario su quel fisico italiano che scoprì la particella senza antiparticella.
Una particella che si differenzia dalle altre, perché in fisica ogni cosa ha il suo opposto, invece questa è ombra e luce nello stesso momento, si completa da sé. Se non sbaglio è un argomento legato alla fisica quantistica o qualcosa del genere.
Nel documentario uno scienziato americano dice di averla ribattezzata “la particella angelo“, quella che non ha nessun demone. Forse dovrei smetterla di pensare alle persone come a dei pezzi di puzzle, ma piuttosto come a queste particolari particelle fisiche. C’è chi ha bisogno del suo opposto e chi si completa da solo.

Mi fermo e mi accorgo che ho sbagliato strada. Sono davanti all’ambasciata britannica, lontanissimo da casa. Ma perché sono finito qui? 

Che domanda, è da oggi in classe che ho il cervello disconnesso. Non ho altra scelta se non prendere la metro. Nel frattempo ha smesso di piovere e sono quasi fradicio, non il livello che speravo di raggiungere però. Do un’occhiata alla luna, è piena, luminosa, enorme, resterei tutta la notte a guardarla, ma non posso. Scendo le scale e al penultimo gradino mi accorgo che le porte della metro si sono appena aperte. Affretto il passo e mi immergo nella folla. Entro e mi siedo immediatamente. La metro riparte, accendo la musica. I Kodaline cantano “follow your fire” e finalmente sento il sangue tornare a circolare in maniera naturale, come se avessi ricominciato a vivere, come se la fiamma dentro di me non si fosse ancora spenta. Non poteva partire canzone migliore in questo preciso istante.
È un caso? Non penso. Mi piace pensare che la vita sia un disegno in parte già compiuto e noi possiamo soltanto migliorarlo o peggiorarlo.

Giro la testa verso sinistra senza un motivo preciso e incrocio il viso di una ragazza. Ha gli occhi color nocciola, rossetto rosso acceso e veste in maniera elegante. Ha in mano un Kindle. Starà tornando a casa dal lavoro. Giovane e già in carriera. Qualcosa di troppo lontano per me, mi dico, mentre sto per voltare la testa dall’altra parte. Poi però è lei a girare il volto verso di me, le sue pupille incontrano le mie e ho la sensazione che il fuocherello al mio interno divampi in un incendio. Vorrei distogliere lo sguardo dalla vergogna, ma rimango su di lei, è troppo bella. Non riesco fisicamente a fare a meno di guardarla. 

Mi sorride.
Le sorrido anch’io.

Gezim Qadraku.