Sono all’aeroporto. Aspetto un amico che torna da Londra dopo due mesi di lavoro. Lo speaker annuncia che l’aereo è in ritardo di mezz’ora. Non avendo molte opzioni decido di intraprendere una camminata senza meta. Vago per un po’, finché non raggiungo i gate delle partenze.
La mia attenzione viene subito catturata da un bambino e quello che dovrebbe essere suo padre. Mi rapisce il modo in cui il piccolino è incollato al genitore. Mi siedo su una panchina e continuo a osservarli. Già me lo immagino come andrà a finire questa storia.
Dopo un paio di minuti il padre abbraccia la sua donna con un gesto commosso e profondo. Restano attaccati l’uno all’altra per un tempo indefinito. Quando si staccano, entrambi hanno gli occhi lucidi. Lui un po’ meno, mentre lei non riesce proprio a trattenere le lacrime. È un colpo al cuore guardarla, mi fa male. Cerca di nascondere la commozione guardando in alto e sistemandosi gli occhiali da sole. Non vuole che il bambino la veda in quello stato.
Il padre si sta trattenendo perché ora arriva la parte impossibile. Si abbassa verso il suo piccolino, gli accarezza i capelli e tira fuori un sorriso forzato, combattuto, mentre riesce nell’esercizio complicatissimo di mantenere le lacrime all’interno del suo corpo. Riesco ad avere un’idea chiarissima della potenza del nodo alla gola che sta provando.
Lo abbraccia forte e il figlio si aggrappa letteralmente al suo corpo. È un’istantanea, un flash. Ci dovrebbe essere qualcuno – per ognuno di noi – che fotografa o riprende certi attimi della nostra esistenza. Quel gesto andrebbe mostrato nelle scuole per spiegare il significato di genitore, di figlio, di famiglia.
È impossibile pensare che quei due corpi possano staccarsi. Sarebbe come chiedere, o aspettarsi, che un evento naturale smetta di seguire il suo corso. Domandare ai fiori di non sbocciare in primavera o all’acqua dei fiumi di non nutrire i mari. Non lo si può fare.
La madre è costretta a fare ciò che non vorrebbe. Tira a sè il bambino con un gesto rapido, tentando in qualche modo di ridurre il dolore. Come se fosse possibile.
Leggo il labiale del padre: “torno presto”.
Il bambino lo sa che gli sta mentendo e scoppia in un pianto scrosciante. Si gira e abbraccia le gambe della figura materna. Lei guarda il suo uomo, gli accarezza dolcemente il viso e gli dice di andare. In cuor mio, egoisticamente, auguro a me stesso di avere la fortuna di trovare una donna del genere.
Lui guarda il piccolo e poi volta le spalle alla sua famiglia.
È assordante il vuoto che si viene a creare. Per un attimo penso che tutto l’aeroporto si sia fermato e li stia osservando. Non sento nulla. Riesco solo a percepire il dolore di quelle tre persone che aumenta vertiginosamente ogni secondo che passa.
Le conosco queste storie. Le ho già sentite quelle parole. Lo so come si sente quel bambino. Non capisce perché il padre stia facendo una cosa così tremenda come andare a lavorare in un posto lontano. Si sente tradito e non ha torto. Ma quello che non sa è che il padre sta facendo quella brutta cosa solo per lui. Per non fargli mancare nulla ora che è piccolo e soprattutto per potergli, in un certo modo, assicurare un futuro quando sarà grande.
Lo capirà quel bambino, comprenderà tutto questo quando sarà cresciuto. Ma ora non gli importa. Adesso vuole soltanto avere suo padre lì con lui per giocare e andare a mangiare il gelato insieme.
Quello che il padre invece non sa è che si perderà per sempre pezzi di vita del figlio. Si lascerà scappare giorni, mesi e forse anni. Questo durerà finché non riuscirà a portarselo con sé o deciderà di tornare. Potrà capitare, se il periodo di distanza si dovesse prolungare per troppi anni, che quel figlio non sarà in grado di riconoscerlo e andrà nelle braccia di qualcun altro quando lui sarà tornato.
Chiederà a sua madre: “chi è quest’uomo?”.
E allora quel padre si addosserà tutte le colpe del mondo. Si domanderà se ne valeva la pena far soffrire la propria creatura. Vivere lontano dalla sua famiglia e poi tornare per non essere riconosciuto.
Ciò che si sono domandati almeno una volta nella vita tutti quelli che hanno lasciato la propria terra: “ma ne valeva veramente la pena?”
Già, come se un semplice essere umano fosse in grado poter rispondere a un quesito del genere.
Do un’ultima occhiata a quel bambino e mi tornano in mente i racconti di mia madre. La foto di noi tre, con mio padre che mi teneva in braccio pochi giorni dopo la nascita accanto a mia madre, che le chiedevo di baciare prima di addormentarmi mentre lui non c’era. Quando poi lui tornò e le dissi di farlo dormire sotto il letto, quell’uomo.
Non lo chiamavo più papà. Era diventato quell’uomo. Ne era passato di tempo da quando era andato via e io ero soltanto un bambino. Non avevo colpe, neanche mio padre ne aveva. Non è colpa di nessuno in realtà, è la vita.
Mi sono sempre chiesto come si sia sentito lui, ma non ho avuto mai il coraggio di domandarglielo direttamente.
Esco fuori a fumarmi una sigaretta e prego che nessun padre debba essere costretto a prendere decisioni del genere.
Gezim Qadraku.