Ce ne andiamo in Italia (2° parte)

Fa caldo. Il mese di luglio ha portato con sé temperature alte e afa con la forza di un tornado. Blerim e Valon sono a casa. Blerim, fino a una settimana fa, passava le giornate in oratorio. Poi, a causa del problema alla centralina della macchina e di quanto ci costa ripararlo, non è più potuto andare. Mancano i soldi. E ora che entrambi devono trascorrere un’intera giornata estiva in casa, sembrano due animali selvaggi costretti in gabbia. Si ringhiano addosso a vicenda, si azzuffano costantemente. Come vado a dividerli, riprendono a litigare qualche minuto dopo. Dopo un po’ ci rinuncio e lascio che uno dei due sfinisca l’altro. Anche se a volte mi sembra abbiano una quantità infinita di energia e di voglia di darsi fastidio a vicenda. Valon si lamenta sempre che Blerim non lo lascia giocare alla PlayStation. Ogni volta viene a piangere da me e mi chiede di comprargli un joystick. Costa 50 euro quel maledetto coso.

L’unico momento della giornata nel quale riescono a respirare è dopo le 16, quando finalmente riesco a portarli al parco. Devo lavorare durante la giornata. Devo pulire le case della gente benestante ogni giorno. Dalle 9 alle 11:30 e poi dalle 14:00 alle 16:00. Oggi è giovedì, devo andare dai Brambilla. Mi porto sempre dietro i bambini, amano quella casa. E poi il signor Luciano mi ha detto che possono tranquillamente giocare alla PlayStation. Lui ha due joystick, così non devono litigare e posso giocare insieme.

L’orologio segna già le 13:35. Finisco di fare le stoviglie in fretta e furia. Mentre sono in cucina urlo ai bambini di prepararsi. Blerim mi risponde a tono, “SIAMO GIA’ PRONTI NOI“. Mi asciugo velocemente le mani e con la stessa frequenza di movimenti vado in camera a cambiarmi. Sono in ritardo sulla tabella di marcia. A quest’ora dovremmo già essere in strada. La casa dei Brambilla dista una mezz’oretta dalla nostra. Mi vesto più veloce che posso, torno in cucina a controllare se ho lasciato qualche fornello acceso, prendo la borsa e vado in camera a chiamare i bambini.

Stanno guardando i Simpson.
Andiamo bambini!
Mamma, ma non è ancora finita la puntata“, mi dice Blerim, mentre non stacca gli occhi dalla televisione.
BLERIM, SHPEJT“, gli urlo. (BLERIM, VELOCE)
Capisce che deve spegnere immediatamente la televisione. Valon è già in corridoio, capisce sempre senza bisogno di ripetergli nulla. Scendiamo in strada e il caldo sembra duplicarsi. Su quel tratto di via Piave non c’è un filo d’ombra. Camminiamo per una decina di minuti sotto il sole cocente. Tengo per la mano Valon, mentre Blerim cammina davanti a noi. Procediamo in religioso silenzio, come per non sprecare le forze che il caldo torrido cerca di succhiarci a ogni passo che facciamo. Il paesino sembra in letargo. Non si sente anima viva in giro. Il momento più caldo della giornata e infatti la cosa più sensata è stare in casa e non uscire. Ma io devo pulire le case degli italiani e non ho la patente. Ma anche se ce l’avessi, anche se sapessi guidare, comunque non potremmo permetterci una macchina. Me lo ripeto ogni volta che ci penso. Che tanto sarebbe inutile. Che va bene così.

Arriviamo all’appartamento del signor Luciano alle 14:05. Sono in ritardo, ma meno di quanto pensassi. In un’ora e cinquantacinque minuti devo fare cucina, salotto e bagno. Alle 16 devo levare il culo da questo posto. Non posso restare di più. Uno tra il signor Luciano e la signora Claudia potrebbero tornare a casa e l’ultima cosa che vorrebbero trovare è me che pulisco. I bambini vanno subito in sala e si mettono a giocare. Io mi dirigo in cucina, dove ci sono ancora i resti della cena di ieri sera. Non si stancano di fare nulla quei due. Me li immagino che finiscono di mangiare e si alzano per andare in sala, a godersi qualche film, mentre si amano e si godono questa vita da sogno. Si sono sposati da poco, hanno entrambi più di quarant’anni. Lui fa l’assicuratore, lei è una professoressa universitaria. Lavorano entrambi a Milano, trascorrono la gran parte della giornata lì. Hanno comprato casa fuori da Milano perché preferiscono un piccolo paesino tranquillo. Non hanno figli e mi danno l’idea che mai li avranno. Tutti questi soldi, questa ricchezza, chissà a chi la lasceranno. Che spreco una vita senza figli, mi ripeto ogni volta che entro in questa casa. Manca il pezzo più importante di una famiglia, eppure loro mi sembrano felici così. Sul tavolo della cucina ci sono briciole di pane, una fetta di bresaola e una bottiglia di vino rosso. Manco il vino in frigorifero si preoccupano di mettere. Sul fogliettino che mi lasciano sempre sul tavolo, c’è la solita indicazione: “come al solito“.

Guardo l’orologio, sono le 14:10. Non ho ancora iniziato e sono già stanca. Fa troppo caldo in questo periodo e più vado avanti, più ho la sensazione che non riuscirò a continuare a pulire così tante case. Dovrò lasciarne qualcuna, ma i soldi ci servono. Non sono mai abbastanza. Chiudo gli occhi, stringo i pugni, prendo un bel respiro profondo e cerco di farmi forza. Da quando ho messo piede in cucina, ho la sensazione che la stanza profumi di bresaola. Quella fetta, rimasta lì da ieri sera, ha riempito la stanza del suo aroma. La osservo per un tempo infinito. La quantità di secondi che i miei occhi rimangono su di lei è direttamente proporzionale all’aumento del desiderio di mangiarla. Non dovrei, continuo a ripetermi. Ma figurati se si accorgono di qualcosa, mi dico poi. Alla fine la prendo e con un gesto veloce, causato dal timore che qualcuno mi possa vedere, la caccio in bocca. Mastico bramosamente. Se qualcuno mi osservasse, penserebbe che non mangio da giorni. Sembro un lupo che è appena riuscito a uccidere la sua preda, e dopo la fatica dell’inseguimento riesce finalmente a dargli il primo morso. È maledettamente buona. Mentre la mastico, e in fondo al cuore spero che per qualche strano motivo la fetta possa riprodursi tra i miei denti e durare per sempre, mi rendo conto della scarsa qualità del cibo che noi possiamo permetterci ogni giorno. Mando giù l’ultimo pezzo della fetta e mi sembra di essere rinata. Sento i bambini ridere di gusto, percepisco che si stanno divertendo e questo mi dà la forza per iniziare a pulire.

Prendo la bottiglia di vino e la metto in frigo. Con lo straccio tiro via le briciole. Prendo il ritmo e continuo così, per un’ora e cinquanta minuti. Senza mai prendermi una pausa, neanche per andare in bagno. Abbiamo bisogno di soldi, mi ripeto. E poi tra meno di un mesetto andiamo in Kosovo. I bambini fremono dalla voglia. Non fanno altro che chiedere quanti giorni mancano. Anche tu mi sembri più felice in questo periodo dell’anno. Sei impaziente di vedere i tuoi genitori e io non vedo l’ora di vedere mamma. Mi manca. Ogni volta che arriva l’estate, mi rendo conto di quanto sia un anno senza vedere un genitore. Un tempo troppo lungo, estenuante. Non dovrebbe essere legale una cosa del genere. Durante l’ultima telefonata mamma mi ha detto una cosa che mi ha fatto sorridere.
Se solo ci fosse una telecamerina piccola in questi cellulari, se solo potessimo vederci quando parliamo.

Spegnete che dobbiamo andare, bambini.
No mamma, dobbiamo finire l’ultima partita“, ribatte Blerim, mentre Valon ha già staccato le mani dal joystick.
BLERIM, TE LUTEM“, mi costringe ad alzare la voce. (BLERIM, TI PREGO)
Però ci porti al parco.
Certo che vi porto. Dai, andiamo.
Il parco della scuola elementare di Blerim dista soltanto una decina di minuti dalla casa dei Brambilla. I bambini camminano davanti a me, si tengono per mano e continuano a ridere. Mi commuove vederli così vicini. A un certo punto si fermano e si voltano in sincrono verso di me. Mi guardano sorridendo e mi fanno segno con la mano di avvicinarmi veloce.
Hajde mam“, mi dice Blerim, mentre continua a tenere per mano Valon. (Vieni mamma)
Mi avvicino a loro sorridendo, mi abbasso sulle ginocchia perché mi sembra che sia Valon a voler parlare per entrambi.
Dai, chiediglielo“, lo incoraggia Blerim.
Mamma, quando andremo a vivere anche noi in una casa come quella del signor Luciano?


È come se una siringa mi trafiggesse il cuore. Entrasse da una parte e uscisse dall’altra. Sento le ginocchia cedermi e appoggio le mani sulle loro spalle per non cadere. Non è la richiesta a farmi male, ma il sorriso e la speranza che vedo nei loro occhi. Pensano davvero che una cosa del genere sia possibile. Nella loro ingenuità sono convinti che un giorno potremmo davvero permetterci un appartamento del genere. Infilo la mia testa in mezzo alle loro, stringo le loro spalle e li muovo verso di me. Lo faccio per nascondere il volto e le lacrime che mi bagnano il viso. Cerco di capire quando aprire la bocca e parlare, senza che si accorgano che sto singhiozzando. Continuo ad aspettare, cosciente che non è ancora il momento giusto.
Quando mamma?” Domanda ancora Valon.
Presto rrushi i jem, presto“, riesco a dirgli, stoppando per un paio di secondi le lacrime e sentendomi la madre peggiore sulla faccia della terra. Restiamo in quella posizione ancora per qualche minuto, mentre smetto di piangere e continuo ad accarezzare le loro schiene e loro mi stringono forte. Poi mi alzo e il dolore fisico si aggiunge a quello emotivo. Sento le fitte alla schiena, i muscoli dei polpacci che si induriscono e un peso che si appoggia sulle spalle e prova a schiacciarmi sotto terra.

Arriviamo al parco, i bambini corrono verso le altalene. Io vedo Luana seduta sulla panchina dietro alle altalene e la raggiungo. Non se la sta passando bene ultimamente. Mi racconta di come i litigi con il marito sono aumentati, di come lui torna a casa tardi la sera. Molte volte è ubriaco. Non me lo ha detto, ma sono convinta che le metta anche le mani addosso.
Ciao Luana“, la saluto e mi accorgo subito di una luce diversa nei suoi occhi.
Ciao tesoro, come stai?” Mi domanda. Non ho ancora capito perché mi chiama così e non per nome, ma non mi va di chiederglielo, mi vergogno. Sarà un’abitudine delle donne italiane, chiamarsi così tra donne.
Bene, grazie. Un pochino stanca. Oggi tanto lavoro. Tu stai bene?” Le rispondo in maniera meccanica. Scandisco ancora le parole con un certo timore. Dopo una giornata così, ho la sensazione che i vocaboli italiani – i quali cerco di imparare quotidianamente ascoltando la televisione e i bambini mentre parlano tra di loro – svaniscano dalla memoria, si dissolvano in aria, evaporino. Allora mi tocca cercarli, rincorrerli, catturarli, riportarli a me e provare a dar loro un senso, mettendoli nell’ordine giusto.
Io meglio guarda. Devo darti una notizia.
Che bello. Dimmi!
Ho deciso di divorziare da mio marito. Penso sia la cosa migliore per me. Non ce la faccio più ad andare avanti così…
La mia attenzione rimane ancorata a quella frase. Luana continua a parlare, muove il suo corpo verso di me e presumo mi racconti tutto quello che è successo. Io però non la seguo più, non ci riesco. Il mio cervello è rimasto a quella frase iniziale, a quel verbo. Divorziare. La vista mi si annebbia, l’attenzione svanisce del tutto, l’unica cosa che riesco a captare è il sollievo degli occhi di Luana.

“Ma come hai divorziato?
Come fai a pensare che sia la decisione migliore per te?
Perché l’hai fatto?” vorrei chiederle, ma continuo a cercare i suoi occhi, quantomeno per dimostrarle che la sto ascoltando. Lei procede ininterrottamente. In maniera molto lenta riesco a riportare l’attenzione su quello che mi dice. Mi rendo conto di essere rimasta in silenzio per troppo tempo. Non voglio immaginare che razza di espressione ho. Così la interrompo bruscamente, la guardo dritto negli occhi e le dico che la capisco. Che non dev’essere stato facile. Lei continua il suo racconto, ma con la coda dell’occhio mi accorgo che Valon è caduto e mi avvio immediatamente verso di lui. So già che non si è fatto niente, perché mentre mi muovo nella sua direzione, lui si è già alzato e non sta neanche piangendo. Utilizzo questo alibi per staccarmi da Luana. Non ho più voglia di sentirla parlare oggi. Raggiungo Valon, gli controllo la ferita al ginocchio, dalla quale gli esce un po’ di sangue. Prendo una salvietta bagnata dalla tasca e pulisco la terra che si è attaccata alla pelle.
Tranquilla mamma, non mi fa male“, mi dice, mentre cerca di staccarsi il più velocemente da me e tornare a giocare con i suoi amichetti. Lo lascio andare senza dirgli niente.

Tutto bene. Un pochino sangue“, dico a Luana, non appena torno da lei. Continua a raccontarmi della sua decisione, mi ripete tutti gli avvenimenti che l’hanno portata a prendere quella scelta. Io sono ancora persa nei miei pensieri, nei dubbi che il suo divorzio sta mettendo nel mio matrimonio. E se un giorno divorziassimo anche noi? Mi domando, mentre cerco di guardarla negli occhi per mostrarle una parvenza del mio interesse. Un brivido di paura mi scuote la schiena. No, noi non le facciamo queste cose. Noi non siamo così, non siamo come loro. Mi ripeto convinta e orgogliosa. Noi mica roviniamo la famiglia in questo modo. E poi che motivo avremmo per divorziare, noi? Cerco con lo sguardo i bambini, stanno giocando a nascondino. Blerim sta contando, mentre Valon è nascosto sotto lo scivolo con un suo amichetto.

Il tempo trascorre più veloce del previsto e fortunatamente è già ora di andare a casa. Saluto Luana e i suoi figli, Luca e Ada. Ci avviamo verso casa e tengo sia Valon che Blerim per mano. Quei dubbi non hanno ancora abbandonato la testa, quel maledetto verbo – divorziare – continua a girare nel mio cranio, esattamente come una zanzara. Mi provoca il medesimo fastidio, mentre cerco di cacciarlo via e dopo qualche secondo ne sento ancora il ronzio. Stringo le mani dei bambini. Valon ricambia la stretta, come se stesse aspettando solo questo. Blerim, invece, si sgancia e aumenta il passo.

Arriviamo a casa. Dico ai bambini di lavarsi, di fare veloce che tra poco arrivi tu e inizio a preparare la cena. Per i bambini faccio la pasta, mentre a te riscaldo il gullash che ho fatto per pranzo. So che lo preferisci riscaldato, per questo lo faccio sempre quando sei al lavoro, così è perfetto per cena. Così avevo sentito dire a tua mamma, la prima volta che ti avevo visto mangiarlo a casa dei tuoi. Eri tornato dalla solita giornata infinita al pazar. Eri uscito la mattina presto per vendere delle pesche, ma il caldo atroce ne aveva mandate a male la metà e dell’altra metà ne avevi vendute pochissime. Eri tornato a casa a mani vuote, asciutto, stanco, distrutto. Non capivo come tua madre potesse pensare di riscaldarti un piatto che aveva preparato per pranzo. Ma mi accorsi della felicità nei tuoi occhi, quando ti sedetti a tavola e tua madre ti venne incontro con in mano il piatto di Gullash riscaldato.
Qe djali i jem, qysh t’pelqen tyje“, ti disse. (Ecco figlio mio, come piace a te)


Scaldo il Gullash utilizzando la fiamma più bassa possibile, eccitata, nella speranza di riuscire a provocare in te la stessa felicità che riusciva tua madre. Sento che i bambini hanno finito e pochi minuti dopo suona il citofono. Corro subito ad aprire il portone del palazzo. Subito dopo apro la porta di casa e ascolto i tuoi passi pesanti approcciarsi ai tre piani di scale. Cerco di percepire la tua stanchezza calcolando quanto ci metti a salire. Sei più lento del solito, ho un sussulto di timore. E se ti è successo qualcosa? Magari ti sei fatto male al lavoro? I battiti del cuore aumentano di intensità. Ci metti un’eternità ad arrivare alla porta di casa. Alzi lo sguardo dal cellulare, mi guardi per qualche secondo, la tua espressione non cambia.
Grua“, mi saluti. (Moglie)
A je lodh Afrim?“, ti chiedo, preoccupata che ti sia successo qualcosa. (Sei stanco Afrim?)
Jo, jo. Nuk pat shum pun sot”, mi dici mentre entri in casa. (No, no. Non c’era tanto lavoro oggi) “A je mir?“, ti domando per avere la certezza che tu stia veramente bene. (Stai bene?)
Mi guardi storto e non mi rispondi, non capendo perché io te l’abbia chiesto. Allora ti dico che vado a prenderti i vestiti e di farti la doccia che la cena è quasi pronta.

Corro in camera a prenderti i vestiti e te li porto immediatamente in bagno. Sei in piedi e continui a guardare il cellulare.
Qe teshat“, ti dico e te li appendo dietro alla porta. (Ecco i vestiti)
Sento i bambini ridere in camera, nel frattempo l’acqua in pentola bolle e butto la pasta. Suona di nuovo il citofono, è Albina. Sale le scale in un batter d’occhio. Capisco subito che la sua prima lezione d’inglese dev’essere andata bene. L’unica della classe a essere stata scelta per questo corso extrascolastico. Le maestre mi hanno detto che ha un talento per le lingue. Il mio fiore, la mia rosa preferita. L’aspetto con la porta aperta, vestita di tutto l’orgoglio che una madre può avere. Mi corre in contro con un sorriso infinito.
Hajde qika e jem“, non faccio in tempo a dirle che mi sta già raccontando tutto. (Vieni figlia mia) Continua a parlare a una velocità e a un tono spropositati. Io cerco di toglierle lo zaino dalle spalle, ma è un’impresa, perché continua a dirmi di aspettare e fermarmi un secondo, che deve raccontarmi un altro dettaglio della sua giornata.


Finisci la doccia e vieni in cucina.
Buka osht gati“, ti dico, anche se non me l’hai chiesto, timorosa che tu possa pensare che devi aspettare a lungo. (La cena, è pronta)
Ti siedi e inizi a cambiare i canali della televisione. Ti sento sbuffare mentre faccio scaldare il sugo per la pasta dei bambini.
Questi bambini non sanno neanche chiedere al proprio padre se è stanco“, sputi fuori dalla bocca, con tutta la freddezza di cui sei capace, fissandomi mentre lavoro il sugo.
Sento il tuo sguardo addosso, anche se ti volto le spalle. Lascio il sugo e mi avvio verso i bambini. Albina è con i ragazzi, e insieme a Valon guardano Blerim che gioca alla PlayStation.
“Papà è arrivato, l’avete sentito? Venite veloci a chiedergli se è stanco. VELOCI”.
Valon e Albina escono immediatamente dalla camera.
“Ma anche tu lavori mamma, lui non ti chiede mai se sei stanca”, mi dice Blerim, mentre continua a fissare il televisore. Faccio finta di non averlo sentito, anche sei vorrei abbracciarlo forte.
“Vieni Blerim, che la cena è pronta”.

I bambini si siedono a tavola. Albina è ancora elettrizzata per la sua prima lezione d’inglese. Tu guardi il telegiornale con un atteggiamento disinteressato. Hai il telefono di fianco alle posate e sembra che stai aspettando un messaggio o una chiamata. Aspetto che chiedi ad Albina com’è andata la sua giornata, anche lei sembra aspettare soltanto quello, ma tu non dici niente. Forse ti sei dimenticato, mi dico, cercando di trovarti una scusa. Verso il Gullash nel piatto e te lo porgo. “Gullash, qysh t’pelqen tyje“, ti dico, aspettando una reazione. (Gullash, come piace a te)
L’unica cosa che fai è alzare le braccia dal tavolo, così che io possa appoggiare il piatto. Inizi a mangiare senza aspettare che io abbia servito i bambini, senza aspettare che mi sia seduta anch’io. La voce del conduttore del telegiornale, insieme al rumore delle posate, fanno da sottofondo a questa cena silenziosa. Vedo nei volti dei bambini ancora il sorriso, tu mangi il Gullash e ho la sensazione che ti stia piacendo. Tutto questo mi rincuora. Mi dico che è soltanto una giornata un po’ così, che non devo dare troppa importanza a certe cose. Che sono soltanto più stanca del solito e per fortuna si avvicinano le vacanze. Torneremo in Kosovo e ti vedrò sorridere per davvero. Quel sorriso pieno di vita e gioia che mi ha fatto innamorare di te, quel sorriso che non vedo da tanto tempo. E chissà, forse i bambini hanno ragione a crederci. Forse ce la faremo anche noi ad avere una casa come quella del signor Luciano, a vivere una vita come quella degli italiani. Forse non è ancora troppo tardi.

Gezim Qadraku

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