Ero in metro quando mi è arrivato il messaggio, il treno era appena ripartito da Cadorna, la maggior parte delle persone era scesa. Seduto davanti a me c’era un ventenne alle prese con tabacco, filtro e cartine, lo stavo fissando quando ho sentito vibrare il telefono.
Era una notifica su Facebook, un messaggio in posta, l’ho aperto e ho letto il nome, Jetmira.
Il cellulare mi è caduto per terra. Il ragazzo ha lasciato quello che stava facendo, si è alzato e mi ha chiesto se andava tutto bene, chissà che faccia avevo. L’ho ringraziato, sono sceso a Lanza, anche se non è la mia fermata. Mi sono seduto e ho riletto un centinaio di volte il testo, era proprio lei e mi chiedeva come stavo, dov’ero e cosa stavo facendo.
Io e Jetmira eravamo in classe insieme alle elementari, un giorno qualunque improvvisamente scoprii di amarla. Abitavamo nello stesso paesino di campagna, la nostra scuola distanziava circa un chilometro dalle nostre case. La strada era tutta dritta, la facevamo sempre a piedi insieme ad altri nostri compagni. Mi ricordo tutto di quel periodo, quando di inverno uscivamo da scuola nel tardo pomeriggio ed era tutto buio, faceva freddo, ci stringevamo per scaldarci. La strada ghiacciata, facevano attenzione a non cadere.
D’estate invece non ne volevamo sapere di tornare a casa, stavamo a giocare nei campi fino al tramonto, fino a quando qualche genitore non veniva a prendere il proprio figlio e quello era il segnale che il gioco era finito.
Passai tanto di quel tempo a cercare un metodo per dirglielo, a voce proprio non ci riuscivo, mi vergognavo troppo. Come fai a dire ad una persona che da un momento all’altro ti sei accorto che la ami?
Dopo notti insonni e giorni trascorsi a cercare di trovare il coraggio di dirle il tutto, decisi di scriverle il classico biglietto, “vuoi stare con me?” e sotto un quadratino con il “si” e un quadratino con il “no”. Disegnai il quadratino del no un po’ più piccolino, giusto perché mi stava antipatico. Me lo ricordo bene il giorno in cui le diedi il bigliettino, arrivato alla vietta chiusa di casa mia, le presi la mano, le diedi il pezzo di carta e filai di corsa a casa, mi vergognai tantissimo. Non dormii tutta la notte, pensai e ripensai se andare a scuola o no il giorno dopo.
Se avesse sbarrato il quadratino del no? Che figura ci avrei fatto? Se invece avesse scelto il sì e io non fossi andato? Decisi di andare. La mattina seguente fu diversa delle solite. Nonno e papà sembravano due fantasmi, lessi nei loro volti la paura. Papà si limitò a dirmi che non sarei andato a scuola. Non capivo, nessuno parlava e tutti sembravano avere paura, guardavo fuori e tutto mi sembrava normale. Non me ne rendevo conto ma tutto stava per cambiare, i carri armati avevano chiuso la strada che portava alla nostra scuola, la guerra era arrivata anche da noi. Si sparava in tutto il Kosovo da qualche mese, ma eravamo convinti che da noi non sarebbero arrivati i fucili. Scappammo nel pomeriggio, ci rifugiammo nel bosco dietro al nostro paesino. Non rividi più Jetmira, non seppi più niente di lei, me la ero quasi dimenticata e invece…
Le ho risposto, ci siamo sentiti per tutta la serata, mi ha detto che è rimasta in Kosovo per tutta la durata della guerra, ora abita a Prishtina, insegna geografia e storia alle elementari.
Ho preso il primo biglietto aereo che ho trovato, ero impaziente di vederla, ero convinto che me l’avessero uccisa. E’ venuta a prendermi all’aeroporto, siamo andati a berci un caffè nel bar sotto casa sua. Appena ci siamo seduti ha tirato fuori dalla borsa un foglio di un colore che si avvicinava all’oro, il colore della carta che è sopravvissuta allo scorrere della vita. Me lo ha dato, l’ho aperto, era il bigliettino che le avevo dato l’ultima volta che ci eravamo visti.
Aveva sbarrato il quadratino del sì.
Ci siamo ritrovati, come si ritrovano tutti quelli che si amano.
Gezim Qadraku.