Dove ho visto il razzismo

Venerdì sera ho parlato al telefono con mia madre e lei a un certo punto ha iniziato a commentare quello che sta succedendo negli Stati Uniti.
Ha detto che è rimasta scioccata, che non è riuscita a guardare il video, che non pensava che gli USA fossero un paese del genere.
L’ho fermata subito e le ho detto di non commettere l’errore di pensare che solo là, dall’altra parte dell’oceano, il razzismo sia ancora un problema. Per farla arrivare dritta al punto ho voluto spiegarle come il razzismo sia presente anche tra la nostra gente, gli albanesi del Kosovo.

In primis contro noi stessi. Perché noi siamo tutti albanesi quando c’è la guerra, quando gli albanesi del Kosovo sono scappati in Albania e hanno trovato rifugio.
Siamo tutti albanesi quando la nazionale di calcio si qualifica all’Europeo.
Siamo tutti albanesi quando c’è da difendere le minoranze albanesi in Macedonia, Grecia, Montenegro o Serbia.
Siamo tutti albanesi quando un/a cantante di nazionalità albanese diventa famoso/a, c’è da andarne orgogliosi e cerchiamo di farlo notare in tutti i modi possibili che sia albanese. “Perché abbiamo anche cose buone.”

Eppure sin da piccolo ho sentito famigliari e amici distinguere la nostra gente in base a dove abitassero in Kosovo. Questo esercizio trovava il suo apice nei matrimoni.
Il primo commento verso la sposa riguardava la sua provenienza.
È cresciuta in una città? Se sì, quale e dove? Nord, Sud, Ovest o Est.
Oppure arriva da un villagio? Mmm, ancora peggio. Molte volte detto da persone che a loro volta erano cresciute e ancora vivevano in un villaggio. Giusto per fare il primo esempio che mi è venuto in mente.
Un fattore in questo contesto era la distanza che separava la città o il villaggio con quello della sposa. Vicini? Ok. Lontani? No, perché allora lei e la sua famiglia sono “diversi”.
Ma come, mica siamo tutti albanesi?
Ecco, siamo albanesi quando ci fa comodo, poi quando il figlio si sposa è bene che la moglie abiti nelle vicinanze. In tutto questo provate a immaginare cosa può pensare l’albanese medio di tutti coloro che non sono albanesi. Ecco, buona fortuna.
Per non parlare di cosa potranno dire di me che critico la mia gente. Va beh, questa è un’altra storia.

Questo discorso sul razzismo della nostra ha avuto un effetto su mia madre. È rimasta in silenzio per un po’. Presumo non avesse mai pensato a questa cosa.

Ora continuo con voi. Ho visto il razzismo in Kosovo, ma l’ho visto anche in Italia, dove ho vissuto per vent’anni.
In Italia è stato a tratti comico, perché ho scoperto come le credenze sulle quali un razzista costruisce i suoi ideali possano essere smontate con una facilità irrisoria e non abbiamo alcuna coerenza.
Vi spiego. Ho avuto amici che col passare degli anni ho scoperto essere razzisti. Nel momento in cui l’ho scoperto ho chiesto a loro perché con me non lo fossero stati, perché non mi avessero mai insultato, perché non mi avessero mai chiesto di tornare al mio paese. Nel loro caso non si trattava di un razzismo soltanto contro persone dal colore della pelle differente, era un razzismo (lo è ancora) contro qualsiasi straniero vivesse in Italia. Insomma, i famosi immigrati che porterebbero via il lavoro ai figli di papà.
Dopo aver fatto notare a questi miei amici che io facevo parte di quel gruppo di persone che loro avevano e tutt’ora insultano, la risposta ricevuta ogni volta è stata la medesima.

 

“No ma tu sei diverso.”

 

No, non sono e non ero diverso. Mi è andata bene perché non ho mai avuto l’accento da straniero o da albanese. Non calcavo la elle o la erre. Se mi sentite parlare e non mi conoscete penserete che io sia di Milano.
Mi è andata bene perché giocavo a calcio ed ero bravo, quindi ero utile alla società.
Mi è andata bene perché mi vestito più o meno come i miei amici. Se c’era da avere le Adidas avevo le Adidas, se c’era da avere le Nike avevo le Nike. Insomma, ero parte del gruppo ed era impossibile capire che non fossi italiano. Sembravo uno di loro, ma non lo ero.
Quindi non meritavo gli insulti razzisti solo perché il mio accento e i miei vestiti erano conformi a quelli del gruppo dei miei amici italiani?

A quanto pare è proprio così. Il mio caso trova conferma nella storia di questo ragazzo di colore, che dopo essere stato malmenato da ragazzi bianchi perché nero, fa di tutto per diventare bianco e viene accettato dal gruppo che lo aveva malmenato.
Lui si integra, loro però continuano ad avere un atteggiamento razzista contro i neri, ma non contro di lui, perché lui nel frattempo – secondo loro – è diventato diverso da quelli neri. Per diverso si intende che veste come i suoi amici bianchi, ascolta la loro musica e parla come loro, ma è pur sempre nero. Quindi il fattore che ha fatto sì che loro lo menassero è ancora presente, ma ora loro lo considerano diverso, lo considerano come uno del gruppo. È un cortocircuito e mostra la stupidità di questo fenomeno.

Ecco il link del documentario:

https://www.internazionale.it/video/2019/02/20/black-sheep-razzismo-oscar

Questo per dire che non dobbiamo commettere l’errore di puntare il dito contro gli Stati Uniti e pensare che sia un problema esclusivamente loro. No, il razzismo c’è ovunque. Leggendo e studiando ho scoperto di odi tra etnie, popoli, Stati, regioni e religioni che non mi sarei mai immaginato. Perché non è solo una questione di bianco e nero. È un fenomeno che si attacca alla minima differenza fisica, culturale o religiosa e finisce per diventare violenza. Perché si inizia ammanettando una persona per aver commesso un reato, poi dato che è nero si finisce per ucciderlo. È un attimo.

Ho visto ebrei razzisti contro i musulmani. Ho letto di europei razzisti contro gli asiatici. Ho letto di neri razzisti contro i bianchi. Ho visto albanesi razzisti contro gli albanesi. Ho visto italiani del nord essere razzisti contro gli italiani del sud.

Quindi pare che siamo tutti razzisti. Scomodo, vero?

Ero razzista anch’io, avevo dei preconcetti pure io da piccolo. Non sono cresciuto in un ambiente dove la cultura, lo studio e la ricerca stavano al primo posto, anzi. Se non avessi avuto il privilegio di studiare sarei ancora razzista. Sì, proprio io che sono cresciuto in un paese straniero.

Ho letto, ho studiato, mi sono interessato a culture e popoli diversi. Questo mi ha permesso di conoscere l’altro, per quanto sia possibile farlo senza visitare un posto, ma è comunque un buon primo passo leggere degli altri, delle usanze, delle credenze di un altro popolo.
Ciò che mi ha aiutato più di tutto è il fatto di conoscere almeno una persona di ogni continente. Questa è stata la scintilla, parlare con persone di ogni parte del mondo e rendermi conto che non ci sia nessuna differenza tra noi, che tutti quei pregiudizi e quelle convinzioni ci sono state inculcate da fattori come l’educazione in famiglia, la preferenza politica di nostro padre, le amicizie, il periodo storico nel quale stiamo vivendo, ecc…

Quindi, il razzismo c’è ovunque.
Si risolverà? Io non credo. Purtroppo sono realista e non mi piace sognare troppo, soprattutto se si parla di un problema come questo radicato nell’essere umano da tanto, troppo tempo.

Se c’è qualcosa che mi sento di consigliarvi è di dare un peso minore alle foto che postate su Instagram e a concentrarvi di più sulla vita reale. Pubblicare una foto con lo sfondo nero non vi dà nulla. È un esercizio troppo facile che non cambia la vostra mentalità. Dopo i primi like che ricevete vi sentite appagati e non colpevoli, vi siete già dimenticati della storia. Trascorrere una serata a parlare con una persona di un altro continente può cambiarvi la vita. Ok, magari la vita no, ma di sicuro modificherà radicalmente l’idea che avete delle persone che ritenete diverse da voi.

Vi auguro di poter avere, come me, almeno un amico per ogni continente.

Gezim Qadraku