Li osservavo, mentre indaffarati si precipitavano giornalmente su ciò che aveva attirato la loro attenzione.
O meglio, su ciò che pareva essere diventato l’unico motivo per il quale vivere.
La condivisione della propria quotidianità con il mondo della rete.
Si affannavano a scattarsi fotografie e a mostrarsi felici e completi. Il picco di questo impegno lo si notava durante le feste.
Immagini di famiglie sedute a tavola, di gite fuori porta o di radunate tra amici per passare quella festività insieme.
Una valanga di scatti, foto e video. Ogni creazione accompagnata da una frase banale e ripetitiva che la si ritrovava nel profilo di qualcun altro.
Il processo era sempre il medesimo: posizionati, sorridi, scatta e controlla. Riposizionati, sorridi di nuovo, scatta e ricontrolla. Così fino a quando il risultato catturato dalla fotocamera era abbastanza finto da sembrare perfetto. Per raggiungere il livello estetico più alto i social network mettevano a disposizione programmi per modificare le foto. Una volta raggiunto l’apice della bellezza, l’ultima e la più importante delle azioni: pubblica.
Pubblica la tua foto finta che utilizzi per far sembrare la tua vita felice.
Pubblica e condividi tutto ciò che fai con persone che fingono di interessarsi a te.
Scatta, modifica, pubblica.
Fallo di nuovo.
Poi di nuovo ancora.
Continua così fino all’infinito.
Li osservavo e ridevo.
Mi lasciava senza parole l’impegno che impiegavano nel scattarsi una foto e la cura maniacale nel ritoccarla.
Ogni tanto giocavo a prenderli in giro. Commentavo qualche contenuto, facevo un paio di complimenti e nelle risposte vedevo questa esplosione di felicità. Ci credevano davvero alle mie parole.
Quando mi divertivo. Erano così tristi e frustrati, ma non se ne sarebbero mai accorti.
Avrei voluto essere come loro, riuscire a impegnarmi in quella maniera in azioni tanto futili.
Gezim Qadraku