“Pari o dispari?”
“Pari”
“BIM BUM BAM”
“Due”
“Tre”
“Due e tre cinque, dispari mio. Scelgo…”
Iniziava tutto così. Il rituale prima di ogni partita era questo, il momento che dava il via alla sfida. Molte volte la scelta dei compagni risultava decisiva, chi sceglieva per primo partiva favorito. Spesso si decideva di far fare i capitani ai due più forti, così da essere sicuri che non giocassero insieme e che la partita, almeno teoricamente, sarebbe stata equilibrata. La scelta di per sé, non era un attimo cruciale solo per l’esito della gara, ma anche per la reputazione di ognuno. Il momento in cui venivi scelto era significativo, era la considerazione che gli altri avevano di te e in quell’istante capivi quanto i tuoi amici ti reputassero forte.
Il primo scelto era il fenomeno, quello che tutti volevano avere con sé, quello su cui tutta la squadra avversaria si sarebbe interessata durante la partita. Poi man mano si andava in ordine di bravura, più tardi venivi scelto meno possibilità avevi di intraprendere una carriera calcistica, almeno, a detta dei tuoi amici. I problemi che si presentavano potevano essere innumerevoli, e non erano sempre facili da gestire.
Primo e cruciale dilemma: “Chi sta in porta?”, su una cosa tutti erano d’accordo, il più forte non entra mai, si finiva sempre per fare a giro,
“Ogni due gol fatti o subiti si cambia, va bene?”
“Ok, ok, va bene”.
Ogni tanto nascevano litigate infinite, perché i compagni di squadra pensavano che il malcapitato portiere di turno facesse apposta a subire gol per poter uscire, la verità era che nessuno ci sapeva fare tra i pali.
Un’altra questione di attrito prendeva forma se i partecipanti alla partita erano dispari o, ancora peggio, se una volta iniziata la sfida arrivava il solito ritardatario che voleva assolutamente giocare.
“Posso giocare?”
“Non è mio il pallone”.
Il proprietario della sfera aveva diritto di veto, ogni sua decisione doveva essere accettata, nessuno poteva ribattere. Se ci si stava divertendo in quel momento, gran parte del merito era suo, perché aveva messo a disposizione il pallone.
Si giocava ovunque, in oratorio, al parco, in strada, nei parcheggi, in qualsiasi posto si potessero creare due porte, anche immaginarie, e dove ci fosse un po’ di spazio per farci stare tutti quanti.
Si giocava in qualsiasi stagione, in qualsiasi orario, prima di entrare a scuola, all’intervallo, una volta finita la scuola. La giornata ideale dei tre mesi di vacanze estive era composta da una partita della durata infinita. L’importante era essere almeno in quattro, due contro due e si sognava. Ci si presentava con la maglia del proprio idolo, comprata al mercato o alla bancarella fuori dallo stadio a pochi euro, ma quella non era una semplice maglietta, noi con quella addosso, ci sentivamo dei supereroi.
Mentre si giocava si improvvisava la propria telecronaca, se per caso non si indossava la maglietta del proprio idolo, si diceva di essere un determinato calciatore e si urlava il suo nome ogni volta che si era in possesso di palla.
Un altro enorme problema è sempre stato quello della traversa, solitamente un gol veniva convalidato se la palla non superava la testa del portiere, ma c’erano situazioni in cui si perdeva un’eternità e ci si guardava intorno se qualcuno dal pubblico, si avevamo anche il pubblico, avesse visto con esattezza.
La strada, i campi di terra, di cemento e di erbacce erano il nostro San Siro e i ragazzini che passavano di lì e si fermavano a guardare erano i nostri 80mila tifosi.
Sognavamo, lo facevamo ad occhi aperti e con la palla tra i piedi. Ogni tanto ci si fermava, giusto per prendere un po’ di fiato, ma il centro dell’attenzione era sempre lui, il pallone.
In quei momenti ognuno prendeva le difese dei propri colori, ci si prendeva in giro per il derby vinto, per la posizione in classifica della propria squadra, per il numero di campionati e per tante altre cose. Mentre si faceva tutto questo si sperava di poter indossare, un giorno, la maglia originale della nostra squadra, con dietro il nostro cognome e non quello del nostro idolo. Poi tutto ricominciava, altra sfida, altri gol, altre corse.
Capitava a volte di trovare una sola porta libera e allora si giocava a undici, o a ventuno. Il portiere partiva con un punto in più e il gioco consisteva nel segnare al volo. Se si tirava fuori o il portiere la parava al volo, si entrava in porta. Ogni gol subito si perdeva un punto, di testa valeva due punti, di tacco tre, di rovesciata cinque (mai visto nessuno fare gol in rovesciata). Non sono mai riuscito a concludere una partita di questo gioco, ogni ritardatario poteva infiltrarsi senza che nessuno facesse polemica.
Ci si dimenticava dell’orario, finché qualcuno non salutava all’improvviso e se ne andava correndo perché era in ritardo. Quello era il segnale, ci si salutava in fretta e tutti a casa correndo. La scena era sempre la stessa, la cena era pronta, la mamma preoccupata che te ne diceva di ogni e minacciava di non farti uscire il giorno dopo, ma puntuale arrivava lo sguardo rassicurante di papà, che era solo felice di avere un figlio che correva tutto il giorno dietro il pallone. Allora passavi tutta la cena a raccontargli quanti gol avevi fatto, quanto era finita la partita e soprattutto quando eri stato scelto.
Mi mancano quei tempi, le giornate passate a calciare quella sfera con gli amici di sempre, i tardi pomeriggi seduti su un marciapiede a raccontare agli altri le proprie prodezze. C’era della magia nell’aria, c’era la magia dei sogni, la voglia di rifare dal vivo quello che vedevi in televisione, c’era la magia del calcio di un po’ tempo fa. Eppure non sono passati così tanti anni, ma sembra che tutto all’improvviso sia cambiato.
Non vedo più palloni passare in mezzo alla strada, non sento più nessuno urlare “MACCHINAAA“, non vedo più ginocchia insanguinate per aver voluto salvare un gol.
Capita che ripensi a quelle sfide, a quei gol fenomenali, sì perché al parchetto o in oratorio eravamo tutti dei fenomeni, su questo c’è poco da discutere.
Siamo i nostri ricordi, siamo ciò che abbiamo passato, e noi abbiamo trascorso gran parte della nostra esistenza dietro a quella magica sfera. E’ solo uno sport dicono gli altri, noi ridiamo e torniamo indietro nel tempo, ai nostri ricordi, alle nostre sfide, ai nostri gol.
“Pari o dispari?”
“Pari”
“BIM BUM BAM”
“Due”
“Tre”
“Due e tre cinque, dispari mio. Scelgo…”
Gezim Qadraku.