“Che succede quando un uomo decide che quanto è troppo, è troppo?”
Martin Luther King, capo della Southern Christian Leadership Conference e attivista per i diritti civili, viene insignito del Nobel per la pace.
Corre l’anno 1964.
Il cammino che cambierà la storia degli Stati Uniti d’America è appena cominciato.
L’obiettivo è il riconoscimento del diritto di voto universale.
Un diritto già riconosciuto sulla carta, ma mai realmente concesso ai neri.
Tante, le difficoltà che intralciano la strada di King.
Un presidente, Lyndon Johnson, che ha problemi molto più importanti rispetto a questo diritto da concedere ai neri.
George Wallace, governatore razzista dello stato dell’Alabama, dove King decide che avrà luogo la marcia di protesta pacifica.
Una marcia che partirà da Selma e dovrà concludersi a Montgomery, secondo i piani di Martin Luther.
Coretta Scott King, sua moglie, che fatica a mantenere in equilibrio la vita della propria famiglia.
A causa delle continue minacce, che si presentano giorno dopo giorno.
E di questo impegno preso dal marito, che sembra così grande, così difficile e pericoloso.
La regia di Ava DuVernay ci mostra un film timido, titubante, timoroso di prendersi qualche responsabilità in più.
E’ chiaro che nel raccontare storie di questo genere, c’è il rischio di cadere in banalità o rievocare fatti visti e rivisti.
L’interpretazione di David Oyelowo è molto lontana dal solito eroe della patria.
Ci mostra un Martin Luther King, con poca personalità, poco carisma.
Un condottiero insicuro, dubbioso, titubante.
Notevoli le interpretazioni del governatore Wallace (Tim Roth) e del presidente Johnson (Tom Wilkinson).
Personaggi che partono dallo stesso punto di vista della situazione, per poi piano piano, tra intrecci diplomatici, accordi e variazioni di idee, allontanarsi completamente l’uno dall’altro.
Un film che poteva dare molto di più.
Di certo, dopo essere usciti dalla sala, non si può dire di aver capito a pieno, cosa voleva dire per un nero vivere in quell’epoca.
Incapace di trasmettere paura e tensione, che erano le costanti predominanti in quei giorni negli Stati Uniti d’America.
Striminzite e poco approfondite le rappresentazioni della violenza, del razzismo, dei soprusi subiti dai neri.
Condite con dialoghi lunghi e molto noiosi.
Lo spettatore è costretto ad aspettare la parte finale della pellicola, per provare un po’ di emozioni forti.
Immeritata la nomination all’Oscar, come miglior film.
Quella candidatura, l’avrei data a Interstellar.
Poteva essere un filmone,
ma non ha voluto esserlo.
Voto: 6,5.
Gezim Qadraku.