Permesso di soggiorno

Questo è uno di quei momenti della mia vita di cui ricordo ogni particolare. Le sensazioni, gli odori, i vestiti che indossavo, la musica che ascoltavo e ciò che mi frullava per la testa. Esattamente come per il mio approccio alla scuola elementare, quando a cinque anni dovetti affrontare lo shock di essere l’unico bambino in classe a non avere l’astuccio.

Sono seduto sul pavimento della questura di Milano di via Fatebenefratelli che aspetto il mio turno. No, non ho commesso nessun reato. Me ne andrò da questo paese tra qualche anno con la fedina penale completamente pulita. Non mi trovo qui perchè mi ci hanno portato i Carabinieri, ci sono venuto di mia spontanea volontà. Il mio permesso di soggiorno scade a breve e devo rinnovarlo. Devo rinnovarlo per poter risiedere in Italia, per poter studiare, per poter continuare a giocare a calcio, per poter vivere e fare le stesse cose che fanno i miei amici.

Sono seduto, stanco, esausto, mentalmente sfinito. Mi sono svegliato alle 5 questa mattina e alle 6 ero qua fuori. La coda era già bella lunga e dopo un’ora ero avanzato solo di uno o due metri. Sapendo cosa mi aspettava, ho deciso di commettere qualcosa di inaccettabile, qualcosa di cui ora mi dovrei vergognare, ma non provo nessun rimorso a essere sincero. Ho superato la coda, mi sono fatto scudo del mio aspetto di ragazzo dalla pelle bianca, dei miei pantaloni blu ai quali ho abbinato una camicia azzurra e del faccino innocente per sembrare un italiano. A guardarmi, chiunque avrà pensato che dovevo essere un qualsiasi studente italiano. Ho afferrato in fretta e senza farmi notare il bigliettino con il numero 181 e mi sono intrufolato dentro. Erano le 7 e qualche minuto, ho pensato che dopo pranzo sarei uscito da qua. Ero troppo ottimista. 

Sono le 16:30 e ho appena scritto alla ragazza con la quale mi sto sentendo che sono ancora qua, che il nostro appuntamento deve essere rimandato a domani. Sto ancora aspettando il mio turno e dal momento in cui sono entrato non sto facendo altro che scrutare le persone che mi stanno attorno. C’è puzza, puzza di sudore, di cibi, di sfinitezza. C’è puzza di qualsiasi cosa. Ci sono bambini che piangono, altri che giocano per ingannare il tempo, mamme che allattano, altre che cercano di far addormentare i propri bambini. Padri che perdono la pazienza e altri che non danno alcun cenno di nervosismo. C’è tutto il mondo in questo ufficio immigrazione. America latina, Africa, Europa dell’est, Medio Oriente e Asia. Ci siamo tutti, non manca davvero nessuno.

Sullo schermo è apparso il numero 150, si avvicina il mio turno. Una trentina di numeri e sarà finito questo inferno. Non mi resta altro da fare che pensare a tutto il tempo che ho trascorso qua dentro sin da quando sono in Italia. È la prima volta che ci vengo da solo, è la prima volta da maggiorenne. Prima era un inferno che condividevo con i miei genitori. Andare in questura significava perdere un giorno di scuola. Significava andare a Milano e quindi prendere il treno e la metro. Erano tutte cose che mi piacevano e mi sento un idiota, se ripenso a quanto venire in questura a rinnovare il permesso di soggiorno fosse un giorno bello per me.

Mi è sempre piaciuta Milano. I treni, la metro, la folla di gente, i negozi, il tipo di vita che si respira qui. Ho sempre desiderato viverci. Non lo so ancora in quel momento, ma dopo qualche anno avrò la possibilità di studiare a Milano e finalmente mi toglierò tutto quel desiderio di godermi questa città in ogni angolo.

C’è una famiglia che attira la mia attenzione. Devono essere indiani o pakistani. La famiglia è composta da cinque membri: padre, madre e tre bambine. La figura paterna ha appena ricevuto quello che penso sia il rinnovo del permesso di soggiorno per sé e tutti gli altri. Accenna una corsetta liberatrice verso le sue donne. Le loro facce, i sorrisi e gli abbracci che si danno sono la miglior rappresentazione della felicità che potrei dare in questo momento, se qualcuno me lo chiedesse.

Li guardo e invece di empatizzare la loro gioia ed essere felice, provo una forte compassione. Mi fanno pena, come mi fa pena me stesso. Vorrei alzarmi, raggiungerli e dire a loro di andarsene. Di lasciare questo paese e tornare a vivere nel loro. Io sono così stanco di tutto questo che ci tornerei nel mio, anche subito. A piedi, se fosse necessario. È stata una vita trascorsa così: a rinnovare il permesso di soggiorno. In base alle leggi che i governi si divertono a cambiare ogni volta, la giostra cambia giro. A volte i rinnovi durano più a lungo, altre volte di meno. Dicono che dopo determinati anni hai diritto alla cittadinanza, ma c’è gente che la aspetta da così tanto che si è dimenticata della data di quando l’ha richiesta.

Nessuno ti ha obbligato a venire, potrebbe giustamente dire qualcuno. Mi verrebbe da dare ragione a un’affermazione feroce del genere in questo momento. Tornerei indietro e farei di tutto per fermare mio padre. Gli direi di restare, di non convincere mia madre a seguirlo. Proverei a convincerli a stare in un posto dove anche se vuoi lavorare il lavoro non c’è. In un posto dove arriverà la guerra e chissà se sarai fortunato o no da sopravvivere. Perché dopo aver ascoltato i racconti di guerra penso che sia tutta questione di fortuna. Ma queste attese, questa burocrazia, questo continuo riflettore che ti ricorda che non sei come quelli del posto mi ha stancato. E ora, mentre allungo le gambe e cerco di rilassare i muscoli, quasi me ne fotto di tutte le cose che un paese sviluppato ti mette a disposizione. Vorrei chiudere gli occhi e catapultarmi là dove sono nato.

Come se non bastasse, cresci in un ambiente dove costantemente ti senti ripetere che siamo tutti uguali, che siamo tutti sulla stessa barca. Cazzate. Io per poter andare a scuola, per giocare al parco con i miei amici e potermi registrare alla squadra di calcio del mio paese avevo bisogno di un permesso di soggiorno. No, non siamo tutti uguali. Non lo saremo mai. È la triste e cruda verità. Ma va bene così.
Mentre seguo con gli occhi quella famiglia uscire dalla questura mi dico che non voglio neanche essere uguale agli altri. Che non me ne frega più niente in realtà. Perché arrivi a un certo punto che tutto questo ti toglie la forza e lo accetti passivamente. Vieni qui, ti metti in fila e aspetti il tuo numero. Ricevi il tuo permesso rinnovato e te ne torni a casa.

È passata un’ora e finalmente è il mio turno. Il ragazzo allo sportello avrà qualche anno in più di me. Gli do tutto quello che mi chiede e dopo una decina di minuti mi fa firmare un foglio sul quale c’è una tessera di colore arancione. Il mio nuovo permesso di soggiorno. È valido dal 2009 fino al 2014. Siamo nel 2010, un anno è già trascorso.
Cinque anni, mai avuto un permesso di soggiorno così lungo. Prima di andarmene mi ricorda che il prossimo sarà indeterminato. Si aspetta che la notizia mi faccia piacere, che io sorrida e reagisca in chissà quale maniera. Lo ringrazio e me ne vado.
“Non me ne frega un cazzo”, gli vorrei dire. Ma non è colpa sua, lui non c’entra niente. Non è colpa di nessuno in realtà, vorrei poter trovare un colpevole a tutto questo. A chi fa sì che certi popoli debbano lasciare i propri luoghi e passare una vita in posti come le questure a rinnovare permessi di soggiorno. 

Non posso fare altro che uscire da questo posto. Ci sono entrato dieci ore fa. Era buio, lo è di nuovo. Scrivo a mamma che ho finito, che mi fermo a mangiare qualcosa perché sono distrutto. C’è un McDonald’s a pochi passi dalla questura e mi ci catapulto dentro. Ordino un menù grande e cerco di godermelo con tutta la calma del mondo. Dopo un paio di patatine e il primo sorso di Coca Cola sento il cellulare vibrare. È il mio migliore amico.

“Calcetto tra un’oretta?”
“Non ce la faccio, sono a Milano”
“Che ci fai a Milano a quest’ora?”
“Ero in questura. Ho appena finito.”
“In questura? Che cazzo hai combinato?”
“Niente tranquillo. Dovevo rinnovare il permesso di soggiorno.”

Do il primo morso all’hamburger e sorrido. I miei amici italiani conoscono la questura come il posto dove vieni portato se hai commesso qualche reato. Non lo sanno che c’è un ufficio immigrazione, una sala dove gli stranieri trascorrono la propria vita a rinnovare il permesso di soggiorno. L’hamburger è buono, do un altro morso più grande. Penso che tra quattro anni sarò ancora qui, un’altra volta.
Sarà l’ultima, ma non lo so ancora.

Gezim Qadraku

 

L’immagine in evidenza è stata scattata da Claudio Furlan.

 

Pezzi di puzzle

È un venerdì di metà dicembre e le temperature sono più alte del previsto. Dovrebbe fare molto più freddo in questo periodo dell’anno. Io vorrei tanto vedere un po’ di neve e invece niente, solo una nebbia inutile e fastidiosa. C’è qualcosa che non va, ma sembra che nessuno se ne preoccupi, tanto meno io in realtà.
Ci sto pensando solo perché mi sono appena tolto la felpa e sotto ho una di quelle magliette estive leggerissime. Mi vestirei così a settembre, normalmente, non a dicembre. Sono un tipo freddoloso, al minimo abbassamento delle temperature corro subito a coprirmi. Invece eccomi qui, con un classico abbigliamento autunnale e ora rimango addirittura in maglietta a maniche corte.

Mi sono alzato tardi oggi, ho trascorso la giornata a fare ricerca per la presentazione del corso di relazioni internazionali. È tra una settimana e non ho la più pallida idea di come organizzarla. Il tema sono i rapporti tra Stati Uniti e Cina, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla guerra dei dazi. Ne parlano tutti così incessantemente che ho la sensazione di ripetere cose già fritte e rifritte.

È stato il professore ad assegnarci i temi, altrimenti avrei optato per altro, qualcosa di cui nessuno è interessato. Sono rimasto davanti al pc per non più di due ore, giusto il tempo di trovare un paio di pubblicazioni abbastanza affidabili sulle quali basare il mio lavoro.
Per pranzo ho preparato una pasta al pesto, accompagnata da una bistecca senza contorno, buttata su un piatto troppo grande, sul quale sembrava ancora più piccola di quello che era.
Poi ho preparato il caffè e mangiato un Ferrero rocher. Non mangio mai dolci, cerco di lasciare il cibo poco salutare per il weekend, ma mentre mi scottavo le labbra assaggiando il caffè, mi sono accorto che il pranzo non era stato abbastanza. Avevo ancora fame e l’unico modo per riempire il buco, in questi casi, è divorare qualcosa di dolce.

Ho lavato le stoviglie e poi le ho asciugate, il tutto mentre Spotify riproduceva musica tranquilla, come dal nome della playlist. Ho portato fuori la spazzatura e perso un po’ di tempo su YouTube, prima che arrivasse il momento di prepararmi per andare in Università. Mi sono messo il primo paio di jeans che ho trovato,  una maglietta nera che ho abbinato alla felpa verde scuro. Si è ristretta un po’ dopo vari lavaggi e ora mi calza a pennello, le maniche arrivano giuste ai polsi e sento che sto incominciando a riempirla all’altezza delle spalle. Non avevo molta voglia di venire a lezione oggi, sarà per il fatto che è nel tardo pomeriggio. Inizia alle 16 e finisce alle 17:30. Quel periodo della giornata che in università trascorreresti molto più volentieri a berti un caffè con un amico, parlando di discorsi futili, lamentandoti della mole di studio, per poi passare a commentare l’ultimo episodio della serie del momento di Netflix. Il tutto accompagnato dal senso di colpa che ti travolge in questi casi, mentre ti accorgi che stai buttando il tuo tempo e la sensazione è che tu stia facendo lo stesso con la tua vita.

Invece sono qui che mi levo la felpa per il caldo, mentre faccio finta di seguire la presentazione di quattro compagni. Stanno parlando della storia dell’Iran e non mi sembra che abbiano colto in pieno il significato di quegli eventi. Li ascolto solo di sfuggita, so già tutto e lo so piuttosto bene. Ma non è merito mio, sono solo stato fortunato ad avere un padre che per lavoro doveva muoversi da un continente all’altro e io e mia madre non avevamo altra scelta che seguirlo. Teheran è una di quelle città che non dimenticherò mai. Ho finito per tornarci una volta, per i fatti miei, senza mamma e papà. Penso siano gli occhi di quel popolo a essermi rimasti impressi, come se mi avessero rapito, in un certo senso. L’unica città nella quale ho provato il desiderio di rimanere, come se mi fossi sentito a casa, nonostante io non abbia idea di cosa significhi sentirsi a casa.

Guardo le slide dove appaiono le facce di Mossadeq, dello Shah e di Khomeini. Poi muovo lo sguardo verso di lei, la ragazza mora con gli occhi verdi che ha appena finito di esporre la sua parte. Si è spostata verso sinistra, di fianco alla cattedra, per lasciare la scena al suo compagno. Un ragazzo minuto con una voce così dolce e insicura che se non fosse per una barba non curata e senza senso, non gli si potrebbe dare neanche la maggiore età. Continuo a fissarla, quasi impotente e fregandomene che lei o qualcun altro se ne possa accorgere. Cerca gli occhi del suo ragazzo, seduto un paio di sedie davanti a me, e li trova. Lui le fa un cenno con la testa, non riesco a vedere il suo volto, solo la sua nuca che si muove in avanti e indietro lentamente, in maniera quasi impercettibile. Emana sicurezza quel movimento, ma anche il suo modo di fare e pure il suo abbigliamento. Ha addosso la felpa dell’università e un paio di pantaloni di colore oliva semi eleganti. Non è di certo l’abbinamento che avrei fatto io, ma su di lui sta bene. Quella felpa su di me starebbe bene solo in casa, per dormire. Forse. 

Si cercano e si trovano in maniera così facile e naturale che viene da commuoversi osservandoli. Lei sorride e si copre le mani allungando le maniglie del maglioncino color crema che le sta divinamente. È quasi imbarazzata, impaurita che qualcuno si stia accorgendo delle loro effusioni in lontananza. Fatica a nascondere la felicità per aver esposto bene, in maniera chiara e sicura, senza mai permettere all’ansia che le si era dipinta in volto di avere la meglio. È soddisfatta, leggo nella sua espressione una certa fierezza.
Il corso è iniziato da due mesi e con lei ho avuto solo un brevissimo scambio di battute. Non sono riuscito ad andare oltre. Quando mi ha rivolto la parola mi è sembrato di perdere tutte le difese immunitarie. È incredibile in che condizione riesca a metterti una persona che ti interessa, quanto potere siamo in grado di darle. Le ho risposto, non ricordo come e poi sono rimasto in silenzio, impaurito e preoccupato.
Li guardo e provo un misto di invidia e gioia. Li invidio perché sono entrambi del posto, ho scoperto che hanno studiato assieme e sono nati qui. Ci faccio sempre caso a questi dettagli, non per un motivo in particolare, ma per il semplice fatto che quando cresci come sono cresciuto io, sballottato da un paese all’altro, finisci per non vedere nessuno che ti assomiglia.

Chi c’è, là fuori, che è cresciuto come me?
Che non ha mai vissuto nello stesso paese per più di tre anni di fila?
Che ha frequentato più di dieci scuole diverse?
Nessuno, vero?

Continuo nell’esercizio di guardarli, fissarli, provare a entrare nelle loro teste, nelle loro vite. Mi piacerebbe essere così, essere nato in un posto ed esserci cresciuto. Avere un forte senso di appartenenza verso un paese o una città. Insomma, avere delle radici. Che poi ce le ho anch’io le mie radici, ma parlano lingue diverse e si muovono per tutti i continenti. Da Gerusalemme a Teheran, per poi andare a Tokyo, fare una sterzata a Mosca e saltare a New York. Poi l’Europa, prima Roma, poi Madrid e ora Berlino. Andando in giro per il mondo l’inglese è stata la lingua che ho imparato per prima e ho sempre frequentato le scuole in inglese, anche se a mamma piaceva molto farmi seguire dei corsi intensivi sulla lingua del posto. So un po’ di persiano, arabo, spagnolo e italiano, mentre con il giapponese sono proprio bravo. Con quei suoni e quei caratteri è stato amore a prima vista. Con il russo odio totale.


Ricordo che quando eravamo in Asia, il periodo dai 10 ai 15 anni, chiedevo a mamma perché tutti mi fissassero e perché non c’era nessuno chi mi assomigliasse esteticamente. Mi facevano un po’ ridere gli occhi a mandorla dei bambini giapponesi e cinesi. Un giorno le chiesi che cosa ci facevamo lì, perché dovevamo stare in un posto così strano. Mamma non utilizzò, come sempre faceva, la scusa del lavoro di papà.
Quella volta mi raccontò di un giornalista italiano che si chiamava Tiziano Terzani, il quale aveva trascorso gran parte della sua vita in Asia. Aveva raccontato le guerre che si erano svolte in quel periodo storico e si era portato sempre la famiglia con sè. Mi raccontò che i suoi figli avevano frequentato la scuola in cinese ed erano in grado di parlare perfettamente la lingua. Fu come ascoltare una favola e in quel momento pensai di aver trovato una sorta di supereroe, qualcuno da imitare o comunque qualcuno da considerare come noi, persone strane senza casa che abitano ovunque nel mondo.

Anche papà col passare del tempo si è accorto di questo mio malumore, questo mio problema d’identità. Sono sicuro che erano a conoscenza del rischio che avrebbe rappresentato crescere un figlio sapendo che avrebbero trascorso la loro vita girando il mondo. Ma non erano due sprovveduti, avevano entrambi le basi per gestire una situazione del genere.
Quando era lui a parlarmi della mia situazione, diceva che la mia esistenza così diversa e particolare, mi avrebbe portato a diventare qualcosa di unico, qualcosa che tutti avrebbero invidiato. Guardavamo le partite di NBA insieme e mi faceva sempre l’esempio di Kobe Bryant. Mi diceva che il fatto di essere cresciuto in Italia e aver imparato a giocare in un paese dove si insegnava quello sport dando tantissimo valore ai principi tecnici, gli aveva permesso di diventare ciò che era.
Concludeva sempre alla stessa maniera, papà: “immagina se fosse cresciuto negli states, sarebbe stato un altro giocatore straordinario come gli altri“.
Papà, ma allora Micheal Jordan?“, ribattevo io, quando ne avevo voglia.
E lui, puntuale e ripetitivo, mai domo, rispondeva sempre: “Jordan, Alì, Maradona e Federer non sono esseri umani. Loro fanno parte di un’altra categoria. Non commettere l’errore di paragonarli agli altri“.
Era un appassionato bulimico di qualsiasi sport, guardava gli eventi con una passione vorace. Il gesto tecnico, misto alla tensione emotiva e fisica, lo trasportava su un’altra dimensione. Perdeva qualsiasi pudore e contegno. A volte era più bello ammirare da vicino le sue reazioni a un canestro o a un rovescio, piuttosto che l’atto stesso eseguito dall’atleta, per quanto poteva essere stato magnifico.

Era lo sport che gli aveva fatto incontrare mamma. A Parigi, durante il Roland-Garros. Lei faceva la giornalista, lui invece era a caccia di clienti ed emozioni dal vivo. Trovò l’emozione più grande della sua vita, trovò l’amore.
“Tua madre mi ha reso umano“, diceva sempre quando parlava del loro incontro.
Amava gli articoli di mamma. Penso che lei l’abbia conquistato prima con le sue parole che con l’aspetto fisico.
Tua madre ti racconta una partita che hai visto e ti fa credere di esserti perso ogni secondo. Lei vede di più, vede meglio, va a fondo in ogni cosa. Da una partita di tennis è in grado di tirare fuori un compendio sulla vita e su come affrontare gli ostacoli.

Mamma invece seguiva solo il tennis. Con quello sport era un rapporto di amore e odio. Come con un qualcosa che ti fa del male, che ti tira via gran parte dell’ossigeno di cui hai bisogno per vivere, ma senza di esso sei a conoscenza di non poter andare avanti.
È uno sport individuale“, diceva, sottolineando ancora di più il fatto di non prendere in considerazione tutti gli altri sport individuali, i quali riteneva di relativa importanza.
Sei solo, nudo e hai tutti gli occhi puntati addosso, con il tuo avversario che vede dove colpire per ucciderti. Devi essere forte, non hai altre possibilità.
Iniziai ad amare anch’io i suoi pezzi. Ci trovavo tutto quello che avrebbe voluto dirmi da figura materna, ma che non riusciva o non voleva. Mi sembrava quasi imbarazzata, a tratti. Lo era diventata sempre di più mentre crescevo, come se le parole fossero diventate inutili nel nostro rapporto, bastavano gli sguardi.
Non le ho mai chiesto di mandarmi i suoi pezzi, andavo a cercarmeli mentre si svolgevano i grandi tornei. Diceva che se avessi voluto fare l’artista, qualsiasi fossero state le mie opere, non avrei mai dovuto inviarle a qualcuno e chiederne il parere.
La gente ti dice che sai fare qualcosa per compassione, se glielo chiedi. Non è un giudizio attendibile. Lascia che siano loro a trovare le tue opere. Solo di quei commenti ti potrai fidare.

Il frastuono rumoroso di un fulmine improvviso mi riporta alla realtà. Sono a Berlino, e in una grigia giornata di dicembre, mentre quattro compagni parlano di Iran e medio oriente, guardo una coppia di ragazzi tedeschi e mi sembra di vedere due pezzi di puzzle che si incastrano. La sensazione di piacere che mi danno mentre si amano, lascia il posto a un sentimento misto tra timore e scoraggiamento. Vorrei essere come loro, vorrei essere come quel ragazzo, essere in grado di conquistare e amare una ragazza del genere.
Il mio sguardo scende in basso verso le mie scarpe e mi accorgo che ho una scarpa slacciata. Quella stringa che tocca per terra mi fa sentire così sbagliato e fuori posto. Non ha senso, lo so. Come non ha senso giudicare una relazione amorosa in base alla nazionalità dei due protagonisti, ma non lo faccio apposta, è più forte di me.
Sono tanti i fattori che ti condizionano nella tua crescita. I genitori, gli amici, le persone che incontri, chi ti ama, chi ti ferisce, e ciò che per te è normalità. Per me normale è stato crescere e sentirmi la pecora nera del posto.
Ripenso a tutti quei viaggi con mamma e papà, a tutte le persone che ho avuto la fortuna di incontrare in questo arco di tempo che è stata la mia esistenza e mi accorgo di come tutti, in qualche modo, fossero dei pezzi di puzzle che si trovavano nel posto giusto ed era solo questione di tempo affinché incontrassero la parte nella quale incastrarsi. Noi invece ci distinguivamo sempre per qualcosa, che fosse il colore della pelle o la lingua. Mi ci sono abituato, in qualche modo, a non avere nulla a che fare con chi mi circonda. Però a volte sono stanco, molto stanco. Come oggi per esempio.

Mi tocco l’orologio, ci passo il pollice sopra come per pulirlo, ma in realtà non faccio altro che inumidirlo. Mi lascio letteralmente andare sullo schienale della sedia, infilo le mani nelle tasche della felpa e continuo ad ascoltare i miei compagni. Sono già arrivati all’accordo nucleare siglato dall’amministrazione Obama, hanno finito. Eravamo solo a Khomeini, mi dico, mentre cerco di capire quanto tempo ho trascorso vagabondando senza meta nei miei pensieri.
Si fermano, hanno terminato. Il silenzio copre l’aula ed è la voce profonda del professore a risvegliarci dai nostri pensieri. Si congratula con il gruppo, aggiunge un paio di considerazioni sull’accordo nucleare e sugli avvenimenti odierni.
Poi ci racconta una curiosità, chiede a tutti gli studenti internazionali se sanno come si dice “scacchi” in tedesco. Nessuno risponde.
Poi lui, con un sorriso inebriato, ci dice: “Shach”. E tutti noi capiamo il riferimento che vuole fare con l’Iran e la figura dello Shah.
Riprende in fretta le vesti di professore accademico e chiede se qualcuno di noi ha domande. Nessuno ha niente da chiedere. Il professore mette la parola fine alla lezione, ci augura un buon weekend e il rumore delle sedie che si muovono copre la stanza.

Butto il quaderno in cartella, indosso il giubbotto con un movimento veloce e sistemo le cuffie altrettanto in fretta. Esco senza cercare lo sguardo di nessuno, non ho alcuna voglia di parlare in questo momento. Dopo un paio di passi rapidi nel corridoio principale dell’università, rallento l’andatura e continuo a pensare a quei due. Quei due pezzi di puzzle così belli e naturali. Mi verrebbe voglia d’andare e abbracciarli, dire a loro di mettere su famiglia e fare un sacco di figli. Un sorriso forzato accompagna questo pensiero, mentre mi accorgo che ho le cuffie infilate nelle orecchie, ma non ho voglia di ascoltare nessuna canzone.

Arrivo all’uscita e il primo impatto con l’ambiente esterno è più freddo del previsto. Abbasso la testa e nascondo la bocca sotto il bavero del giubbotto. Tremo un paio di secondi, prima che il corpo si abitui alla temperatura esterna. È già buio e penso che non prenderò la metro per tornare a casa. Ho voglia di camminare e continuare a pensare. Passo davanti a un negozio di alimentari africano così colorato che mi viene da chiedermi come sia possibile che esistano alimenti dai colori così intensi e vivaci.
La vetrata mi permette di guardarmi. Mi fermo per un paio di secondi, facendo finta di dare un’occhiata all’interno, in realtà cerco solo i miei occhi e osservo il riflesso della mia immagine. Mi accorgo che è da un po’ di tempo che non mi guardavo allo specchio. Ciò che vedo continua a non convincermi del tutto, mi sembra di essere diventato il pezzo di un puzzle che non ha alcuna caratteristica per incastrarsi da un’altra parte. C’è un contrasto enorme tra i colori degli alimenti e il grigio opaco che vedo su di me. Questo fatto mi urta, mi colpisce all’interno e per un attimo non vedo più niente riflesso sul vetro.

Sento tutto il mio peso scivolare verso le gambe. Non ho più alcuna forza in corpo, soltanto rassegnazione. Vorrei essere arrabbiato, vorrei piangere, ma non ne ho neanche la forza per farlo. Smetto di guardarmi e continuo a camminare, con la vista che si annebbia sempre di più. Dovrei fermarmi, dovrei bere un bicchiere d’acqua e sedermi, ho la sensazione di poter cadere da un momento all’altro, ma continuo imperterrito. Sento un paio di gocce di pioggia bagnarmi i capelli. Diventano sempre più fitte col passare dei secondi. Ho l’ombrello in cartella, ma non lo prendo. Mi lascio bagnare dall’acqua con un atteggiamento passivo e disinteressato alla vita. Voglio tornare a casa fradicio, farmi una doccia bollente infinita, andare a dormire e stare a letto per tutto il weekend.
Arrivo a un semaforo, è rosso, mi fermo. Dall’altra parte della strada scorgo una ragazza, il suo cappellino di lana di un arancione troppo acceso mi colpisce. Sembra carina, ma non riesco a captare i suoi lineamenti. In un batter d’occhio arriva un sacco di gente, sia dalla mia parte che dalla sua. Mi sembra che il suo corpo minuto sparisca in mezzo agli altri, riesco a fatica a scorgere il suo cappellino ora. Scatta il verde e attraversiamo la strada. Riesco nel miracolo di non vederla e lei di sparire tra folla. Forse non sono concentrato abbastanza.

Arrivo dall’altra parte della strada e dopo pochi passi sono di nuovo solo. Mi chiedo dove siano finite tutte quelle persone che hanno appena attraversato le strisce pedonali con me. Ma la mia mente torna ancora a quell’idea, quel concetto dei pezzi di puzzle, quel più che incontra il meno, lo yin che bacia lo yang, la luce e l’ombra.
D’improvviso la memoria fa un salto carpiato fino al meraviglioso documentario su quel fisico italiano che scoprì la particella senza antiparticella.
Una particella che si differenzia dalle altre, perché in fisica ogni cosa ha il suo opposto, invece questa è ombra e luce nello stesso momento, si completa da sé. Se non sbaglio è un argomento legato alla fisica quantistica o qualcosa del genere.
Nel documentario uno scienziato americano dice di averla ribattezzata “la particella angelo“, quella che non ha nessun demone. Forse dovrei smetterla di pensare alle persone come a dei pezzi di puzzle, ma piuttosto come a queste particolari particelle fisiche. C’è chi ha bisogno del suo opposto e chi si completa da solo.

Mi fermo e mi accorgo che ho sbagliato strada. Sono davanti all’ambasciata britannica, lontanissimo da casa. Ma perché sono finito qui? 

Che domanda, è da oggi in classe che ho il cervello disconnesso. Non ho altra scelta se non prendere la metro. Nel frattempo ha smesso di piovere e sono quasi fradicio, non il livello che speravo di raggiungere però. Do un’occhiata alla luna, è piena, luminosa, enorme, resterei tutta la notte a guardarla, ma non posso. Scendo le scale e al penultimo gradino mi accorgo che le porte della metro si sono appena aperte. Affretto il passo e mi immergo nella folla. Entro e mi siedo immediatamente. La metro riparte, accendo la musica. I Kodaline cantano “follow your fire” e finalmente sento il sangue tornare a circolare in maniera naturale, come se avessi ricominciato a vivere, come se la fiamma dentro di me non si fosse ancora spenta. Non poteva partire canzone migliore in questo preciso istante.
È un caso? Non penso. Mi piace pensare che la vita sia un disegno in parte già compiuto e noi possiamo soltanto migliorarlo o peggiorarlo.

Giro la testa verso sinistra senza un motivo preciso e incrocio il viso di una ragazza. Ha gli occhi color nocciola, rossetto rosso acceso e veste in maniera elegante. Ha in mano un Kindle. Starà tornando a casa dal lavoro. Giovane e già in carriera. Qualcosa di troppo lontano per me, mi dico, mentre sto per voltare la testa dall’altra parte. Poi però è lei a girare il volto verso di me, le sue pupille incontrano le mie e ho la sensazione che il fuocherello al mio interno divampi in un incendio. Vorrei distogliere lo sguardo dalla vergogna, ma rimango su di lei, è troppo bella. Non riesco fisicamente a fare a meno di guardarla. 

Mi sorride.
Le sorrido anch’io.

Gezim Qadraku.

Goccie di malinconia

Non rideva mai, lui.
Sorrideva, a tratti, come per fare un favore a chi gli stava intorno.
O forse a se stesso, semplicemente per evitare che la gente gli chiedesse come stava.

Era un tipo taciturno.
Odiava l’esercizio del parlare.
La considerava l’azione più inutile che l’uomo fosse in grado di fare.

Era un adulatore del silenzio.
La solitudine gli aveva permesso di apprezzarlo, il silenzio.
Quella meravigliosa assenza di inutili rumori.

Così aveva etichettato le chiacchiere delle persone: inutili rumori.
In silenzio, da solo, aveva letto i libri che gli avevano salvato la vita.
Era un tipo taciturno, incapace di essere felice, sempre vestito di un velo di tristezza.

Eppure su di lui aveva un buon odore quel profumo di malinconia.
A modo suo stava bene e non gli interessava che gli altri capissero la sua situazione.
Aveva lottato e perso pezzi di se stesso per conquistarla, e ora se la godeva.

Sorridendo, ogni tanto, senza mai lasciarsi andare del tutto.

Gezim Qadraku.

Foglie d’autunno

Avevo impostato la sveglia presto per oggi, 7:00. Ho bisogno di dare un cambiamento netto alla mia vita. Ho deciso di lasciare lo smartphone sulla scrivania, così che dovevo per forza alzarmi dal letto per spegnere la sveglia.
Quante me ne sono dette in quell’istante. Mi sono alzato, a momenti cadevo, l’ho spenta e ho immediatamente guardato il letto, con la volontà di buttarmici dentro. I sensi di colpa però mi hanno impedito di farlo.

Mentre aspetto che il latte bolla, preparo la mia tazza blu con l’emoji sorridente. La guardo e cerco di ricordarmi da quanto ce l’ho, dovrei cambiare anche lei. Ci butto dentro un cucchiaio di zucchero di canna e mezza bustina di Nescafé, nel frattempo sento che il latte è pronto. Lo verso nella tazza e per un soffio non esce fuori. Faccio per prendere la tazza e dirigermi verso la scrivania, ma penso che sia troppo rischioso, il latte uscirebbe facilmente e inizierei la giornata sporcando il pavimento.

Allora decido che è meglio berne un pochino e inizio a girare il cucchiaio fino a quando il caffè si è mischiato con il latte, dando vita a un colore marrone uniforme. Faccio un sorso, quanto basta. La temperatura è perfetta, ho spento il fornello nel momento esatto. Qualcosa di giusto ogni tanto. Mi dirigo alla scrivania, appoggio la tazza e torno in cucina a prendere i muesli. Mi accorgo che sono quasi finiti, ce ne sono abbastanza per oggi e domani, di più non credo. Devo ricordarmi di comprarli quando vado a fare la spesa sabato. Sarebbe meglio se me lo appuntassi da qualche parte, ma poi mi dico che tanto me lo ricorderò, consapevole che invece mi dimenticherò e già mi immagino la scena di me incazzato dopo essere tornato dal supermercato ed essermi accorto di non averli comprati.

Torno alla scrivania e verso un po’ di muesli nella tazza. Inizio a mescolare aspettando che si ammorbidiscano. Guardo fuori dalla finestra. Tutto sembra colorato di grigio nebbia, l’autunno è arrivato. Finalmente mandarini e castagne, tè caldo alla sera e domeniche sotto le coperte a guardare Netflix.

Mentre giro il cucchiaio ripenso a ieri. Ai silenzi pesanti di Greta. Si è rotto qualcosa tra di noi. Abbiamo parlato pochissimo. La serata è scappata via senza sfiorarci. Giusto il bacio iniziale e quello della buonanotte. È finita, non c’è più niente da fare. Non la sento presente quando siamo insieme, è da un’altra parte. Controlla sempre ansiosa il cellulare, risponde confusa, non c’è più. Non mi vede più. Penso che se non le scrivessi si dimenticherebbe della mia esistenza. Sto male, è come se qualcuno mi stia sparando un proiettile al giorno dritto nel cuore. Così è ancora più doloroso, la sua indifferenza mi uccide.

Starà sentendo qualcun altro, ne sono sicuro. Non so che fare, non so neanhe se ho voglia di provare a salvarla la nostra relazione. Voglio provare a salvare me stesso questa volta. Concentrarmi sulla mia vita e il resto che si fotta pure. Non ho più tempo, ho corso tutta la vita dietro alla gente, ho perso pezzi per salvare relazioni e non è servito a nulla. Sto andando avanti senza parti di me, le ho buttate via per gli altri. Se almeno l’avessi fatto per me avrebbe avuto senso.

Finalmente i raggi di sole iniziano a bucare il grigio denso della nebbia, i muesli sono morbidi abbastanza. Guardo le foglie colorate cadute ai bordi della strada e mi pare di vedere me stesso. A terra, non preso in considerazione, pronto ad essere spazzato via da una leggera folata di vento senza neanche la forza di opporre resistenza.

Gezim Qadraku.

L’astuccio

Una mattina di settembre del 1998.
È il mio primo giorno di scuola.
Ho cinque anni e da pochi secondi ho scoperto il significato della parola “astuccio”.
La maestra ci ha detto di prendere gli astucci e metterli sul banco. Tutti i miei compagni si sono girati verso le cartelle e hanno tirato fuori questi cosi colorati.
Ho fatto lo stesso movimento anch’io, ma nel mio zaino non c’è nessun astuccio.
Lo sapevo, ma per un attimo ho pensato che magicamente potesse apparire.
Purtroppo non è stato così.

La maestra continua a parlare, ma io ho già smesso di ascoltarla. Ho gli occhi fissi sull’astuccio del compagno seduto di fronte a me.
È di colore arancione, bello, grande. Ha tre cerniere.
Nella mia testa quelli sono tre piani.
Lo descriverò così quando tornerò a casa, oggi pomeriggio, a mamma e papà.
“Mi serve un astuccio. È un coso a tre piani.”
Non siamo italiani, non abbiamo una buona gestione della lingua, non ce l’avremo mai.

Poi tutti li aprono. Sono stupendi. Dentro ci sono matite e pennarelli colorati. Sono diversi, ma hanno tutti due cose in comune: sono colorati e hanno tre cerniere. Mi piacciono veramente tanto.
Riporto lo sguardo sul mio banco. È vuoto.
Io ho solo una matita e una gomma.
Ma non è finita qui. Su ogni banco c’è scritto su un pezzo di carta il nome dell’alunno. Il mio non è scritto in maniera corretta.  Dovrei dirlo alla maestra. Alzare la mano e chiederle quello che non capisco. Così mi ha detto di fare mamma.

“Se non capisci una cosa, alza la mano e chiedi alla maestra.”

Non sto capendo perché il mio nome è scritto in quel modo.
Non alzo la mano, non lo farò mai, ma ancora non lo so.
Ora, ripensandoci, mi accorgo che in quella prima ora del mio primo giorno di scuola c’è rinchiusa gran parte della mia vita.

Ho cinque anni, guardo i miei compagni di classe e mi danno l’idea di essere uno uguale all’altro. Hanno tutti un astuccio, una bella cartella colorata e mi sembrano dei pezzi di puzzle che possono incastrarsi tra di loro.
Io no. Io non ho un astuccio, la mia cartella non è colorata come le loro, il mio nome è scritto in maniera scorretta e non suona naturale come quelli italiani. Sono diverso. Provo per la prima volta quella sensazione di un’ombra che mi copre. Come se la stanza fosse illuminata e ci fosse qualcuno da sopra che toglie la luce soltanto a me, facendomi sparire.
Non lo so ancora, ma anche quella sensazione si ripeterà per molto, troppo tempo.

Dovrei dire alla maestra che il mio nome non si scrive così, ma non lo faccio.
Dovrei dirle che non ho l’astuccio, magari lei ne ha uno per me, ma non lo faccio.
Ho paura, mi sento diverso e questa cosa mi mette a disagio.
Ho cinque anni e dovrei chiedere aiuto, ma non lo faccio.
Cerco solo di nascondermi, mi sposto per essere giusto dietro al compagno seduto davanti a me, così penso che la maestra non riesca a vedermi. Trovare una soluzione anche se in mano non ho niente. Farò sempre anche questo e diventerò piuttosto bravo.

 

 

Anche domani andrò a scuola senza l’astuccio, nonostante per tutta la notte avrò sognato di sedermi al mio banco e tirare fuori dalla cartella quel coso arancione a tre piani. Supererò pure il secondo giorno, anche se sarà più difficile del primo. Farò sempre anche questo nella vita, scavalcare qualsiasi ostacolo, ma il problema ogni volta è ciò che lascerò dietro. Me ne sto accorgendo solo ora di tutto quello che ogni ostacolo si è portato via da me.

Finalmente al terzo giorno ce l’avrò anch’io, l’astuccio. Ma il mio non sarà come quello degli altri. Sarà la cosa più lontana possibile da quello arancione a tre piani.  Il mio avrà un solo piano e sarà meno colorato. Non lo so ancora, ma quella è una sorta di regola che mi accompagnerà per molto. Io non posso avere le stesse cose che hanno gli altri. Io le avrò diverse. Saranno meno belle e dovrò aspettare del tempo prima di poterle ricevere. Quando le avrò sarà già troppo tardi, perché nel frattempo i miei compagni o amici avranno trovato altro e così dovrò aspettare di avere l’altro, ma arriverò ancora una volta in ritardo. E questo succederà costantemente.

Non dirò nulla, non mi lamenterò mai, cercherò di trovare sempre una soluzione. Proprio come sto facendo ora, mentre mi nascondo dietro la testa del mio compagno e la maestra non si è accorta che il mio banco è vuoto, che mi manca l’astuccio, che il mio nome è scritto in maniera scorretta, che non mi sto godendo il mio primo giorno di scuola. Che ho paura, tanta paura.

Quei tre piani dell’astuccio sono stati difficili da superare. Erano parecchio alti e io ero così piccolo. Il primo ostacolo della mia vita, il più difficile.
Eppure l’ho superato, ma molto di me è rimasto incastrato in quei piani, mentre cercavo di scavalcarli a fatica. È come se avessi smesso di essere un bambino dopo quel primo giorno di scuola. Gli altri crescevano giocando, ridendo e facendo i bambini in maniera spensierata. Lo facevo anch’io in un certo senso, ma nel frattempo capitava che per qualche istante mi fermassi a guardarli e mi domandassi perché non potevo essere come loro.

Ho cinque anni.
È il mio primo giorno di scuola.
Tutti i miei compagni hanno l’astuccio.
Io no.

Gezim Qadraku.

Ti ho cercata

Ti ho cercata tutta notte
Ho sognato soltanto te
Ci siamo incontrati nei sogni, come succede da tanto tempo
Ti rincorrevo e tu continuavi a scappare

Volevo parlarti
Non so cosa avessi da dirti di preciso
Correvo più forte che potevo
Ma tu eri sempre più veloce

Ho aperto gli occhi e ho continuato a cercarti
Nel letto non c’eri
Non ci sono più tracce di te
La stanza odora della tua assenza

È un odore atroce, non è rimasto niente del tuo profumo
Ne è passato di tempo
Avrei dovuto abituarmi della tua assenza, ormai
Ma come faccio a dimenticarmi di te?

Gezim Qadraku

Torno presto

Sono all’aeroporto. Aspetto un amico che torna da Londra dopo due mesi di lavoro. Lo speaker annuncia che l’aereo è in ritardo di mezz’ora. Non avendo molte opzioni decido di intraprendere una camminata senza meta. Vago per un po’, finché non raggiungo i gate delle partenze.

La mia attenzione viene subito catturata da un bambino e quello che dovrebbe essere suo padre. Mi rapisce il modo in cui il piccolino è incollato al genitore. Mi siedo su una panchina e continuo a osservarli. Già me lo immagino come andrà a finire questa storia.

Dopo un paio di minuti il padre abbraccia la sua donna con un gesto commosso e profondo. Restano attaccati l’uno all’altra per un tempo indefinito. Quando si staccano, entrambi hanno gli occhi lucidi.  Lui un po’ meno, mentre lei non riesce proprio a trattenere le lacrime. È un colpo al cuore guardarla, mi fa male. Cerca di nascondere la commozione guardando in alto e sistemandosi gli occhiali da sole. Non vuole che il bambino la veda in quello stato.
Il padre si sta trattenendo perché ora arriva la parte impossibile. Si abbassa verso il suo piccolino, gli accarezza i capelli e tira fuori un sorriso forzato, combattuto, mentre riesce nell’esercizio complicatissimo di mantenere le lacrime all’interno del suo corpo. Riesco ad avere un’idea chiarissima della potenza del nodo alla gola che sta provando.

Lo abbraccia forte e il figlio si aggrappa letteralmente al suo corpo. È un’istantanea, un flash. Ci dovrebbe essere qualcuno – per ognuno di noi –  che fotografa o riprende certi attimi della nostra esistenza. Quel gesto andrebbe mostrato nelle scuole per spiegare il significato di genitore, di figlio, di famiglia.
È impossibile pensare che quei due corpi possano staccarsi. Sarebbe come chiedere, o aspettarsi, che un evento naturale smetta di seguire il suo corso. Domandare ai fiori di non sbocciare in primavera o all’acqua dei fiumi di non nutrire i mari. Non lo si può fare.
La madre è costretta a fare ciò che non vorrebbe. Tira a sè il bambino con un gesto rapido, tentando in qualche modo di ridurre il dolore. Come se fosse possibile.

Leggo il labiale del padre: “torno presto”.

Il bambino lo sa che gli sta mentendo e scoppia in un pianto scrosciante. Si gira e abbraccia le gambe della figura materna. Lei guarda il suo uomo, gli accarezza dolcemente il viso e gli dice di andare. In cuor mio, egoisticamente, auguro a me stesso di avere la fortuna di trovare una donna del genere.
Lui guarda il piccolo e poi volta le spalle alla sua famiglia.

È assordante il vuoto che si viene a creare. Per un attimo penso che tutto l’aeroporto si sia fermato e li stia osservando. Non sento nulla. Riesco solo a percepire il dolore di quelle tre persone che aumenta vertiginosamente ogni secondo che passa.

Le conosco queste storie. Le ho già sentite quelle parole. Lo so come si sente quel bambino. Non capisce perché il padre stia facendo una cosa così tremenda come andare a lavorare in un posto lontano. Si sente tradito e non ha torto. Ma quello che non sa è che il padre sta facendo quella brutta cosa solo per lui. Per non fargli mancare nulla ora che è piccolo e soprattutto per potergli, in un certo modo, assicurare un futuro quando sarà grande.

Lo capirà quel bambino, comprenderà tutto questo quando sarà cresciuto. Ma ora non gli importa. Adesso vuole soltanto avere suo padre lì con lui per giocare e andare a mangiare il gelato insieme.

Quello che il padre invece non sa è che si perderà per sempre pezzi di vita del figlio. Si lascerà scappare giorni, mesi e forse anni. Questo durerà finché non riuscirà a portarselo con sé o deciderà di tornare. Potrà capitare, se il periodo di distanza si dovesse prolungare per troppi anni, che quel figlio non sarà in grado di riconoscerlo e andrà nelle braccia di qualcun altro quando lui sarà tornato.
Chiederà a sua madre: “chi è quest’uomo?”.

E allora quel padre si addosserà tutte le colpe del mondo. Si domanderà se ne valeva la pena far soffrire la propria creatura. Vivere lontano dalla sua famiglia e poi tornare per non essere riconosciuto.
Ciò che si sono domandati almeno una volta nella vita tutti quelli che hanno lasciato la propria terra: “ma ne valeva veramente la pena?”
Già, come se un semplice essere umano fosse in grado poter rispondere a un quesito del genere.

Do un’ultima occhiata a quel bambino e mi tornano in mente i racconti di mia madre. La foto di noi tre, con mio padre che mi teneva in braccio pochi giorni dopo la nascita accanto a mia madre,  che le chiedevo di baciare prima di addormentarmi mentre lui non c’era. Quando poi lui tornò e le dissi di farlo dormire sotto il letto, quell’uomo.
Non lo chiamavo più papà. Era diventato quell’uomo. Ne era passato di tempo da quando era andato via e io ero soltanto un bambino. Non avevo colpe, neanche mio padre ne aveva. Non è colpa di nessuno in realtà, è la vita.
Mi sono sempre chiesto come si sia sentito lui, ma non ho avuto mai il coraggio di domandarglielo direttamente.

Esco fuori a fumarmi una sigaretta e prego che nessun padre debba essere costretto a prendere decisioni del genere.

Gezim Qadraku.

 

Come ai vecchi tempi

Non curanti dell’orario abbiamo deciso di sederci su un marciapiede.
Era molto tardi e il giorno dopo avremmo dovuto alzarci presto, ma c’erano cose più importanti da fare.
C’era da sedersi, prendere fiato e parlarsi.
Ci siamo accesi una sigaretta e non ricordo quante ne abbiamo fumate in totale.
Erano buone quelle sigarette. Avevano il sapore di un sentimento che durava da anni ed era riuscito a superare i peggiori ostacoli possibili.
Sapevano di risate e segreti condivisi, di fiducia, pacche sulle spalle e di lacrime versate insieme. Sapevano di amicizia.
C’è qualcosa che ha un sapore migliore?
Abbiamo parlato di tutto ciò che ci passava per la testa, ne avevamo di tempo da recuperare. Le telefonate a distanza non riusciranno mai a colmare una conversazione dal vivo.
Abbiamo notato come lo trascorrere dell’età aveva spostato la nostra attenzione su argomenti che mai avevamo toccato prima.
La famiglia, i figli, la casa, gli investimenti, i rapporti sul lavoro e i sogni.
I sogni, quelli che ci hanno allontanato. Il rispetto dei desideri dell’altro, ciò che continua a mantenerci vicini.
Potrete nominare come vostro amico solo colui che apprezzerà le vostre scelte e tiferà per voi. Mettendo il vostro rapporto al primo posto, invece del proprio io.
Capita a pochissimi questa fortuna.
Abbiamo finito per aspettare l’alba, decidendo di non andare a dormire. Era il miglior finale possibile.
Ci siamo accorti che da un sacco di tempo non facevamo una “ragazzata” del genere. Mentre cercavamo di andare indietro negli anni e ricordarci qual’era stata l’ultima, i primi innocui raggi di sole ci hanno colpito il viso. Abbiamo accompagnato quell’evento con una risata delle nostre, guardandoci negli occhi e assaporando quella felicità.

Un’altra giornata stava iniziando e quello era il miglior modo per darle il benvenuto. Anche se purtroppo ciò significava che era arrivato il momento di lasciarci.
Ci siamo alzati, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo dati un abbraccio intimo e profondo. Non ci siamo detti nulla, non abbiamo mai avuto bisogno di parlare in momenti come quello.
Siamo stati bene quella notte, ci siamo divertiti.
Proprio come ai vecchi tempi.

Gezim Qadraku.

Ero felice

Mentre osservavo il miscuglio di colori che dipingevano il cielo, mi tornò alla mente il passaggio di un libro che avevo letto tempo addietro. Non ricordavo esattamente le parole che l’autore aveva utilizzato, ma descriveva la magia di essere felici ed essere in grado di accorgersene.
Non succede quasi mai, se ci si pensa.
Fa sempre più clamore l’infelicità o un periodo negativo che un bel momento.
In quegli istanti mi resi conto che mai mi sarei potuto dimenticare quel periodo.

Quella era stata una di quelle giornate che preghi affinché possano durare per l’eternità.

Mancavano ancora una manciata di minuti prima che le persone terminassero la propria giornata lavorativa e intasassero le strade.
Pareva che la poca natura ancora presente in città si stesse godendo l’ultimo respiro, prima di assistere alla solita corsa degli esseri umani.

Era ancora inverno secondo il calendario, ma il calore che i raggi di sole sprigionavano davano la sensazione che la primavera volesse iniziare il suo corso in anticipo.
Tutto pareva essersi vestito dell’indescrivibile colore del cielo, un arancione roseo che lasciava senza fiato.
Non vi erano dubbi, sarebbe stato un tramonto coi fiocchi.

Ero uscito a fare due passi dopo una calda e infinita doccia rigenerante. Ero solito provare dei brividi di freddo quando uscivo a quell’ora, soprattutto dopo essermi lavato. Quel giorno però si stava divinamente.

Il leggero giubbottino primaverile si era rivelata la scelta giusta. Camminavo senza una vera e propria destinazione, lasciandomi colpire dai raggi di sole e cercando di godermi i suoni di ciò che mi circondava. Le grida dei bambini al parco giochi, i freni delle automobili al semaforo rosso, il cinguettio degli uccelli e il leggero venticello che mi accarezzava i capelli.

Decisi che la cosa migliore da fare era trovare un posto che mi permettesse di avere una visuale dall’alto della città. Volevo trovarmi nel posto più alto possibile per godermi l’arrivederci del sole e l’arrivo del buio.

Ero proprio felice in quel periodo e la cosa buffa è che non vi era un motivo ben preciso. Per anni, come penso tutti, avevo erroneamente collegato la felicità a un traguardo, a una persona o comunque sempre a un qualcosa.

Quello è sicuramente stato il periodo più felice della mia vita, nonostante fossi lontano da tutto ciò che di più caro avevo. Eppure di niente e di nessuno più mi importava e per la prima volta la persona che guardavo allo specchio mi piaceva.

Era una felicità inspiegabile e che nessuno avrebbe potuto comprendere. Non persi tempo per provare a condividerla. Mi ricordai delle parole di Oscar Wilde, scrisse che quando una persona gli piaceva non ne rivelava il nome per gelosia.
Lo stessi feci io con quella parte della mia vita, non la manifestai a nessuno e provai a godermela fino all’ultima goccia.

Ricordo un particolare di quei momenti, guardavo sempre in alto.
Fissavo il cielo e provavo ad accarezzare le stelle.
Ero felice e tutto mi sembrava possibile.

Gezim Qadraku.

Una vita che non esiste

Il mal di testa era fortissimo. Innumerevoli e fastidiosissime fitte continuavano a premere incessantemente sul mio cervello.
La sensazione era che quel dolore stesse per spaccarmi il cranio.
Non avevo mai provato una sofferenza tale.
Non potei fare altro che chiudere gli occhi e lasciarmi cadere sul letto. Nonostante fossi caduto quasi a peso morto e mi sembrava di non essere in grado di controllare i muscoli, continuavo a tenere con la mano destra il mio smartphone.

Erano le 9 del mattino di una domenica qualunque. Ero sveglio dalle 8 e da quell’istante non avevo fatto altro che controllare i miei profili social.
Facebook, Instagram, WhatsApp, poi di nuovo Facebook, una controllata alla mail e ancora Instagram.
Non potevo farne a meno.
Mi era impossibile immaginare di perdermi anche il minimo avvenimento che stava accadendo online.
Avevo trascorso la prima ora di quella giornata senza bere, mangiare o andare in bagno. Sessanta minuti con lo sguardo concentrato su quello schermo.
Prima da sdraiato sotto le coperte e successivamente seduto sul letto.
La mia testa era riuscita a resistere un’ora.
Poi il buio.
Mi lasciai cadere sul letto e la sensazione fu di perdere i sensi.

Mi ripresi più tardi, circa un’ora e mezza dopo.
Non mi fu difficile comprendere che quel dolore era stato causato dall’eccessivo utilizzo del cellulare.
Il risveglio fu traumatico. Mi parve di essere scampato alla morte e la paura, il terrore di aver visto la fine di fronte agli occhi, mi fece dimenticare tutto il resto.
Per la prima volta dopo parecchio tempo mi fermai a pensare.

Da un paio di anni il mio unico interesse era la vita online.
Il mio profilo.
Le mie attività.
Le mie foto.
I miei “amici”.
I messaggi delle ragazze.
Le richieste di amicizia.
I “mi piace”.
I commenti.
Le condivisioni.
Gli apprezzamenti.
I nuovi follower.
Le nuove follower.
Le stories.
Chi le aveva visualizzate.
Chi non ancora.
Chi mi aveva taggato.

Trascorrevo le mie giornate connesso. Ogni secondo libero era buono per prendere in mano lo smartphone e osservare le vite degli altri.
Controllare cosa stava succedendo: chi aveva pubblicato una foto, chi era in viaggio, chi aveva ottenuto un nuovo lavoro, chi si era fidanzato, chi si era sposato, chi era nato, chi era morto, a chi piacevano le mie foto, come stava andando un mio post, chi voleva diventare mio amico, chi iniziava a seguirmi, quali ragazze rispondevano ai miei messaggi.

Qualsiasi cosa facessi: dal mangiare agli allenamenti, dal viaggiare alle uscite con gli amici era fatto esclusivamente con l’intento e la speranza che pubblicandolo avesse potuto fare di me un personaggio migliore secondo la prospettiva del web.
Sognavo di diventare un influencer. Impazzivo di felicità e mi sentivo importante, completo, arrivato quando qualcuno mi chiedeva consigli su qualsiasi argomento.

Uscivo con i miei amici e votavo sempre per andare nei locali più costosi per dare un’idea di ricchezza.
Andavo a mangiare due o tre volte alla settimana al ristorante, sempre per lo stesso motivo.
Successivamente iniziai anche a viaggiare, prima nei posti più vicini a casa e man mano mi allontanavo sempre di più, fino a varcare i confini.
Odiavo viaggiare e soprattutto prendere l’aereo.
Però le foto in aeroporto e dei monumenti delle città famose avevano un enorme seguito.
Non esitavo a condividere con i miei “amici” del web tutto ciò che mi succedeva.
Avevo un bisogno vitale della loro opinione. Ogni giorno era una lotta per farmi accettare e stare al passo con le mode del momento.
Fotografavo appunti e libri mentre studiavo oppure le scarpe sportive e i pesi prima di iniziare ad allenarmi.
Postavo le foto dei programmi televisivi che guardavo.
Arrivai a pubblicare una foto di me e Jessica sotto le lenzuola, nudi, dopo aver fatto l’amore.
Addirittura la bara di mio nonno mentre lo portavamo al cimitero.
Ebbe un enorme successo.

Dopo il risveglio compresi di aver un problema e quel trauma mi convinse che la cosa giusta da fare era rivolgermi a un dottore. Scoprii che soffrivo di nomofobia: la paura di restare disconnessi dalla rete.
Iniziai un percorso di guarigione. La base era cercare di ridurre al minimo, e ai soli momenti indispensabili, l’utilizzo dello smartphone.
I primi giorni furono un disastro assoluto. Semplicemente non ce la facevo.
Poi con il passare del tempo migliorai sempre di più, fino a sentirmi in grado di poter prendermi una pausa dai social.
Non cancellai i profili, disinstallai le app dallo smartphone e provai a vedere se era possibile vivere senza.
Era fattibile eccome, anzi, era una meraviglia.

Le riflessioni di quel periodo mi fecero capire che avevo buttato via gli ultimi anni della mia vita.
Svolgere un’attività, fare una foto, modificarla, trovare la frase giusta da scrivere, pubblicarla e aspettare. Sperare che la foto piaccia e dopo i primi apprezzamenti sentirsi appagati.

Mi sentivo felice e completo, ma per cosa?
In realtà tutto quello era un bel niente.
Solo pura immaginazione. Così forte da farmi perdere il contatto con la realtà.

Contavo i mi piace, giudicavo gli apprezzamenti a seconda di chi li aveva dati. L’apprezzamento di uno sconosciuto valeva molto di meno della ragazza che mi interessava. Eppure per l’algoritmo del social network sempre uno era.

Mi ero costruito una vita che non esisteva, fatta di foto ritoccate, false amicizie, apprezzamenti di circostanza.
Una vita immaginaria che per tutti ormai vale molto di più di quella reale.

A distanza di diversi mesi dall’inizio del percorso di guarigione mi sentii così bene e sicuro di me stesso, da provare la sensazione di poter essere in grado di controllare i social network.
Decisi di installare di nuovo le app sul mio smartphone.

Così ritornai sui social, i miei profili erano lì dove li avevo lasciati.
Era trascorso un sacco di tempo eppure nessuno sembrava essersi accorto della mia assenza.

Gezim Qadraku.