“Gli uomini, per legge di natura, si dividono, in generale, in due categorie: la categoria inferiore (quella degli uomini ordinari), che è, per così dire, composta di materiali che servono unicamente a procreare individui simili a loro, e quella degli uomini veri e propri, che hanno il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova. La prima categoria è sempre padrona del presente, la seconda è padrona dell’avvenire. Gli uomini della prima conservano il mondo e lo aumentano numericamente; quelli della seconda muovono il mondo e lo conducono verso la meta“.
Scriveva così, lo scrittore russo Fedor Dostoevskij.
C’è stato un calciatore, che più di tutti, è riuscito nell’impresa di rivoluzionare il calcio e condurlo verso la meta, si chiamava Johan, era olandese e vestiva la maglia numero 14.
Nacque due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il padre gestiva un negozio di frutta e verdura, la madre faceva la lavandaia, abitavano a soli 300 metri dallo storico stadio dell’Ajax, il De Meer.
L’attrazione fu fatale per il piccolo Johan, decise che il calcio sarebbe stato il suo sport, non poteva essere altrimenti.
A scuola non andava benissimo: “potrebbe impegnarsi di più“, scrivevano i professori sulla pagella.
Sì, poteva, ma le sue energie le custodiva per le partitelle in strada con gli amici.
La strada fu il suo primo palcoscenico, lì dove sei costretto a pensare in fretta, perché di spazio non ce n’è abbastanza e devi essere intelligente a trovarlo, lì dove devi stare attento a non cadere, altrimenti ti fai male.
Si innamorò dell’Ajax, diventò la mascotte della squadra, seguiva le partite, aiutava il magazziniere a sbrigare le faccende del campo e a dieci anni, senza fare alcun provino, venne tesserato dai Lancieri.
A soli dodici anni perse la figura paterna, la prima squadra adottò il piccolo Johan e la società trovò un lavoro alla madre. Era ancora un bambino dai piedi piatti e le caviglie deformi, ma tutti si erano accorti di avere tra le mani un vero e proprio diamante.
Il debutto tra i professionisti arrivò a soli 17 anni, era il 1964 e ad Amsterdam si incominciava a respirare profumo di rivoluzione. L’anno successivo infatti, i Provos anticiparono i movimenti di massa socialmente eterogenei del sessantotto.
Avevano come simboli, le biciclette bianche e le mele, trattavano temi che nessuno sembrava conoscere, in un paese ricco come l’Olanda, pacifismo, ecologia, libertà sessuale e liberalizzazione delle droghe leggere.
Amsterdam divenne la capitale della controcultura. L’ennesima prova di una paese sempre un passo avanti rispetto agli altri, da lì a pochi anni dimostrò di esserlo anche nel calcio.
All’Ajax arrivò colui che verrà eletto allenatore del XX secolo, Rinus Michels.
Un genio che diede il via alla rivoluzione calcistica più importante della storia di questo sport, il padre del calcio totale, fu lui il primo a portare la coppa dei campioni ad Amsterdam, prima di lasciare i Lancieri nel loro miglior momento.
L’Ajax di Cruijff vinse tre Coppe dei Campioni di fila, l’Europa venne conquistata dai bianco rossi, la rivoluzione era riuscita, il calcio era stato completamente cambiato.
C’è stato un prima e un dopo Cruijff, il simbolo di questo cambiamento non poteva che essere il suo numero di maglia, il 14. Diverse sono le leggende dietro a questa decisione, si dice che l’avesse scelto lo stesso Johan perché a quattordici anni aveva vinto il primo campionato, altri dicono che in una partita, ad un suo compagno mancasse la maglia, lui gli prestò la sua e prese la 14.
Qualsiasi sia la verità, questo è stato un ulteriore simbolo in grado di descrivere chi era Cruijff. All’epoca i titolari utilizzavano i numeri dall’uno all’undici, lui decise per il 14 e “obbligò” gli altri ad accettare la sua decisione.
Con la rigidità delle regole non ebbe mai un buon rapporto l’olandese.
Dopo aver conquistato l’Europa, lasciò l’Ajax e firmò per il Barcellona. Venne accolto come un Dio, e come tale si comportò in campo. Permise ai Blaugrana di vincere la Liga e poi volò in Germania per disputare i mondiali di calcio.
Era all’apice della sua carriera, oltre ai successi in Europa aveva vinto due palloni d’oro e mancava solo quella coppa oro nella sua bacheca. L’Olanda mostrò un calcio stupendo, incantò e distrusse tutti gli avversari e naturalmente si qualificò per la finale.
L’avversario era la Germania ovest, nel primo minuto di quella partita andò in scena la più bella rappresentazione del calcio, mai vista nella storia.
Furono gli olandesi a battere il calcio d’inizio, effettuarono sedici passaggi in un minuto, Cruijff ricevette la palla a centrocampo (in quel momento era l’uomo più basso degli Orange), effettuò un’accelerazione in verticale, entrò in area e venne steso, calcio di rigore. Neeskens segnò, uno a zero Olanda. La Germania non aveva ancora toccato palla.
Nonostante la superiorità olandese e la lezione di calcio impartita all’inizio del match, a vincere la competizione furono i tedeschi. Perché, come scrisse Dimitrijevic:
“il calcio è un gioco che si gioca con due squadre di undici giocatori, un pallone e un arbitro, in cui, alla fine vince la Germania“.
Vinse un altro pallone d’oro, la sua carriera continuò tra Spagna, un’avventura negli States e il ritorno in Olanda.
In campo fu ossessionato dallo spazio, non aveva una posizione fissa, vagava per il rettangolo di gioco e riguardando le sue immagini sembra che avesse una calamità che attirava su di sé tutto quanto, palla, avversari, tifosi e arbitri.
Dava l’idea di avere tutto sotto controllo, disse che aveva la capacità di capire in anticipo cosa sarebbe accaduto. Era avanti di due o tre pensieri rispetto agli altri, era in grado di ricoprire qualsiasi ruolo.
“Non è un attaccante, ma fa tanti gol; non è un difensore ma non perde mai un contrasto; non è un regista ma imposta il gioco in ogni zona del campo e gioca il pallone sempre per i compagni“. (Alfredo di Stefano).
Faceva tutto quello che voleva con la palla, ma anche senza perché era dotato di un intelligenza tattica che pochi hanno, aveva la visione di gioco del miglior regista, ciò gli permetteva di dispensare palle al miele per i propri compagni.
Ogni sua azione era accompagnata da eleganza e naturalezza sublimi.
Fu in grado di cambiare anche la concezione del calciatore come mestiere, il primo a trasformarsi in un calciatore-azienda, il primo a dare importanza agli interessi dell’atleta.
Riuscì a mettere a disagio anche gli sponsor. Nel mondiale del 1974, l’Olanda aveva come sponsor l’Adidas, ma il giocatore più rappresentativo, Johan, vestiva Puma. Fu l’unico ad indossare maglietta e calzoncini con due strisce, invece che le tre storiche del marchio tedesco. Non era l’unico a vestire Puma, il suo compagno Haan condivideva con lui questa scelta. Haan però giocò con la maglia e calzoncini a tre strisce, giusto per farvi capire cosa voleva dire essere Cruijff.
Conclusa la carriera da calciatore, si sedette in panchina.
Non fu da meno neanche da allenatore, vinse con l’Ajax, ma con il Barcellona riuscì nel miracolo. Portare la prima Coppa dei Campioni in Catalogna. Era il Dream Team, con Koeamn, Guardiola, Laudrup, Romario e Stoickov.
Da allenatore arrivò la sconfitta più bruciante della sua vita, nella finale di Champions League del 1994, contro il Milan di Capello. Prima della gara l’olandese si autoproclamò vincitore della competizione e gli spagnoli si fecero fotografare con la coppa.
Il Milan vinse quattro a zero.
Johan era fatto così, se doveva cadere lo faceva con le sue idee, così ha fatto per tutta la vita. Anche da allenatore portò avanti l’idea di un gioco divertente, spregiudicato, totale, per lui era importante mostrare un bel gioco, non solo vincere.
“Alla radice di tutto c’è che i ragazzini si devono divertire a giocare a calcio“, sembra quasi banale questa sua dichiarazione, ma questa è la vera forza di chi nel calcio è riuscito a fare la differenza. Giocare divertendosi, senza pressione, lui poteva farlo perché
era consapevole di essere un genio, questo lo ha portato ad avere una forza interiore che è stata la sua caratteristica più importante. In egual misura alla dedizione e alla tenacia che dimostrava negli allenamenti, era ben consapevole dell’importanza fondamentale che l’allenamento ha per un atleta.
La natura pensò bene di dotarlo anche di tecnica e intelligenza smisurate, in modo tale da permettere agli amanti del calcio di poter osservare in lui la personificazione del calcio.
In un uno scambio di battute, Jorge Valdano si sentì dire dall’olandese “ragazzino, a ventun anni a Cruijff si da del lei“.
Su questo non sono d’accordo con Johan; a Cruijff, del lei, bisogna darglielo sempre.
Gezim Qadraku.
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