Stranieri

Quando insulti uno straniero dicendogli – per esempio – di tornarsene nel suo paese, devi sapere che se fosse stato per lui, nel tuo paese, non ci sarebbe mai venuto.
Tu lascieresti famiglia, amici, parenti e le tue amate abitudini, per andare a vivere in un posto del quale innanzitutto non comprendi la lingua e dove non conosci nessuno?
No, non lo faresti. Almeno che tu non fossi in un certo modo obbligato.
Ecco, allora ricordati che quella persona è stata obbligata ad andarsene dalla sua amata terra madre.
Probabilmente c’era una guerra, magari era perseguitato o “semplicemente” non stava riuscendo a costruirsi il futuro che aveva immaginato e così ha pensato di provare a farlo in un paese che dava più possibilità del suo.

Sai, è brutto sentirsi incolpati dei problemi che affliggono uno Stato o essere etichettati come ladri di lavoro. Nessuno viene nel tuo paese a rubare nulla.
Sì, a parte quelle persone che optano per l’illegalità. Ma parliamoci chiaro, quelli ci sono dappertutto. Ce li abbiamo anche noi, come ce li avete voi.
E poi credimi, non saranno di certo gli stranieri ad incidere sulla mancata crescita del PIL o sull’aumento del debito pubblico. Anzi, dovresti sentirti onorato che abbiano scelto il tuo paese, perché significa che vedono in te e nei tuoi connazionali, persone che sono state in grado di dar vita ad uno Stato che funziona. Presumo però, che questo concento non ti sia mai passato per la mente.

Dovresti vederli, tutti questi stranieri che coniugano male i verbi della tua lingua e fanno i lavori che tu non ti sogneresti mai di accettare, quanto sono felici quando tornano a casa loro. Sempre se possono permetterselo. Piangono quando arrivano, ma ancora di più quando se ne vanno.
Vai da qualsiasi straniero e chiedigli che piani aveva quando è arrivato. Ti garantisco che 9 su 10 ti risponderanno dicendoti che le loro intenzioni iniziali erano di lavorare per guadagnare un po’ di soldi, il sufficiente per poter tornare a casa e costruirsi una vita. Poi sai come si dice, la vita è quello che ti succede mentre fai progetti.
Alla fine sono rimasti tutti, hanno messo su famiglia e hanno continuato a lavorare.
Può capitare che i figli non sappiano parlare correttamente la lingua dei genitori, ma abbiano il tuo stesso accento. Che quando tornano nella terra natia di mamma e papà, fatichino a creare un legame con i propri nonni perché non li capiscono.
Succede inoltre, che quella generazione che ha mollato tutto e si è costruita una vita nel tuo paese, non riesca nemmeno ad essere presente ai funerali dei propri cari. Perché la morte arriva da un momento all’altro e magari non riesci a trovarlo il biglietto aereo quella sera.
Nessuno vuole lasciare la propria casa, credimi. E puoi verificarlo te stesso, osservando in quanti hanno cercato di costruire nel tuo paese una loro mini terra madre. Aprendo per esempio negozi alimentari tipici, nei quali ogni tanto ci entri anche tu a mangiare.
Lo vedi allora quanto ne sentono la mancanza.

Io capisco la tua rabbia e la tua frustrazione di fronte a coloro che rubano, che non rispettano le leggi e tu giustamente pensi che si approfittino del tuo amato paese. Lo capisco che è più facile trovare un colpevole e generalizzare, se tu non riesci a trovare il lavoro per il quale hai sacrificato anni di studio, se i tuoi genitori perdono il loro posto fisso e la tua felice realtà si trasforma in uno schifo. Comprendo la tua ira, perché è la stessa che hanno vissuto coloro che etichetti come colpevoli.

Se vuoi veramente capire com’è la vita di uno straniero, prova a chiedere ai tuoi connazionali che sono andati, e continuano ad andare via. Domanda a loro cosa si prova a non sapere la lingua del posto in cui si vive, a dover accettare qualsiasi lavoro, a doversi accontentare di una videochiamata nel weekend per sentire la voce di famigliari e amici. E che fortuna ora che c’è internet, pensa com’era dura prima.

Credimi, non è una vita facile quella di uno straniero. A volte vorresti solo nasconderti e non farlo capire a nessuno. Però ci si mette in mezzo la natura, che ti ha dato il colore della pelle diverso. Se non è la pelle, allora sarà il tuo nome ad incastrarti, o magari il tuo accento. E non è di vergogna che parlo, nessuno si vergogna delle proprie origini. Semplicemente che a volte vorresti soltanto essere uno del posto o almeno poter vivere nel tuo paese e sentirti identico a tutti gli altri.
Sei straniero sempre, anche se ti integri e parli bene. Sei comunque diverso. Nessuno pronuncia bene il tuo nome, nessuno intorno a te ha le abitudini e le usanze con le quali ti ha cresciuto la tua famiglia. Uno poi cerca di adattarsi, di sdoppiarsi, di fare due vite contemporaneamente, finendo per non capire più chi è.
Arrivando ad essere semplicemente considerato come il colpevole di tutti i mali.
Perché sei straniero.
Perché non dovresti essere qua, ma saresti dovuto restartene dove sei nato.

Gezim Qadraku.

L’immagine raffigura l’opera di Bruno Catalanto, “Les Voyageurs”.

Caro Diario

Giorno: 19/3/2018
Ora: 23:03

Caro Diario,
è passato più di un mese dall’ultima volta che ti ho scritto. Lo sai come sono io. Un giorno ti prometto che ti terrò aggiornato sulla mia vita regolarmente, poi finisco per lasciarti ad aspettarmi per tempi infiniti. 
In realtà, dall’ultima volta, nulla di eccezionale è accaduto. Questa parte della mia vita penso di poterla inserire nella sezione “nulla di nuovo”. Il tutto procede sulla stessa linea, senza ostacoli o interruzioni. Non che la cosa mi dispiaccia è, ma qualche scossa mi servirebbe.
Ieri, al lavoro, è accaduto un fatto che mi ha scombussolato in positivo. È arrivato un ragazzo nuovo. Oddio, ragazzo, ha 35 anni se non ricordo male.
Il primo approccio ovviamente non è stato dei migliori. Mi sono limitato a presentarmi e poi sono rimasto sulle mie durante le prime ore, finché le mansioni da effettuare non ci hanno obbligato a doverci parlare.
Ho notato subito la sua timidezza e ne ho apprezzato la gentilezza con la quale mi ha domandato come doveva svolgere il lavoro.
Tutto questo mi ha permesso di sciogliermi e dopo pochi minuti, mi sono ritrovato a spiegargli tutti i piccoli segreti che il nostro lavoro ha.
Successivamente abbiamo cambiato argomento, passando alla nostra vita personale, con lui che mi ha raccontato della sua famiglia, del suo passato e delle sfide giornaliere che un padre in cerca lavoro deve combattere.

Mi sono lasciato andare anche io, raccontadogli un po’ di me e ho notato nei suoi occhi un forte interesse. La giornata lavorativa si è conclusa nel migliore dei modi. Ora lo aspettano altri quattro giorni di prova per completare la settimana e poi il capo deciderà se tenerlo o no. Sono qui a sperare che continui a fare bene anche nei prossimi giorni e possa rimanere con noi. Forse è un po’ troppo presto, non posso dire di conoscerlo, ma il suo comportamento e il modo di fare, mi hanno convinto che sia una persona per bene.

Prima, mentre mi facevo la doccia, immaginavo al suo ritorno a casa. Alle domande dei figli e della moglie. Chissà cosa staranno passando, chissà quanto potrà esere importante questo posto di lavoro.
Mentre ti scrivo, sto provando una sensazione di fierezza nei miei confronti, che non provavo da tempo.
Avrei potuto comportarmi come facciamo tutti di solito con un nuovo arrivato. Lasciarlo in disparte, fargli notare solo gli errori e rendendogli così la giornata un incubo. È andato via sorridendo e penso che un po’ del merito sia anche mio.
Lo so, lo so, non ho fatto niente di che. Ma è comunque una piccola cosa positiva.
Sono felice di aver cambiato il mio atteggiamento.
Mi sono sentito utile, ed è una sensazione bellissima.

Ora ti saluto che la stanchezza inizia a farsi sentire e il letto mi chiama.
Prometto che ti aggiornerò sul mio collega, magari già da domani.
Buonanotte caro Diario.

Gezim Qadraku.

Scrivo.

“Posso chiederti perché scrivi?”

“Scrivo perché è l’unico modo che ho trovato per farmi capire.
Sono sempre stata timida, sin da bambina. In classe non alzavo mai la mano per fare domande. Rimanevo sempre in silenzio, anche quando non capivo. Avere la testa piena di dubbi era un’opzione decisamente migliore, rispetto a quella di parlare mentre i miei compagni e la maestra avrebbero ascoltato quello che avevo da dire.
Non sono mai riuscita a stare al centro dell’attenzione. Solo l’idea di essere l’unica a parlare in mezzo a tante persone, mi ha sempre fatto provare un’enorme sensazione di timore.
Questa timidezza, poi, me la sono portata avanti per tutta la vita. Si presentava nelle situazioni di tutti i giorni, condizionando fortemente la mia esistenza.
Quando si stava tra amici in compagnia,  ero quella che non apriva mai la bocca, ma se poi c’era da isolarsi e confidarsi privatamente, non sapevo più fermarmi.
Per non parlare delle discoteche, sono state un trauma. Con che coraggio potevo buttarmi in mezzo alla pista e ballare?
Avevo la sensazione che tutti si sarebbero fermati a guardarmi.”

“Mi viene da pensare che la scrittura ti abbia in qualche modo salvato la vita.  Però forse esagero, vero?”

“No, non esageri per niente. Hai pienamente ragione.
Avrei dovuto capirlo subito che ero nata per scrivere.  Alle elementari impazzivo di gioia il giorno in cui era previsto il tema di italiano. Quello sì che era il mio momento. Mi sentivo bene e a mio agio, ero sempre rilassata, nessuna paura, nessun dubbio. Mi sembrava di volare e non ne volevo sapere di fermarmi.
La maestra mi ripetava costantemente la frase che avrebbe accompagnato la mia intera carriera scolastica:
‘Mi raccomando, non dilungarti troppo’.
Era più forte di me, avevo bisogno di scrivere, di mettere su un foglio tutto quello che non dicevo. E di cose da dire ne avevo parecchie, visto che non parlavo mai.
C’è un’azione che penso tutti sogniamo di fare, ma che la natura ci ha precluso: il volo. Crescendo ho capito che ogni essere umano trova il proprio modo per volare.
Chi corre, chi balla, chi canta e chi dipinge, o quelli che fanno del parlare in pubblico la propria salvezza, la propria sensazione di volo.
Io quando scrivo volo, ballo, corro a tutta velocità,  urlo a squarciagola.
Ho deciso di trascorre la mia vita scrivendo, perché è l’unica azione che mi permette di toccare con mano la felicità.
Ora nulla mi fa più paura, perché sono cosciente che qualsiasi cosa possa succedere, mi metterò sulla mia macchina da scrivere, inizierò a schiacciare i tasti, il loro rumore farà da colonna sonora e tutto si risolverà.
Scrivo e continuerò a farlo, perché mi sembra che sia l’unico modo per fare di questa vita, qualcosa che valga la pena di essere vissuta.”

Gezim Qadraku.

Ragazzi

Venerdì sera.
Il solito supermercato.
La spesa prima del weekend.
Si è fatta quasi ora di cena, il carrello ormai è pieno, mancano giusto le ultime cose.
C’è sempre meno gente e il silenzio incombe. Segnale che anche per gli addetti del mercato la giornata lavorativa si sta per concludere. 
Un gruppo di ragazzini ruomorosi attira la mia attenzione.
Sono giovani, giovanissimi. Non saprei dare loro un’età.
Due di loro saranno alti almeno 1 metro e 90.
Passano da un reparto all’altro urlando e scherzando ad alta voce. Il loro carrello è pieno di dolci, patatine,bevande gassate e alcoliche.
La classica spesa che precede la festa.
Sicuramente domani sera.
Li osservo, cercando di immaginarmi le loro vite.
Chi è il più bravo di loro a scuola? Chi pratica sport? Cosa faranno nel tempo libero?

Vederli riempire di vita questo posto, mi fa tornare in mente la mia prima spesa pre festa di capodanno. Eravamo giovani, ma volevamo soltanto crescere. Ci sentivamo grandi perché iniziavamo a mandare giù i primi bicchieri di alcool e a fumare le prime sigarette.
Facevamo i duri tra maschi, ma bastavano gli occhi della ragazza che ci faceva sognare, per farci diventare degli angioletti.
Per un attimo li perdo di vista e una domanda mi fa venire i brividi dietro alla schiena. Me li sono goduti quei momenti?
Ho vissuto a pieno quell’età?

Il supermercato è vuoto, tutto si è colorato di bianco, davanti a me appare solo quel quesito:
“Hai vissuto a pieno?”
Ho paura di rispondere, di pensarci, di fermarmi ad analizzare ogni momento per capire se ho qualche rimpianto o meno, se avrei dovuto vivere di più oppure ho dato tutto quello che avevo.
E se avessi qualche rimpianto?
La consapevolezza di non poter più tornare indietro mi fa mancare la terra sotto i piedi. Eppure mamma me lo diceva sempre: “goditi questi anni figlio mio”.
L’ho fatto?
Forse sì, forse no. Non avrò mai il coraggio di dare una risposta.

“Stai cercando qualcosa?”
La voce di mia madre mi riporta sulla terra. Ogni cosa riprende colore. Avevo lo sguardo fisso sullo scaffale degli yogurt.
Arriviamo alla cassa e loro stanno già pagando.
Mi fermo di nuovo a fissarli, mi piacciono proprio. Sono felici, sono giovani e vogliono soltanto divertirsi.
Ero felice anch’io quella volta che pagammo tutti insieme.
Ricordo le parole della cassiera dopo averci dato lo scontrino: “Divertitevi ragazzi!”

Uno di loro paga per tutti, hanno buttato a casaccio alimenti e bibite nel carrello, senza neanche una busta.
Escono via veloci, come se qualcuno li stesse rincorrendo.
Si sentono le loro voci anche ora che sono nel parcheggio.
Divertitevi ragazzi!

Gezim Qadraku.